Tullio Carere_Paura
Tullio Carere Paura I . Introduzione II . Cherchez la peur III . Sogno o son desto? IV . Polli metropolitani V . Il sigaro di Freud VI . Piccoli mostri VII . Il monito di Apollo VIII . Della madre e del padre IX . Dello scienziato e del mistico X . Platone versus Freud XI . La casa-base XII . Se il grano non muore XIII . Un gallo ad Asclepio XIV . Ubi maior Paura I . Introduzione Che cosa avete pensato leggendo il titolo e il sottotitolo di questo libro? Forse qualcosa del tipo: il solito manuale similamerikano per il fai da te? (La kappa sta per il fastidio che l’intellettuale europeo medio prova per quello che identifica come il peggio dell’american way of life: faciloneria, pensiero ingenuamente positivo e soprattutto l’esecrabile do-it-yourself. Perché, se fosse veramente possibile fare da sé, nella fattispecie pensare con la propria testa, a che cosa servirebbero allora gli intellettuali? No, sono sicuro che non avete pensato niente del genere. Lo so perché in tal caso non avreste nemmeno aperto il libro e ora non stareste leggendo queste righe. Visto che invece le state leggendo, sono autorizzato a presumere che: primo, non fate un uso smodato di difese intellettuali per proteggervi dalle vostre paure; secondo, ne avete ancora un pacchetto che la vostra analisi pluriennale non è riuscita a smaltire; terzo (riservato a coloro che non hanno alle spalle diversi anni di analisi), ritenete che non sia un’eresia pensare di fare qualcosa per le vostre paure senza passare per una lunga analisi e forse nemmeno per una psicoterapia breve. Adesso che so qualcosa di voi, mi sembra giusto che anche voi sappiate qualcosa di me. Vi dirò dunque che sono uno psichiatra e uno psicoterapeuta. Sapete certamente che il primo titolo compete a un medico specializzato in malattie mentali. Quanto al secondo, credo che la definizione più prudente sia questa: qualifica spettante a medici e psicologi provvisti dei requisiti di legge necessari per entrare negli elenchi degli psicoterapeuti istituiti presso i rispettivi ordini provinciali. Questo non vi dice niente? Avete ragione, infatti non dice niente. Ma è un niente che ha uno scopo: quello di non sfiorare neanche il vespaio di questioni - terapeuta doc o selvaggio? e di che indirizzo? e che differenza c’è con un analista? - che in questa fase della nostra conoscenza rischierebbero di concluderla prematuramente. Sono tempi frenetici, la vostra attenzione è sollecitata da ogni parte. Se sono stato così fortunato da ottenerla per qualche attimo, debbo dirvi in fretta qualcosa che la persuada a restare qui ancora un poco. Ecco, vedete, ho paura che ve ne andiate. La paura più terribile per un autore, quella di essere abbandonato, o peggio, nemmeno preso in considerazione dai suoi potenziali lettori. Ma converrete che questo sentimento non è privo di utilità: infatti, avvisandomi del pericolo che corro di non essere letto, mi invoglia a non perdermi in chiacchiere e a cercare di produrre uno scritto meritevole dell’attenzione che vuole ottenere. D’altra parte, l’idea di essere ignorato da voi potrebbe spaventarmi al punto di spingermi al tentativo di sedurvi con la promessa di risultati rapidi e spettacolari, e magari anche a intrattenervi raccontandovi qualche storiella. In tal modo disgusterei e mi alienerei i lettori più seri, mentre conquisterei - se mai riuscissi a conquistare qualcuno - quel tipo di pubblico che si entusiasma facilmente per qualsiasi novità, purché non impegnativa. Come vedete bene dal mio caso personale, la paura è un sentimento che può essere molto utile, quando avverte di un pericolo e aiuta a prevenirlo, ma anche superfluo o francamente dannoso, quando induce a comportamenti impropri e irrazionali. E allora permettetemi di farvi una domanda diretta: siete sicuri di saper distinguere bene le due condizioni? E, nel caso abbiate risposto affermativamente: disponete di strategie adatte a far fronte ai due tipi di circostanze? Se la vostra risposta è nuovamente affermativa, voi non avete bisogno di leggere questo libro, sono io che avrei piacere di conoscervi. Se invece avete risposto di no ad almeno una delle due domande, quanto segue potrebbe fare al caso vostro. Supponiamo, per un momento, che avesse ragione Tolstoj, quando diceva che lo scopo della vita è la gioia: se la gioia si affievolisce, vuol dire che in qualche punto abbiamo commesso un errore. Cioè ci siamo fatti prendere da qualche paura. So di potervi sottoporre questa ipotesi. Gli intellettuali infastiditi dall’ottimismo amerikano non lo sono di meno da quello russo, ancora più sfrenato: ma non debbo preoccuparmene perché, come ho già appurato, la loro eventuale presenza tra i miei lettori sarebbe casuale e non significativa. Alla base di questa ipotesi c’è la constatazione che la gioia è apparentata con uno stile di vita rilassato, mentre chi ha paura è teso e dunque non si gode la vita. D’accordo, non mi avete prestato la vostra preziosa attenzione per farvi propinare simili banalità. So che cosa volete dire: come si fa a essere rilassati in un mondo come questo? Con l’incertezza del posto di lavoro, la microcriminalità diffusa, i conflitti tribali dal Congo alla Padania, la pressione fiscale e il debito pubblico in costante aumento. Permettetemi di rispondervi con un’altra domanda: siete sicuri che la vostra tensione nervosa e muscolare sia un valido contributo alla soluzione dei mali del mondo, e dei vostri in particolare? Non credo. Combattere a volte serve, a volte no. E allora perché pompare adrenalina in continuazione nel vostro sistema circolatorio? Senza contare che si può essere rilassati anche quando si combatte, anzi si combatte meglio. Ma torniamo all’ipotesi. Se ho deciso di scrivere un libro sulla paura, non è stato per angosciare voi, e ancor meno me stesso; come potreste giustamente sospettare, visto ciò che correntemente si pubblica, si proietta e si manda in onda. Il motivo principale per cui sto scrivendo è che mi piace scrivere. E siccome mi piacerebbe anche essere letto, ho scelto un tema che spero vi interessi. Se riesco a unire l’utile al dilettevole, è fatta, non chiedo altro. Dunque, per quanto mi riguarda io adotto l’ipotesi di Tolstoj. La scrittura - come qualsiasi altra cosa - in linea di principio dovrebbe essere (anche) un piacere. Se per me cessasse di esserlo, mi riprometto di fermarmi e di stanare la paura che in quel momento mi starà sabotando. Sarà quella di scontentare il lettore? O di non arrivarci nemmeno al lettore, se non trovo un editore? O piuttosto di non trasmettere un messaggio abbastanza epocale? (In quest’ultimo caso scontenterei il superio). Basta, una paura che paralizza l’azione e il godimento è soltanto un parassita che va schiacciato senza pietà. A patto, naturalmente, di non confondere il peccato (la paura) con il peccatore (il pauroso). Se il primo merita disprezzo, il secondo va aiutato. Qualche esperienza di aiuto del pauroso che sono stato e sono io stesso e di pochi altri ce l’ho, quanto basta per sentirmi autorizzato a scriverne. Cosa che sicuramente aiuta me. Se possa essere di aiuto anche ad altri per il momento è solo un’idea temeraria, perché so per esperienza quotidiana con quanta tenacia e passione, con quale impegno e vigore sia rifiutato anche l’aiuto espressamente richiesto e ben pagato. Figurarsi quello non richiesto e pagato le poche lire del prezzo di copertina. Ma tant’è. Io scrivo per il mio piacere, il resto - se c’è - è in più. Vi sembra eccessivo il mio sfoggio di edonismo? Forse avete ragione. Sto cercando di allontanare il sospetto di voler salire in cattedra o sul pulpito? E’ un dubbio che non mi turba più che tanto, per la verità. Se mi va di predicare, predico. Se qualcuno ha voglia di ascoltarmi, sono affari suoi. Io ci salirei anche volentieri in cattedra, se questo volesse dire - cosa che normalmente non vuol dire affatto - che ho una perfetta padronanza teorica e pratica della mia materia. Nel caso specifico, che so perfettamente come trattare le paure mie e altrui. Sarebbe come dire che sono completamente guarito e ho raggiunto la pace della mente. Anche se mi conoscete solo da dieci minuti, avete già l’impressione che questo non sia il mio caso. Quindi, tanto vale parlar chiaro: questo libro è un work in progress, un cantiere aperto, in cui ho un progetto di massima ma nessuna idea di quello che dirò nel prossimo paragrafo. Del resto, la ricerca del godimento nella scrittura è un’operazione intrinsecamente contraddittoria. Infatti, se voglio divertirmi non posso darmi un piano di lavoro e obbligarmi a seguirlo in modo metodico e pedante, ma debbo permettermi di scrivere quello che mi passa per la mente. Salvo che questo procedimento, come tutti sanno nel secolo della psicoanalisi, è atto a scompaginare il fragile e ingannevole ordine della mente, aprendo varchi perturbanti nel suo tessuto delicato. Dalle smagliature così prodotte occhieggia temibile l’inconscio, con le sue figure inquietanti e impresentabili. Come vedete, la ricerca del piacere è una pratica che ha effetti secondari tali da scoraggiare chi la intraprende, consigliando piuttosto percorsi di più basso profilo. Insomma, che vi piaccia o no, la gioia e la paura sono unite da un comune destino: per trovare l’una dovete liberarvi dell’altra, eppure questa stessa ricerca vi espone a un rigurgito di paure ancestrali che sono lì proprio perché voi stessi le avete evocate, allentando le difese che le tenevano a bada. Non sapete di che cosa sto parlando, perché per voi la scrittura non è particolarmente associata al godimento? Ma allora andiamo al prototipo, al modello originale, alla fonte stessa del piacere: il sesso. Avete imparato, a vostre spese, che la capacità di godere è direttamente proporzionale a quella di lasciarvi andare, di mollare gli ormeggi e sciogliere le vele al vento. E se la seconda, come spesso accade, è scarsina, anche la prima purtroppo non è un granché. Lo so, potete abbandonarvi senza remore al flusso del desiderio se l’oggetto del medesimo è stampato a colori su carta patinata. Oppure, se l’oggetto è in carne e ossa, bisogna che sia severamente proibito o che comunque sussista un serio ostacolo al suo raggiungimento. O, in alternativa, può bastare che esso sia definibile come preda, o sia così debole e indifeso da scatenare i vostri peggiori istinti di protezione. In breve: occorre che l’oggetto non vi faccia paura. Ma lo sapete, poi, di aver paura? Forse no. Forse vi limitate a prendere atto di un’incomprensibile caduta del desiderio. Non riuscite a capire come mai la vostra donna, che era così desiderabile quando ancora vi teneva sulla corda, adesso che è la vostra legittima consorte vi eccita molto, ma molto meno. Forse non vi ponete nemmeno il problema: pensate che sia normale, visto che succede più o meno a tutti. Così come è normale adempiere sempre più stancamente al vostro dovere coniugale; e come è legittimo prendervi qualche risarcimento fuori delle mura domestiche. Perché, in fin dei conti, l’uomo è cacciatore (come la donna del resto, da quando si è emancipata). Se invece sapete che il sesso vi fa paura, anche senza sapere perché, il vostro livello di consapevolezza è già superiore alla media. Il sesso come la scrittura, la pittura come la danza: qualsiasi attività che presuppone apertura e abbandono rende vulnerabili e espone al pericolo. Ci aggrappiamo all’idea che il nemico sia esterno, e solo a malincuore rinunciamo a questa consolazione e ci avviciniamo all’orribile verità: il nemico principale è dentro di noi. Ma per queste cose ci sarà tempo più avanti, se avrete la bontà di seguirmi. Per adesso mi preme solo chiarire il nesso tra godimento e paura. Renderlo chiaro a voi, ma anche a me stesso: altro buon motivo per scrivere. Spesso le cose mi si chiariscono nel momento in cui cerco di chiarirle a qualcun altro, e per questo ho bisogno che qualcuno abbia bisogno di me (avevate ragione, la mia motivazione non è puramente edonistica). Potrei esprimere così il nesso in questione: inizio a scrivere per il piacere di scrivere; il piacere mi deriva dall’abbandonarmi al flusso associativo, nella libertà da ogni schema; l’abbandono al fluire delle idee, degli eventi e delle cose avvicina al cuore pulsante della vita, ma fa spavento, perché spazza via ogni ordine stabilito e ogni certezza; la paura stimola reazioni di difesa; le difese fanno argine al flusso vitale, lo normalizzano e possono anche arrestarlo del tutto; con il ritorno alla normalità finisce il piacere di scrivere e di fare qualsiasi altra cosa; rimane solo il funereo e illusorio piacere di avere tutto sotto controllo. Va bene, siete riusciti a incasellarmi, finalmente: sono un vitalista. Non lo avete pensato? Se no, ve ne sono grato. Se sì, vi prego di non avere troppa fretta. Lo riconosco, il paragrafo precedente è percorso da uno slancio vitalistico. Posso arrivare ad ammettere che c’è un vitalista in me (come c’è uno psichiatra e uno psicoterapeuta). Ma che io lo sia, questo non dovete pensarlo. E allora chi sono io veramente? Non vi aspetterete che ve lo dica. Non per giocare a nascondino, ma per l’ottima ragione che non lo so. Questo mi dà una buona lunghezza di vantaggio su di voi, se credete di saperlo: di sapere chi siete, intendo dire. Se invece non lo credete, sono contento di avervi incontrato, come lo sono tutte le volte che trovo un compagno di viaggio. Perché è chiaro, una volta capito che non sappiamo chi siamo, il nostro destino è segnato: l’unica cosa sensata da fare è cercare di scoprirlo. Infatti, se pensate di essere un padre di famiglia, dedicherete tutte le vostre energie alla sicurezza e al benessere dei vostri cari. Se credete di essere un insegnante, metterete l’anima nell’insegnamento, e sarete di conseguenza amaramente delusi dai vostri allievi come il padre lo sarà dai suoi figli ingrati. Lo stesso se credete di essere un prete, uno psichiatra o qualsiasi altra cosa. Ma c’è di peggio. Se credete di essere un dirigente d’azienda cinquantenne, e la vostra azienda vi manda a spasso, che fate? E se credete di essere un commerciante o un libero professionista e restate senza clienti? Siamo vicini al terrore puro, non è vero? Così torniamo al nostro tema. Non pensiate che lo perdo di vista, anche se divago un poco. Non possiamo capire la paura senza affrontare il tema dell’identità, perché quando questa è minacciata si scatenano i terrori più devastanti. Un credente può lasciarsi scannare per il suo credo, e con la stessa serenità può scannare i credenti di chiese concorrenti che mettono in dubbio le verità della sua fede. La vita, propria e purtroppo anche altrui, conta poco, di fronte all’imperativo di difendere l’identità individuale o di gruppo. Angoscia è il nome che spesso si dà alla paura, quando la minaccia riguarda il nostro stesso io. Distinzione sottile e poco significativa, a mio parere, perché la paura segnala sempre una minaccia, reale o presunta, a qualcosa con cui siamo identificati: il nostro corpo, la nostra immagine, i nostri legami, le nostre idee, il nostro portafogli. E quanto più noi siamo il nostro corpo, la nostra immagine, eccetera, tanto più diventiamo cibo per l’angoscia, che si installa stabilmente dentro di noi e si dedica con solerzia al suo lavoro, che è quello di roderci le viscere. Vecchia storia, direte voi. Già Seneca scriveva a Lucilio: non confidare in nulla di ciò che può esserti tolto. Peccato che le cose che ci possono essere tolte siano di gran lunga le più desiderabili. Tolte queste, che cosa rimane per cui valga la pena vivere? Anzi, siamo sicuri che rimanga ancora qualcosa, se togliamo quelle sopraelencate: il corpo, l’immagine, i legami, le idee, il portafogli? Ribadisco, se per caso ce ne fosse bisogno, che io non sono sicuro di niente. Ma, voi mi chiedete, il sottotitolo di questo libro non recita Istruzioni per l’uso? E dunque, dopo aver evocato la precarietà e caducità della nostra vita, non sono tenuto a istruirvi sul da farsi? Giusto. Visto che mi sono preso questo impegno, desidero ora precisarne il senso e i limiti in modo che voi, una volta terminato di leggere il capitolo introduttivo, possiate procedere nella lettura con una minima cognizione di causa o, per la stessa cognizione, abbandonarla. In sintesi vi ho detto: a) che è possibile distinguere tra paure utili, che orientano l’azione all’evitamento e alla prevenzione dei pericoli, e paure superflue o dannose, che paralizzano o inducono a comportamenti abnormi; ed è pertanto possibile, ma oserei dire necessario, cercare di fare buon uso delle prime e di sbarazzarsi delle seconde. E b): che con questo scritto vi invito a partecipare a un’avventura carica di incognite tanto per voi quanto per me. Nel punto a) mi presento come un esperto, vale a dire come uno che ha accumulato una certa esperienza in un certo campo e desidera comunicarla a suoi simili (istinto tipico dell’Homo sapiens). Converrete con me, spero, che noi ci distinguiamo dagli altri primati per la facoltà di giovarci - grazie al linguaggio - dell’esperienza altrui, oltre che per la straordinaria riluttanza a servirci di questa e in generale delle nostre specifiche attitudini, in quanto basate sull’uso del raziocinio. L’esistenza stessa dei libri attesta la fiducia, molto spesso ma non necessariamente mal riposta, nella trasmissibilità dell’esperienza mediante carta stampata. Per quanto mi riguarda, ho già detto che non mi faccio soverchie illusioni. Mi riterrei molto soddisfatto se andasse a segno, in un piccolo numero di casi, la provocazione che intenzionalmente lancio e che potrei esprimere così: caro lettore, forse tu possiedi la rara capacità di guardare in faccia le tue paure con il solo aiuto di chi ti è vicino e di un manualetto come questo. Se così non fosse, mi auguro che questo libro ti serva almeno a prenderne atto e ti persuada a cercare l’assistenza di cui hai bisogno. Nel qual caso avrei da darti qualche consiglio su come muoverti nella giungla delle psicoterapie senza farti catturare da qualche predatore e su come negoziare la relazione col tuo terapeuta, quando ne avrai trovato uno. Nel punto b) io scendo dalla posizione dell’esperto a quella di colui che sta facendo un’esperienza, nella fattispecie quella di scrivere. Ho già chiarito che per me il punto b) è più importante del punto a). Infatti, se privilegiassi quest’ultimo, il mio obiettivo primario dovrebbe essere quello di trasmettervi l’esperienza che ho già fatto, e che ho accumulato e stipato sotto forma di nozioni e concetti. Un’operazione che annoierebbe anche me, posso immaginare l’effetto che avrebbe su di voi. Se viceversa antepongo l’esperienza in fieri a quella già avvenuta e cristallizzata, ho almeno qualche speranza di risvegliare il vostro interesse per un tema che rispetto al piacere è esattamente agli antipodi. Bene, credo che questo possa bastare come introduzione. Adesso sapete pressappoco che cosa potete aspettarvi. Se decidete di andare avanti, lo fate a vostro rischio. Se invece siete ancora indecisi, niente paura. Vuol dire che gli elementi che vi ho fornito fin qui non vi bastano e ve ne servono altri. In questo caso non vi resta che passare al prossimo capitolo, ma non preoccupatevi: potrete sempre scendere alla seconda fermata. II . Cherchez la peur Congratulazioni, non vi siete fatti scoraggiare nemmeno dal mio richiamo alla responsabilità. Ci sarà rimasto male chi si aspettava un bagno vitalista. Il fatto è che la scelta di abbandonarsi al flusso dei pensieri e delle emozioni, lasciandosi sorprendere a ogni svolta (come suggeriva il padre Freud) è per l’appunto una scelta, e per di più gravida come poche di conseguenze. La conseguenza più importante è che la corrente vitale che in tal modo avete lasciata libera di fluire assomiglia di più a un fiume limaccioso e gonfio di detriti che al ruscello ridente e cristallino da voi sognato. Se ora, spaventati dalla fogna a cielo aperto che avete intravisto, decidete di ricoprirla pudicamente e di rafforzare la copertura con un doppio strato di calcestruzzo, avete sì tutta la mia comprensione, ma nessuna garanzia di una soluzione stabile e soddisfacente del vostro problema (posto che vogliate ammettere di averne uno). Infatti la cementificazione dei corsi d’acqua, come dimostrano le ricorrenti e ingravescenti alluvioni nel bacino dell’Olona, crea più problemi di quanti ne risolva. Il mio sommesso suggerimento è di prendere in considerazione l’alternativa più costosa nel breve e medio periodo, ma più gratificante nel lungo: una bonifica radicale dei vostri fluidi mentali. Ora, da che cosa dobbiamo ripulirci, voi e io, se vogliamo ritrovare il piacere della scrittura, della lettura, del sesso, del lavoro, della solitudine, della compagnia e di quant’altro faccia parte della nostra vita? Volete una risposta classica? Eccola: dobbiamo liberarci dalla nostra malvagità e perversità originaria, oppure - nella versione psicoanalitica - dobbiamo addomesticare e civilizzare le pulsioni perverso-polimorfe che sin dall’inizio intorbidavano la mente del fanciullo tutt’altro che innocente che siamo stati e che ancora si acquatta impunito dentro di noi. Se questa risposta vi soddisfa, non vi resta che scegliere il luogo della vostra penitenza. Non c’è problema, la scelta è ampia e articolata. Potete scegliere penitenziari antichi, moderni e postmoderni. In questo, purtroppo, non posso esservi di aiuto, ma non preoccupatevi, troverete sul mercato tutto quello che vi serve. Se invece, come spero, la risposta non vi soddisfa, siete pronti per considerare senza pregiudizi l’ipotesi che segue: alla radice di ciò che inquina, distorce e corrompe la vostra vita non c’è altro che paura. E’ un’ipotesi che accogliete con sollievo, perché allontana la prospettiva penitenziale. Ma anche con sospetto, perché vi sembra di sentire in essa l’eco della vecchia e sorpassata utopia che assolve con formula piena l’uomo naturale, accollando tutti i mali all’educazione che lo guasta terrorizzandolo e reprimendolo. Tranquilli. Non vorremo certo scartare le cupe ideologie del perverso congenito solo per cadere nell’opposta melensaggine del buon selvaggio. Siamo giusti: se rifiutiamo le ideologie, facciamolo fino in fondo e imparzialmente. Senza sbilanciarci sulla nostra essenza originaria, ci limitiamo a prendere atto dell’impasto di inclinazioni buone e cattive che ci costituisce dall’infanzia in avanti. Ipotizziamo semplicemente nella paura il fattore cruciale che porta il peggio di noi a prevalere sul meglio. Questa ipotesi si fonda su un’evidenza: chi è in pace con sé stesso e col mondo non attacca brighe, non si abbuffa, non affumica sé e il prossimo, non molesta donne e bambini, non cerca di persuadervi che Gesù è meglio di Maometto o viceversa. Comportamenti aberranti di ogni sorta sono comprensibili come sfoghi di anime tormentate, lo ammetterete senz’altro. Ma come portare un po’ di sollievo a quel tormento (al vostro, al mio): questo è il problema. Ecco dunque il filo di Arianna che propongo alla vostra cortese attenzione perché possiate orientarvi nella labirintica esistenza: cherchez la peur! Ma, mi affretto a precisare, non in prima istanza. Mi sembra difficile non condividere il suggerimento di Tolstoj, di cercare prima di tutto la gioia. Se però questa, come troppo spesso accade, non si fa trovare, allora cercate la paura. Insisto sul cercare perché tutti abbiamo paura, ma non tutti sappiamo di averla. Penso per esempio a Giovanna, che ha con il suo cagnolino un rapporto di gran lunga migliore che con qualsiasi umano. Un giorno le dico: “Immagini che ora io mi alzo, vengo a sedermi vicino a lei e le tocco un braccio. Che cosa prova?”. “Disagio, fastidio”, risponde lei con una smorfia di disgusto. “Non mi piace il contatto umano”. Rifiuta il contatto perché l’umanità è inaffidabile. Solo i cani sanno amare in modo onesto e disinteressato. E’ triste ma è così. Ormai si è messa l’anima in pace. Ma io in pace non la lascio, e le ripropongo crudelmente la mia vicinanza immaginaria. “Da che cosa si sente minacciata?”, le chiedo. “Dalla sua falsità, risponde. Lei è falso, come tutti. Se si avvicina vuol dire che vuole qualcosa da me. Forse vuole sesso, oppure è una tecnica che sta sperimentando per vedere come reagisco”. Si direbbe che Giovanna sappia bene di che cosa ha paura. Ha paura degli esseri umani, che sono falsi, rapaci e manipolativi. “Inclusa me stessa”, aggiunge, perché ha troppa terapia alle spalle per continuare a pensare di essere l’unica giusta, ma non abbastanza per mettere veramente in dubbio le sue convinzioni. “Forse è vero che io sono rapace e manipolativo come tutti gli altri“, le dico. “Ma non vuole darmi una piccola possibilità?”. “Perché lei dovrebbe essere diverso? Ne ho viste troppe, da quegli esseri che erano i miei genitori, a quegli altri che sono stati i miei uomini. Basta così, grazie”. Giovanna compie un’operazione esemplare. Giustificando la sua paura, la fa sparire. Come dire: certo che ho paura dei serpenti velenosi, è ovvio. Basta stare alla larga. Dov’è il problema? Sparito. Voi direte: ma se questa persona è in terapia, un problema deve pur averlo. Non crediate che la Giovanna si confonda per così poco. Se a lei va di farsi due chiacchierate alla settimana con un uomo intelligente come me, deve inventarsi per questo qualche stupido problema? Quando dicevo che la gente spesso non sa di aver paura, intendevo questo: sembra che lo sappia, ma avendola ben incapsulata in qualche difesa a tenuta stagna è come se non lo sapesse. E’ un sapere solo razionale, più esattamente razionalizzato, quindi privato di ogni efficacia. Dunque, in primo luogo la paura deve essere sentita, non solo pensata. Per questo motivo sottopongo Giovanna al maltrattamento immaginario che vi ho descritto, e per il quale spero di non essere giudicato troppo male. Anche perché posso essere ancora più crudele. Infatti, se la mia vicinanza in immagine non bastasse a scalfire il muro di ragionamenti vuoti dietro il quale ella è rimasta prigioniera e a produrre una vera esperienza, sarei capace persino di avvicinarmi a lei in carne e ossa. A patto, beninteso, che tale movimento sia da me sentito, e non solo pensato: senza di che sarei prima di tutto in contraddizione con me stesso, e poi non farei che rafforzare la convinzione di Giovanna di essere sottoposta a una manipolazione tecnica. Bene, così vi ho dato un primo assaggio del mio stile di lavoro e nello stesso tempo la possibilità di affibbiarmi l’etichetta infamante di terapeuta selvaggio. Infatti, lo sa anche la vostra portinaia (che è molto ben aggiornata grazie alla posta dello psicologo di quattro riviste femminili) che le difese si interpretano, e non si aggrediscono direttamente. Se permettete, vorrei suggerire alla custode del vostro stabile la lettura di un libro molto istruttivo: Forty-two lives in treatment, di Wallerstein. Non avrà che da immergersi nelle ottocento pagine fitte dell’opera, e verrà a conoscenza dei risultati della più ampia e imponente ricerca che sia mai stata fatta in campo psicoanalitico, dei quali voglio comunque anticiparle il più saliente: tra ciò che gli psicoanalisti dicono e scrivono di fare e ciò che realmente fanno c’è un fossato, una voragine, un abisso. E’ un dato che può aiutare a non ingoiare troppo passivamente i miti circolanti. A parte questo, debbo rinunciare a difendermi dal giudizio al quale da me stesso mi sono esposto, perché per farlo dovrei addentrarmi dottamente nel campo dell’integrazione tra i diversi metodi di psicoterapia. Dirò solo che il movimento che mira ad abbattere gli steccati tra le scuole avanza oggi impetuosamente, ed è tanto fortemente sostenuto da una parte quanto fieramente avversato dall’altra, con dovizia di argomenti scientifici da entrambe le parti. Infatti la nostra disciplina si distingue da altre, più sobrie, perché qui si dimostra scientificamente tutto e il contrario di tutto. Ma torniamo a noi: non mi sono allontanato troppo dall’impegno che ho preso con voi? Spero di no. Io non so ancora che cosa scriverò nelle prossime pagine, però credo che attingerò spesso e volentieri al mio archivio professionale perché mi preme trasmettervi questo messaggio: vedete che cosa vi aspetta, se non vi date una mossa. Se non vi date da fare per distillare un’esperienza significativa dalla vostra vita di tutti i giorni, non vi resterà che andare a farvi strizzare il cervello da qualcuno dei miei colleghi, e che Dio ve la mandi buona. A meno che, naturalmente, non preferiate continuare a dormire della grossa. Spero che mi permetterete di parlarvi un po’ più rudemente, adesso che ci conosciamo meglio. Siete capaci di mettervi da voi stessi di fronte alle vostre paure, senza farle sparire dietro difese impenetrabili? Se no, vi consiglio di utilizzare il modesto aiuto che vi offro. Con Giovanna ho usato un approccio diretto dopo aver constatato l’assoluta impenetrabilità di quello interpretativo. In altri casi scelgo la via diretta da subito, senza farla precedere da cinque anni di interpretazioni. Dipende. Ma entrambi i modi non sono che varianti professionali di modalità di rapporto ordinarie, ed è soprattutto per questo che ve ne parlo. Quando vostra moglie vi dice: “non ti sembra che te la stai prendendo un po’ troppo?”, dopo un vostro attacco di furore perché gli spaghetti sono stati scolati con un minuto di ritardo, vi sta trasmettendo un messaggio che altri chiamerebbero pomposamente “interpretazione di transfert”. Una formulazione più articolata, ma meno elegante, di esso suonerebbe: “il tuo bambino onnipotente è fuori dalla grazia di Dio perché la sua mamma, che dovrebbe essere anche lei onnipotente, lo ha amaramente deluso con una prestazione ben al di sotto della perfezione”. Quelli tra voi che hanno alle spalle un’analisi decennale non possono trattenere un sorriso di commiserazione. “Ma si capisce, dottore. Nella vita di tutti i giorni si sparano di continuo interpretazioni che possono anche essere giustissime, e ciò nondimeno restano inefficaci se non dannose in quanto fornite al di fuori di un corretto setting analitico”. A quei pochi che non sanno che cosa è il setting, dirò che è quella particolare situazione che si crea tra un analizzando e un analista, e che è definita dal luogo, dall’orario, dalla posizione distesa, e in generale da tutte le regole del gioco che vengono più o meno esplicitamente concordate. Obiezione accolta, miei cari. Sapete quello che dite, perché avete sicuramente assistito a delle liti tra analizzati, se non ne siete stati voi stessi i protagonisti. Ad esempio: “E’ possibile che dopo vent’anni di matrimonio, buona parte dei quali in analisi, tu debba continuare a scambiarmi per tua madre?”, attacca lei. “Non c’è nulla da fare, una donna non rinuncia mai al suo sogno fallico. E’ la roccia basilare”, contrattacca lui. Lei: “Lo vedi? Povero bambino, è sempre colpa della mamma se non cresci mai.” Lui: “Con le mamme che mi sono ritrovato è già un successo essermi salvato dalla psicosi. Sono orgoglioso di me”. Obiezione respinta, d’altra parte. Le interpretazioni che il signor Rossi e signora si tirano addosso l’un l’altra come pietre sono propriamente e in primo luogo oggetti contundenti. Se vi arriva un sasso sulla testa il vostro primo impulso non è di vedere se per caso vi è attaccato un biglietto con un messaggio. E’ verissimo che la comunicazione è difficile al di fuori di un setting, se con questo termine si intende uno spazio definito da regole negoziate e accettate dai partecipanti al gioco, e da un clima che quelle regole permettono di produrre e mantenere. Ma non è vero che la creazione di tali spazi sia una prerogativa esclusiva degli analisti o di altri professionisti. E’ mia convinzione che con un po’ di buon senso e di buona volontà anche nelle normali relazioni affettive si possano aprire e attrezzare spazi adatti alla comunicazione trasformativa. Il guaio è che tanto l’uno quanto l’altra sono beni piuttosto scarsi, in ogni tempo e ad ogni latitudine. Non mi riferisco a voi, che siete di certo provvisti a sufficienza di entrambi i beni, come è vero che mi state leggendo. Ora siete soddisfatti perché ho riconosciuto il vostro buon senso e la vostra buona volontà, ma vi preoccupate perché non siete sicuri di disporre di relazioni adatte al lavoro che vi propongo. Mi chiedete se non può bastare la nostra, di relazione, che è recente ma promette bene. Vi rispondo che per il momento sì, può bastare, ma è mio dovere avvertirvi che se la cosa dovesse restare strettamente tra di noi non andremmo molto lontano. Il fatto è che per quanto buono sia il rapporto empatico che si è stabilito tra noi, la sua base resta insuperabilmente cartacea. Anche su questa molto può avvenire, e qualcosa sta già avvenendo, ma non chiedetele troppo. Con buona pace di guru e profeti antichi e massmediatici, nulla può sostituire la relazione diretta tra due individui. Quando siete spaventati o arrabbiati, il vostro compagno o la vostra compagna, non Buddha o Mosé, né i libri che narrano le loro imprese, possono sentire e capire quello che vi sta succedendo e riflettervelo più o meno fedelmente. Conoscersi senza specchiarsi negli altri è un’impresa quasi proibitiva: la fatica è doppia, la possibilità di errore dieci volte tanto. Non avete una compagna? Il vostro compagno legge solo la Gazzetta dello sport? Mi dispiace, ma se siete interessati al viaggio di cui vi parlo, avete bisogno di qualcuno che ne condivida il rischio, la fatica e il piacere. La carta stampata che è sotto i vostri occhi può servirvi come mappa o carta nautica. Ma la compagnia dovete trovarvela voi. Non sapete come fare? Va bene, vi darò una mano. Per cominciare, esaminiamo la vostra motivazione. Che cosa state cercando, esattamente? Qualcuno che vi protegga, vi rassicuri, vi accudisca, vi rammendi i calzini? Un uomo che vi faccia sentire amata come Giulietta, una donna capace di eccitarvi come una geisha? Una ragazza di buona famiglia, un uomo con una solida posizione? Tutte queste cose assieme? Benissimo, non c’è niente di male. Ma non accontentatevi di così poco. Cercate anche e soprattutto un vero compagno o una vera compagna, e pazienza se alcune delle cose prima elencate mancheranno: sono cosucce, rispetto alla cosa principale. Forse non avete ancora trovato la persona adatta perché vi siete persi nei dettagli. Dovete concentrarvi sull’essenziale: se volete lanciarvi nell’affascinante e rischiosa avventura della conoscenza di voi stessi, dovete persuadere qualcuno a venire con voi. Se invece trascurate l’essenziale e privilegiate i dettagli, potrete trovare o no quello che cercate, ma, se è vero che fatti non foste per viver come bruti, sentirete che alla vostra vita manca qualcosa. Vi aggrapperete alle cose che avete e temerete di perderle. Avrete paura di non ottenere quello che desiderate o di subire quello che non desiderate. Vi angoscerà il pensiero di arrivare al momento cui nessuno sfugge senza aver capito come funziona questo dannato gioco. Vedete che la paura, se la cacciate dalla porta, rientra dalla finestra. E’ un soggetto ineludibile. Tanto vale aprirle la porta principale e invitarla ad accomodarsi. Un elemento così è meglio averlo di fronte che trovarselo alle spalle. La paura è ubiquitaria, ma si nasconde molto bene. Si maschera da rabbia, da noia, da ingordigia, da voglia di trasgressione. E’ così abile nei suoi travestimenti che da soli difficilmente riuscireste a smascherarla. E ancor meno a sopportarla. Vi rinnovo pertanto il mio consiglio: cercatevi un compagno di viaggio. Se proprio non trovate di meglio, potrete sempre ripiegare su un terapeuta. Sarà comunque, dovete saperlo, una soluzione temporanea, a meno che non vogliate restare in terapia a vita. (Certo non siete così ingenui da pensare che una terapia vi conduca alla meta finale). Beninteso, la terapia rimane la prima scelta, se le vostre paure sono così grandi o così ben camuffate da sintomi nevrotici da non poter essere contenute né trattate all’interno di un rapporto affettivo normale. Ugualmente, se non potete tollerare uno scambio alla pari e volete tutta l’attenzione per voi stessi, se non riuscite a trovare una persona alla vostra altezza (quelle che lo sono, sono già occupate), o se non vi basta un partner al vostro livello e volete un esperto, in tutti questi casi probabilmente avete bisogno di un terapeuta professionista. Spero che nessuno mi faccia questa domanda imbarazzante: conosci molti rapporti come quello che ci inviti a cercare? In ogni modo, visto che me la sono fatta da solo, risponderò: pochissimi, in verità. Dopodiché sospetto che mi domanderete: ma perché ci consigli una cosa così rara e improbabile? In primo luogo perché nel mio orizzonte la terapia è l’unica alternativa a ciò che vi propongo, e non voglio essere accusato di non aver fatto il possibile per risparmiarvela. Esistono naturalmente altri orizzonti, e molto più radiosi: vie di salvezza millenarie, promesse di illuminazione e di nuove età acquariane. Lì non si cammina a tentoni, ma si segue qualcuno che ha già trovato la luce su un percorso ben tracciato e collaudato. Se decideste di imboccare una di quelle vie, la vostra scelta avrebbe diritto a tutto il mio rispetto, ma non potete chiedermi oltre a questo di consigliarvela: c’è già chi lo fa, il compito che nel grande gioco è toccato a me è un altro e molto più modesto. Io mi rivolgo soprattutto a chi, come me, essendo del tutto inabile, per motivi congeniti o acquisiti, al ruolo di seguace, è obbligato a muoversi in proprio con il solo aiuto di compagni di strada che di solito non vedono molto più lontano di lui. Questi compagni possono essere per un certo tratto dei terapeuti, ma se, come ho detto, non volete restare pazienti a vita, e non volete nemmeno indulgere, dopo i vostri dieci anni e passa di analisi, nella pericolosa illusione di essere guariti, la questione del compagno-non-terapeuta si ripropone inevitabilmente. A chi non è interessato alla materia, invio i miei più cordiali saluti. Le nostre strade si separano, ma non si sa mai: potrebbero incrociarsi di nuovo. Ai pochi rimasti, un arrivederci al prossimo capitolo, dove cercheremo di avvicinarci al cuore del problema. III . Sogno o son desto? Cari amici, permettetemi ormai di considerarvi tali. So bene che un sentimento amichevole non esclude il suo contrario, anzi. Le cose che vi ho detto fino a questo momento non possono non aver incontrato la vostra ostilità. Ma se questa non ha avuto il sopravvento e non vi ha costretto ad allontanarvi, lo debbo evidentemente a un impulso più forte di segno contrario. Del quale non abuserò, siatene certi, perché so come è prezioso, e quanto ne ho bisogno. Non avrei di sicuro la forza di continuare a scrivere, particolarmente su un tema così sgradevole com’è quello che ho scelto, se non mi sentissi sostenuto da voi. D’altra parte, il bisogno che ho del vostro sostegno potrebbe indurmi a eliminare o ammorbidire quelle parti del mio discorso che rischierebbero di farmelo perdere. E’ una situazione assolutamente tipica, pronta a trasformarsi in una trappola micidiale: cosa che quasi ineluttabilmente accade nell’infanzia, cioè quel periodo della vita che va dalla nascita in avanti, spesso senza un termine preciso, non di rado senza termine del tutto. Eccoci al cuore del problema, come vi avevo promesso. Siamo creature fragili e bisognose. La paura di perdere il favore delle persone da cui dipendiamo ci spinge a fare il possibile per accontentarle; o, al contrario, se odiamo dipendere, per scontentarle. Le conseguenze più comuni saranno: inibizione, rancore, senso di colpa per i pensieri di vendetta, paura per le probabili rappresaglie. Questo è il terribile dilemma che i bambini di ogni età cercano inutilmente di risolvere: se non li accontento mi rifiutano e io muoio; se li accontento mi spengo e muoio lo stesso. Non si esce vivi dall’infanzia, quasi mai. In realtà le parti amputate non sono estinte del tutto. Giacciono in uno stato di morte apparente dal quale potrebbero anche risvegliarsi, in condizioni molto favorevoli. Sono, effettivamente, morte di paura. Perché di paura si muore, quando non si rimane storpi e sciancati. In un modo o nell’altro ce l’avete fatta, siete diventati adulti: lo deduco dal fatto che non state leggendo Topolino. Quella parte di voi che è sopravvissuta alle traversie dell’infanzia ha conquistato una relativa autonomia. Avete fatto il vostro ingresso trionfale nel ciclo della produzione e del consumo, avete un reddito da spendere e da difendere. Ma soprattutto avete imparato a parlare. Anche i bambini parlano? Lasciatemi chiarire. L’infante, come sapete, e se non lo sapete vuol dire che il vostro latino ha bisogno di una rispolverata, è colui che non parla. Ma attenzione, ci sono diversi gradi di afasia. Per il principio che noi siamo, in linea di massima, ciò che mangiamo, chi si nutre solo di fumetti e della pagina dello sport sembra che parli ma, indipendentemente dall’età, è psicologicamente afasico o infante. Vale a dire, dispone di un linguaggio rudimentale che gli permette di distinguere i buoni dai cattivi e di fare il tifo per gli uni o per gli altri. Se ha paura, sa descrivere il malintenzionato che lo minaccia o, se il malintenzionato è lui, la polizia che gli è alle calcagna. Fine. Quello che manca completamente è il linguaggio dell’esperienza. Voi lo sapete, che cosa è l’esperienza, ma forse così, su due piedi, non sapreste definirla. E’ più facile capire che cosa non è. Quando vostro marito vi dice, per la centesima volta: “Quei bastardi continuano a mettermi i bastoni tra le ruote”, voi sospirate, perché sentite che qui non parla l’esperienza, ma un programma cerebrale computerizzato che elabora gli accadimenti nei termini di un piccolo numero di schemi stereotipati. Se invece dice: “Sono preoccupato perché non riesco a intendermi col responsabile degli acquisti”, voi sapete che vi sta parlando della sua esperienza, e si accende almeno un barlume di interesse. Forse non ci avete mai pensato, ma intuitivamente siete capaci di distinguere due tipi di linguaggio: quello del Bene e del Male, e quello dell’esperienza. Nel primo il parlante è in effetti parlato da un programma in cui i Valori sono precodificati. Non importa da chi sia stato scritto (di solito è una congerie di istruzioni che il soggetto ha assorbito passivamente o si è dato lui stesso), il risultato avrà sempre la forma di un comando, rivolto a sé o ad altri, la cui trasgressione configura automaticamente una colpa. Esempi tipici: devo amare i miei genitori (se non li amo, sono cattivo); devo amare tutti (idem); ho diritto di essere amato dai miei genitori (se non lo fanno, sono cattivi); tutti mi devono amare (idem). Il secondo tipo di linguaggio è utilizzato da chi è in grado di esprimere un disagio - negli esempi precedenti, il dolore per la mancanza di amore - senza attribuirlo ipso facto a un colpevole (me stesso o qualcun altro, il destino o un difetto di serotonina nelle mie sinapsi). E’ di gran lunga meno popolare del primo, a tutti i livelli. Mentre il linguaggio dei Valori conosce a priori la causa di ogni sofferenza, e quindi non ha mai bisogno di cercarla, il secondo è detto (da me) dell’esperienza perché è l’unico a consentirla, non dando nulla per scontato. L’esperienza è ciò che percepite, sentite, volete e pensate in questo momento. Sembrerebbe semplice: tutti hanno un’esperienza, direte voi, a meno che non stiano dormendo profondamente o non siano in coma. Invece no. Nella semplice definizione che vi ho appena proposto c’è una clausola cui forse non avete dato troppa importanza: in questo momento. Credete che sia facile essere qui e ora? La gran parte di noi, per la gran parte del tempo, non lo è: siamo altrove, là dove per noi il tempo si è fermato. Questo altrove può essere detto infanzia, il che spesso è vero alla lettera, nel senso che vediamo le cose e reagiamo ad esse come abbiamo imparato a fare da piccoli. Se poi il programma stereotipato che a nostra insaputa ci governa non lo abbiamo appreso quarant’anni fa dai nostri genitori, ma quattro mesi fa da Pippo Baudo, capite bene che non fa molta differenza. Con queste premesse siamo meglio attrezzati per addentrarci nel nostro tema. Supponiamo che vostra moglie, dopo la vostra ennesima scenata per gli spaghetti scotti, non vi fornisca la risposta pacata cui siete abituati, ma vi comunichi la sua decisione di fare le valigie. Questa volta avete proprio esagerato. Un leggero capogiro, e la sensazione che il sangue abbia smesso di irrorare i vostri territori cutanei, vi avvertono che state prendendo sul serio la minaccia. In altre parole, avete paura. Che cosa fate? a) Sopraffatti dal senso di catastrofe, implorate vostra moglie di non lasciarvi, le giurate che la sua cucina è eccellente e invocate il suo perdono. Lo ottenete e vi trasferite in camera da letto per celebrare la riconciliazione. b) Superate il momentaneo smarrimento, rialzate la testa e rilanciate: ma sì, vai pure, non sarà così difficile trovare una donna che sappia cucinare gli spaghetti. c) Riconoscete di aver paura, ma riuscite a tenere i piedi per terra. Ragionate: se un rapporto è sano, non si rompe per un banale litigio; che dunque è la spia di un malessere più profondo, su cui è urgente indagare. Non avete avuto la minima difficoltà ad attribuire le prime due risposte all’universo dei comportamenti infantili e la terza al registro adulto. Lì la paura è immediatamente decodificata da un programma che in men che non si dica vi porta all’identificazione del colpevole (voi o vostra moglie). Qui è utilizzata per iniziare e sostenere una ricerca sui motivi di un dissidio che pur essendo banale è realmente minaccioso, finché non ne sarà scoperto il significato. Vedete dunque che per imboccare l’unica strada che non vi riporta nella palude infantile non avete che da installarvi nella vostra parte già cresciuta, per piccola che sia, e di lì osservare con estrema attenzione le manovre dell’altra parte, purtroppo molto più estesa. Ma non preoccupatevi: se avete seguito il mio consiglio, e avete stipulato con vostra moglie un’alleanza di lavoro finalizzata alla bonifica delle rispettive paludi, avete già quasi tutto quello che vi serve. Il resto lo troverete nel prosieguo. Come dite? Non sapete come fare per installarvi nei vostri territori adulti (della cui esistenza, per quanto ridotta, comunque non dubitate)? Eppure la vostra stessa domanda mostra che siete sulla strada giusta. Vi è mai capitato, nel bel mezzo di un sogno, di essere colti dal sospetto che si tratti proprio di un sogno, e di porvi di conseguenza la fatidica domanda: sogno o son desto? Se vi è capitato, saprete che è sufficiente osservare con attenzione la qualità dell’esperienza per capire se state sognando o siete svegli. Normalmente scambiamo per realtà i nostri sogni solo perché il dubbio non ci sfiora. Se, nel momento in cui vi rendete conto di sognare, non vi svegliate, entrate in uno stato di coscienza particolare che si chiama sogno lucido. Se l’avete provata, sapete che è un’esperienza affascinante, e forse vi siete chiesti se è possibile riprodurla a volontà. Ebbene sì, è possibile. Per ottenerla sono state escogitate diverse tecniche, una delle quali consiste nel praticare la lucidità anche nella vita di veglia. Perché, naturalmente, essere svegli non equivale a essere lucidi, cioè consapevoli o presenti a sé stessi. Di solito non lo siamo da svegli più di quanto lo siamo dormendo. Nella vita cosiddetta di veglia noi brancoliamo per lo più in uno stato semiipnotico o sonnambolico, guidati, se di guida si può parlare, dal pilota automatico di turno. Come già qualche secolo fa un poeta ha cercato di farci vedere, la nostra vita è composta dello stesso tenue materiale di cui son fatti i sogni. Pertanto la stessa domanda - sogno o son desto? - che apre l’accesso alla lucidità notturna è molto appropriata anche nella nostra esistenza diurna, di veglia apparente. Come di notte, nemmeno di giorno ci viene il sospetto che stiamo dormendo in piedi, cullati dai nostri sogni o perseguitati dai nostri incubi. Ma la domanda ci scuote dal letargo, insinuando il dubbio nella nostra mente impigrita. E’ proprio vero che non posso vivere senza questa donna e quindi sono in balia dei suoi capricci? O, all’opposto: sarà vero che questa vita di single mi va a pennello, perché sono uno spirito libero e il bisogno di una relazione stabile me lo sono lasciato alle spalle? Ecco un piccolo elenco di sogni e incubi molto comuni. Non devo lasciarmi avvicinare, altrimenti penseranno che non sono una donna seria. Tutti gli uomini vogliono solo quello. Tutte le donne ci stanno, se hai gli argomenti giusti (io purtroppo non li ho). Se fallisco nel mio lavoro, sono un uomo finito. La vita deve essere sempre frizzante. Prendo in considerazione solo gli uomini di cui sono innamorata (e mi innamoro solo di uomini sbagliati). Devo salvare la mia immagine, perché dietro non c’è niente. D’accordo, non è così facile. Quando il sonno è profondo, i sogni sono terribilmente convincenti. Lo avete constatato più volte con i sogni degli altri, se avete provato a svegliarli. Per quanto angoscioso sia un incubo, chi ne è afflitto sembra straordinariamente riluttante a liberarsene. Provate a contraddire un depresso: vi dimostrerà che la sua indegnità non è un’opinione, ma un dato di fatto comprovato e assodato. In realtà la sua stessa certezza dimostra precisamente che sta dormendo: se cominciasse a dubitarne, sarebbe il primo segno di risveglio. Molte persone, è vero, sembrano del tutto incapaci di mettere in discussione le loro verità. Ma sono certo che voi non siete tra queste: dovete essere almeno un po’ svegli, per capire che per la maggior parte del tempo non lo siete. Certo, anche voi avete le vostre convinzioni. Però non siete così timorosi da tapparvi le orecchie per non rischiare smentite. Anzi, siete forse disposti a mettere alla prova questo criterio che vi suggerisco: quanto più indiscutibile vi sembra il vostro punto di vista, tanto più profondo è il sonno in cui siete immersi. Questo vi ricorda qualcosa? Forse vi viene in mente la sentenza dell’oracolo in cui Socrate è dichiarato l’unico sapiente, poiché è l’unico a sapere di non sapere. Basta sostituire il sonno con l’ignoranza e la sovrapposizione è perfetta. Se l’avete pensato, vi prego, non ditemi che adesso voglio atteggiarmi a sapiente. Al massimo potete accusarmi di voler fare il filosofo, cioè di vestire i panni di colui che sapiente non è, ma amando la sapienza si permette di fare tutte le domande che per la buona educazione e le convenzioni stabilite non si dovrebbero fare. Da questa imputazione non mi difenderei, anzi ammetterei senz’altro la mia colpa; ma aggiungerei che se mi do all’esercizio abusivo dell’arte filosofica non è perché mi attribuisco meriti o capacità speciali, ma solo perché ogni terapeuta, che lo sappia e lo voglia o meno, fa della filosofia pratica, e non può non farla. Sapete tutti che la psicoterapia moderna è nata con Freud, e forse sapete anche che non è stata una nascita facile. Una difficoltà che la neonata si è trovata subito di fronte, o più esattamente addosso, è stata l’abitino analitico che suo padre le ha amorevolmente confezionato e ha voluto a tutti i costi che indossasse come unico indumento, anche se le stava evidentemente un po’ stretto. Certo il babbo premuroso si rendeva conto che la piccola mostrava inclinazioni e tendenze che quel vestitino non poteva coprire né favorire, ma questo non bastava a suggerirgli l’opportunità di modificarlo. Al contrario, era profonda convinzione del genitore che tutto ciò che si poneva in contrasto con il canone analitico non potesse derivare che da cattive abitudini che la bimba aveva purtroppo ereditato dai suoi antenati, e che una ferma e rigorosa educazione avrebbe dovuto proporsi di estirpare. La parola suggestione, che nessun analista ben formato può sentire senza provare un moto di disgusto, è stata adottata per indicare sbrigativamente l’insieme di tutte quelle inclinazioni viziose delle quali non vale la pena di occuparsi in dettaglio. Il padre della psicoanalisi era, ideologicamente, un progressista: una di quelle persone che identificano il male con l’originario (il bambino è un perverso polimorfo) e il bene con il progresso ottenuto addomesticando e civilizzando la sostanza primitiva e animalesca che alla base ci costituisce (l’ideologia opposta, tradizionalista, colloca il bene all’inizio e il male in tutto ciò che ha smarrito la connessione con la radice originaria). Chi scrive ha con le ideologie, di qualsiasi tipo, un rapporto difficile. Nel corso della sua esistenza ha provato più volte a sposarne una, essendo questa la condizione richiesta per essere ammessi nelle scuole e nei circoli culturali nei quali gli sarebbe piaciuto accasarsi. Una idiosincrasia invincibile lo ha costretto tuttavia alla separazione e al divorzio in tutti i casi. Impossibilitato ad aderire a un sistema di pensiero che gli avrebbe garantito a priori una minima conoscenza del bene e del male, è obbligato, nell’esercizio della sua professione, a chiedersi a ogni passo: che cosa andrà bene in questo momento? di che cosa ha bisogno questa persona in questa seduta? che tipo di risposte posso e debbo cercare di dare? E’ vero, non tutti i terapeuti soffrono di questa idiosincrasia. Coloro che, più fortunati di me, possono basarsi sul sicuro fondamento di una dottrina, non debbono farsi troppe domande. Sanno, già in partenza, che il paziente non ha bisogno d’altro che di buone interpretazioni di transfert; o di una sana risonanza empatica; o di un nuovo apprendimento che corregga il mal’apprendimento precedente; o di un’altra cosa, scelta in un elenco di alcune decine, a seconda della scuola di appartenenza (del terapeuta ovviamente, non del paziente; ma si intende che i bisogni di questo debbono coincidere con quanto previsto dalla scuola di quello). Poiché tuttavia i pazienti, pur facendo del loro meglio, non riescono quasi mai a trasformarsi completamente nel tipo di paziente che il modello del loro terapeuta esige, si produce di regola uno scarto più o meno ampio tra la teoria e la pratica. In questa terra di nessuno ha luogo immancabilmente un braccio di ferro o una sorda e a volte vivace contesa in cui il terapeuta cerca di persuadere il paziente che il suo rifiuto di sottomettersi ai canoni del metodo non è altro che una volgare resistenza, mentre il paziente cerca di emancipare il terapeuta dalla devozione codina al modello dei suoi padri. L’esito della lotta è incerto e aperto a molte soluzioni, dalla capitolazione di uno dei due alla rottura traumatica. Quale che esso sia, in questa zona marginale sottratta alla legislazione vigente avviene un confronto che può essere la cosa più importante dell’intero trattamento e che, nei casi in cui porta a uno sviluppo del processo, ha una sicura qualità filosofica, per quanto i partecipanti al colloquio possano ignorarlo, come quel borghese gentiluomo che ignorava di parlare in prosa. Infatti, in quello spazio della relazione che si apre grazie al fatto che entrambi gli opponenti rinunciano a far valere le loro pretese affettive o ideologiche, si può finalmente instaurare un dialogo tra due persone che hanno messo da parte la loro convinzione di sapere, e quindi sono disposte ad ascoltare e a interrogarsi. Qui si pongono le domande che contano: che senso ha il nostro incontro? che cosa chiediamo, l’uno all’altro? dove vogliamo andare? che rischi siamo disposti a correre, quali prezzi possiamo pagare? Sull’onda delle domande precedenti ne faccio ancora una: non credi, caro lettore, che le stesse questioni si pongono anche, e a maggior ragione, nella tua vita di tutti i giorni, nei tuoi rapporti, e specialmente in quello di coppia? Lo so, è una domanda retorica. Tu e io lo sappiamo benissimo che quelle domande si pongono e anzi s’impongono, se solo gli diamo lo spazio necessario. Il fatto è, naturalmente, che troppo spesso glielo lesiniamo, oppure lo chiudiamo del tutto con risposte stereotipate. Del resto è comprensibile: se permettiamo a quelle domande di sprigionare tutto il loro potenziale eversivo, dove andremo a finire? Che ne sarà dei nostri precari equilibri, di quelle poche certezze su cui abbiamo basato la nostra capacità di sopravvivere in questo mondo in cui siamo stati inesplicabilmente gettati? Non per niente Socrate, che faceva troppe domande, fu messo definitivamente a tacere dai concittadini allarmati. Ricapitoliamo. Siamo partiti dall’identificazione dell’infanzia come luogo proprio della paura. Infanzia come debolezza, fragilità, dipendenza. Ma anche, e soprattutto, come incapacità di dire l’esperienza essenziale (ho fame, ho paura, mi piace, fa male) al netto della distorsione prodotta dai giudizi che creano vittime e carnefici, colpevoli e innocenti, sventure e destini. Infanzia, quindi, come sonno della ragione, come permanenza prolungata in un mondo oniroide popolato dai fantasmi generati e nutriti dall’immaturità. Il cammino di liberazione dalla paura sembra dunque segnato: non può che coincidere con quello che porta alla crescita e al risveglio. E allora perché non lo imbocchiamo con decisione, grati a chi ce lo mostra e anteponendolo a ogni altra meta? Al contrario, qualsiasi altro obiettivo ci sembra più urgente e desiderabile, perché la strada che abbiamo davanti a noi fa più paura delle paure dalle quali ci dovrebbe liberare. Dovendo scegliere tra spaventi vecchi e nuovi, preferiamo tenerci quelli cui siamo almeno abituati. Ma che cosa c’è di così temibile nella crescita e nel risveglio? Una prima risposta è questa: il prezzo da pagare è l’abbandono dei sogni che, se da un lato ci spaventano, dall’altro sono tutto quello che abbiamo, fintanto che perdura il nostro soggiorno in quel mondo. Se volete liberarvi dalla paura che vostra moglie vi tradisca o vi lasci, dovete rinunciare all’idea di avere vincolato, con regolare contratto matrimoniale, una fonte di rassicurazione materna in servizio permanente. Non potete conservare una faccia della medaglia e buttare via l’altra. Una seconda risposta considera la condizione di anestesia e di morte apparente con cui siamo emersi dall’infanzia. Lo scioglimento delle emozioni congelate ci riporta direttamente sulla scena delle tragedie infantili dalle quali pensavamo di essere usciti una volta per tutte. Invece no: ci ritroviamo piccoli, bisognosi, impotenti e furiosi. E’ qualcosa che non avevamo messo in preventivo: per crescere non si può fare a meno di tornare al momento in cui la crescita si è malauguratamente interrotta. Cosa che ci può apparire così incresciosa, e così umiliante, che preferiamo lasciar perdere. Da quanto precede si può ricavare la seguente legge generale: è molto improbabile che qualcuno decida di abbandonare i propri sogni a meno che questi non si siano già trasformati in incubi. O, in altre parole: è ben difficile che qualcuno decida di svegliarsi fintanto che i suoi sonni non sono troppo disturbati. L’individuo cui questo non è ancora accaduto è detto, nel nostro gergo, normopatico. Una persona che può anche essere relativamente innocua, a meno che non si metta in testa di diventare terapeuta, non l’abbiate sposata, o non pretendiate di instaurare con lei un dialogo qualsivoglia. Ma tra voi, miei cari, la quota di normopatici non può che essere irrisoria (non arrivo a dire nulla, per lasciarvi almeno un piccolo dubbio). Infatti per il normopatico la paura non è un problema. Lui ha solo paure reali e legittime, come quelle dei ladri, della crisi economica o di una visita della finanza. Delle sue paure profonde non sa nulla, perché le ha ibernate nel reparto a tre stelle del suo frigo molto tempo fa, e poi se ne è completamente dimenticato. Poiché non è questo il vostro caso procediamo, amici, affratellati dalla comune condizione di semi-svegli, nel nostro viaggio. IV . Polli metropolitani Non sono sordo né insensibile alle vostre proteste. Avevate apprezzato la mia libertà di pensiero e indipendenza di giudizio, e ora vi deludo perché parlo come uno psicoanalista qualsiasi che riduce tutto all’infanzia, come se non esistesse una realtà attuale, come se una persona adulta non avesse diritto ad avere dei problemi senza sentirsi dire che il vero problema è che non è cresciuta. Vi viene il sospetto che io viva in un mondo a parte, che non sia in contatto con la realtà quotidiana in cui vivete voi, che non sappia che cosa vuol dire far quadrare il bilancio per arrivare alla fine del mese. Gli incubi immaginari di cui mi occupo io sono altra cosa rispetto all’incubo molto reale di perdere il posto di lavoro. Lo so, io, che cosa significa questo? Cercherò di riconquistarmi la vostra fiducia sottoponendovi un altro frammento della mia biografia, cosa che un vero psicoanalista non farebbe mai. Vi ho già parlato della mia incapacità di appartenere che mi ha impedito di diventare un seguace di qualsiasi scuola o setta, benché ci abbia provato più volte. Il desiderio del tepore del gregge combinato con il rifiuto di farne parte ha prodotto un destino di spaesamenti e peregrinazioni che ha richiesto diversi anni per consumarsi. Mi ci è voluto un bel po’ di tempo per riconciliarmi con la condizione che è sempre stata mia: quella del viaggiatore che non ha guide né maestri, a parte il suo demone, ma solo compagni di viaggio. Se la mia sia una modalità di esperienza in sé valida e legittima, o piuttosto una scelta luciferina, o magari un disturbo narcisistico della personalità, non posso essere io a dirlo. Io la mia idea me la sono fatta, voi fatevi la vostra. Ma vengo al punto. Avendo avuto cura di sciogliere i legami con tutti i maestri e le scuole che ho incontrato sulla mia strada, mi ritrovo oggi molto libero, cosa di cui sono felice, e piuttosto isolato, cosa di cui lo sono meno. Anche perché questo mi colloca, secondo gli studi prospettici di settore, in un gruppo a rischio. Dovete sapere che in tutto il mondo civilizzato il rapporto tra domanda e offerta di psicoterapia si sta abbassando continuamente e inesorabilmente. La previsione è che nel prossimo decennio una frazione non irrilevante di coloro che oggi esercitano questa professione dovrà trovarsi qualcos’altro da fare; essendo gli atipici come me, fuoriusciti dai circuiti istituzionali, ovviamente i più esposti a tale evenienza. Ebbene, amici, la triste realtà è che la mia occupazione è a rischio quanto e più della vostra. Con l’aggravante che io ho passato i cinquanta e non so fare altro. Se pensate che la cosa mi inquieti, avete perfettamente ragione. Debbo fronteggiare, come voi, una minaccia non immaginaria. Che posso fare? Rientrare in qualche ovile, non se ne parla nemmeno: anche se volessi, non ho più l’età. Se d’altronde potessi, non vorrei, perché non sono minimamente pentito: rifarei tutto quello che ho fatto e ridisferei tutto quello che ho disfatto. E allora? “L’importante, amico mio, è scavarsi una nicchia e resistere”, è scritto su un biglietto di auguri che ho ricevuto per il mio compleanno. E come si fa a scavarsi una nicchia? Come fanno tutti, in questi frangenti: si fonda una scuola. Si scrive un libro in cui si dimostra che il proprio modello è superiore a tutti gli altri, si raccolgono e si organizzano i seguaci. Così, dopo aver passato la vita a scontrarmi con i seguaci di tutte le scuole, dovrei fondare la mia e indurre qualcuno a seguirmi. Mi attira di più l’idea di passare il resto dei miei giorni in un monastero del Ladakh (regione himalayana). Ma c’est la vie, obiettate voi. La vita sociale è organizzata in parrocchie, partiti, clan, logge, associazioni pubbliche e private. Se non sopporti di essere un gregario devi fare il leader, è la legge del branco. Lo capisco, e fino a un certo punto persino lo apprezzo. Tuttavia, abbiate pazienza: anche tra i lupi si trovano esemplari che preferiscono starsene fuori. In ogni modo, un libro lo sto scrivendo lo stesso: quello che voi state leggendo. Mentre colgo l’occasione per ringraziarvi della fiducia che mi avete accordato fino a questo momento, mi viene un dubbio. Se vi invito, come ho fatto, a seguirmi nell’esplorazione delle vostre e delle mie paure, non sto per caso cercando subdolamente di procurarmi anch’io dei seguaci, nonostante abbia appena affermato il contrario? Spero di no; comunque è meglio che stiamo tutti in guardia, non si sa mai. Anche se non è rivolta a fini così riprovevoli, la stesura di questo testo è ugualmente collegata al tema: nel senso che la paura non ne è solo l’oggetto dichiarato, ma anche il movente. Infatti, che cosa fareste voi al mio posto? Data l’incertezza che grava sul vostro futuro professionale non tentereste di riciclarvi in qualche modo? Ebbene, è proprio quello che cerco di fare. Tra i fattori che mi hanno spinto a scrivere c’è anche, lo ammetto, la fantasia di prepararmi un’alternativa come biblioterapeuta, nel caso la professione di psicoterapeuta un giorno non tanto lontano non mi desse più abbastanza da vivere. Lo so, è una fantasia che andrebbe tenuta nascosta, perché appena portata alla luce si rivela in tutta la sua miserevole inconsistenza. Il fatto è che nella mia situazione (e forse anche nella vostra) le alternative sono tutte un po’ evanescenti, e in qualche modo bisogna pur darsi da fare. La paura ci segnala un pericolo reale, anche se non immediato, e ci induce a prendere i provvedimenti idonei a scongiurarlo. Tutto ciò che possiamo fare sul piano di realtà, lo facciamo. Ma se, come nel mio caso, su questo piano non c’è molto da fare, ci conviene considerare la questione da un’altra angolatura. Adesso siete perplessi. Esiste un altro piano, oltre a quello di realtà? A parte l’immaginario, naturalmente. Cerchiamo di intenderci. Fino a questo momento abbiamo considerato un universo bidimensionale. C’è la realtà, in cui le cose sono quello che sono, e c’è l’immaginario, in cui le cose sono quello che ci piacerebbe oppure temiamo che siano. Il mondo in cui siamo sobri, e il mondo dei sogni e degli incubi. L’esperienza adulta e quella infantile. Che altro può esserci? Un’altra dimensione dobbiamo presupporla. Io sono uno psichiatra, ma sarei potuto essere un cardiologo, un omeopata o un idraulico. Tra tutte le possibilità che erano ancora aperte prima che facessi una scelta, una si è realizzata. Tutto ciò che è reale, lo è in quanto tra infinite possibilità se ne è realizzata una. Ne consegue che è opportuno considerare tre mondi: Le due frecce tra il cerchio centrale e quello di sinistra stanno a indicare i due flussi di un traffico regolato dalla legge già esaminata: il dominio del desiderio e della sua ombra inseparabile, la paura, ci proietta veloce come il lampo nell’immaginario, mentre la sospensione dei giudizi condizionati da queste e altre emozioni ci riporta, ma ahinoi più lentamente, nella realtà. Quando il nostro piede poggia ragionevolmente fermo e stabile nel territorio di mezzo, la paura diventa un segnale utile. Ci avverte dei mille pericoli che insidiano la nostra vita in questo mondo e ci aiuta a neutralizzarli. Ma se in questa lotta quotidiana pensiamo di avvalerci dei mezzi e delle risorse che troviamo intorno a noi, e solo di quelli, arriviamo ben presto a scoprirne l’insufficienza. Il controllo che possiamo esercitare sugli avvenimenti da cui dipendono il nostro benessere e la nostra stessa sopravvivenza è penosamente al di sotto del livello che ci farebbe sentire al sicuro. Se con un lavoro lungo, paziente e mai del tutto compiuto ci siamo conquistati una relativa autonomia dalle paure infantili e abbiamo preso un domicilio non troppo aleatorio nella realtà adulta, è solo per scoprire che anche qui la paura imperversa. E come nel mondo immaginario non si trovava la chiave per venire a capo dei problemi che colà si presentavano, tanto che per cercarla abbiamo dovuto uscirne e trasferirci nel mondo che ora abitiamo; così di nuovo ci sembra di affannarci inutilmente nel tentativo di risolvere problemi che nella nostra nuova casa non hanno soluzione alcuna. Uno stato di cose che Freud sintetizzò da genio qual era, quando osservò che il compito della psicoanalisi è quello di trasformare una infelicità nevrotica in una infelicità ordinaria. Siamo usciti dalla trappola dell’immaginario, siamo approdati al reale, ma non ci stiamo tanto bene. Non possiamo credere che sia questa, così angusta e inospitale, la nostra dimora definitiva. Ci chiediamo se esista una via di uscita che non coincida con una regressione all’immaginario. Tentiamo di riconnetterci alla sfera delle infinite possibilità. Bion, uno psicoanalista inglese ma nato in India, ha felicemente indicato con la lettera O quel mondo: O come origine, O come infinito e come zero, come generatività senza limiti e come ignoto. Noi possiamo conoscere solo ciò che si è realizzato, e quindi appartiene alla realtà. Di ciò che è ancora nella mente degli dei non sappiamo nulla. Ancora più felicemente Bion ha escogitato la formula “F in O” per designare l’atteggiamento mentale che apre l’accesso a quel mondo. F sta per fede, e questo spiega l’irritazione dei suoi colleghi di scuola kleiniana (una delle tante sette psicoanalitiche), cui anche Bion apparteneva, che lo accusarono di aver voluto restaurare la religione, un’illusione senza avvenire. Ma ai suoi critici l’anglo-indiano faceva giustamente osservare che ciò che è essenziale, per lo psicoanalista, è l’affidamento a un vuoto di sapere che gli consenta di udire l’inaudito senza bisogno di ridurlo al già noto. Se questo spazio di ascolto viene riempito da un credo, scientifico o religioso che sia, la sua funzione è perduta. Una fede senza credo, ecco una chiave che sarebbe assai utile agli psicoanalisti (molti di loro non la conoscono o non sanno usarla), ma soprattutto a noi, se impareremo a servircene. Permettetemi quindi di anticipare la vostra obiezione. Per potersi fidare dell’ignoto bisogna presupporre che l’ignoto sia affidabile: e come si fa a considerare tale un quid che non si conosce? Certo, la conoscenza può essere surrogata da un credo, per chi si accontenta. Ma forse voi siete più esigenti, mentre io, come già sapete, non ne sono capace. E allora? Io parto da quello che ho: l’esperienza. Quella professionale, per cominciare. Una persona viene da me e mi chiede di liberarla da questo o quel sintomo o di risolverle questo o quel problema o di darle tutto l’amore che nessuno le ha mai dato. Nel più breve tempo possibile e senza toccare i suoi equilibri né mettere in discussione le sue scelte. In un periodo variabile da poche settimane a diversi anni questa persona scopre che non può ottenere da me quello che mi chiede. A questo punto mi lascia e va a cercare qualcun altro più competente di me. Oppure si arrende e inizia a collaborare, inaugurando in tal modo la terapia vera e propria. In effetti la resa del paziente è necessaria, ma non sufficiente. Perché la terapia inizi davvero occorre, oltre a questa, anche quella del terapeuta. L’aveva già capito nostro padre Freud, che immaginava di poter arrivare un giorno a comprendere ogni cosa nei termini di una psicologia scientifica da lui chiamata metapsicologia, ma che, va detto a suo onore, non era affatto schiavo di questa sua fantasia. Infatti era capace di riconoscere che “la riuscita migliore si ha nei casi in cui si procede senza intenzione alcuna, lasciandosi sorprendere ad ogni svolta, affrontando ciò che accade via via con mente sgombra e senza preconcetti”. Quando paziente e terapeuta sono pronti a rinunciare alle rispettive idee fisse, soprattutto quelle scientifiche o religiose o altrimenti metafisiche, che sono le più insidiose, può prendere l’avvio un corso di eventi orientato al risanamento e alla crescita: un processo che, una volta neutralizzati i desideri e le teorie dell’una e dell’altra parte, può essere guidato dalla sua logica interna. Occorre, in altri termini, un capovolgimento di prospettiva, che non è più: che cosa noi chiediamo alla terapia, ma: che cosa la terapia chiede a noi. Si può osservare lo stesso passaggio anche in altri ambiti. Per esempio si potrebbe dire che con la transizione da: che cosa noi chiediamo al matrimonio, a: che cosa il matrimonio chiede a noi, finalmente comincia, le rare volte che comincia, il vero matrimonio. Lo spostamento di accento dal terapeuta alla terapia, dal marito al matrimonio, e in generale dall’individuo alla relazione, implica il riconoscimento di una priorità del tutto rispetto alla parte. E’ un riconoscimento cui il nostro ego (la parte) resiste con tutte le sue forze. Come, domanda incredulo: non sono io la cosa più importante, la cosa originaria, il centro intorno a cui tutto deve girare? Con tutta la fatica che ho fatto per ridimensionare i miei sogni e trasformarli in progetti realistici, che cosa si vuole ancora da me? Mi dite che dovrei subordinarmi alla logica di un processo che non ho prodotto, non determino e non controllo. Insomma, mi volete morto? Una morte simbolica, una mortificazione della pretesa di sovranità e centralità dell’ego è il prezzo da pagare per riattivare il processo generativo. Ma precisiamo subito: perché l’io decida il suicidio (simbolico), bisogna che in primo luogo esista. Vale a dire, che non sia un’ipotesi vaga e vagante, un ectoplasma gelatinoso e camaleontico pronto a identificarsi con qualsiasi oggetto o comando; e nemmeno un’immedesimazione fissa e tenace con uno o più personaggi della galleria infantile. L’io che può decidere di farsi da parte è un io abbastanza adulto, compatto e ragionevole da capire che gli conviene farlo. Un io che ha abbandonato le illusioni grandiose, come anche i sensi di colpa catastrofici dell’esistenza infantile. Che ha messo i piedi a terra e ha lottato e lavorato sodo per realizzare i suoi progetti. Tanto sodo e tanto seriamente da arrivare alla triste, per quanto tardiva, scoperta che la sua vita non è nelle sue mani. Qui l’ottimismo della volontà alla fine s’infrange (dopo che già da un pezzo il pessimismo si era impadronito della ragione). Non voglio dire che un uomo non possa realizzare alcuni progetti: certamente può, se è sufficientemente determinato e se le condizioni non sono troppo avverse. Dico solo che la determinazione e la fortuna non sono mai così grandi da rendere credibile, altro che occasionalmente, la rappresentazione di un mondo che si lascia governare dalla sana ragione e dalla buona volontà (per lo meno dalla ragione mediamente sana e dalla volontà mediamente buona della persona mediamente adulta, quale voi e io siamo). A questo punto siamo di fronte a un’alternativa secca: se i nostri sforzi da soli non ci forniscono un controllo apprezzabile sul corso della nostra vita, o ci rassegniamo alla sua sconfortante mancanza di senso, o troviamo un senso in qualcosa che non dipende (unicamente) dai nostri sforzi. La seconda ipotesi corrisponde all’idea che la vita abbia una sua logica propria, e che con questa logica sia possibile in misura maggiore o minore sintonizzarsi, abbandonando il tentativo di imporre agli eventi la nostra. Se, per esempio, Giacomina si lamenta di non riuscire mai a trovare l’uomo giusto, nessuno di noi è disposto a credere che sia sfortunata. Siamo tutti convinti che in realtà lei sta cercando l’uomo sbagliato. Pensiamo che le occasioni giuste non mancherebbero, se solo il suo sguardo non si posasse sprezzante su tutti i candidati che non corrispondono al modello che lei ha in mente. Nessuno di noi avallerebbe la sua tesi sulla penuria di veri uomini. Mancano di sicuro i veri uomini, per come lei li intende: forti, sicuri e appassionatamente innamorati di lei. Ma non scarseggiano i partner potenzialmente adatti a lei: ecco una prima intuizione del mondo delle (virtualmente) infinite possibilità. Siamo anche convinti che la nostra amica non dovrebbe andare a cercarsi il suo uomo con il lanternino. L’incontro avverrebbe più o meno per forza propria, non appena lei se ne rendesse disponibile. Ora, mettiamo che questo sia già accaduto. Giacomina si è arresa, ha abbassato le pretese e tirato su la claire, e ha trovato subito il suo Peppino, che era lì che la stava aspettando. Un bravo ragazzo, intelligenza, aspetto e posizione nella media, giustamente insicuro e problematico come lei. Si sono messi assieme. Sono due ragazzi modesti, il loro rapporto è modesto come loro. Si sposano, mettono al mondo dei figli, tirano avanti. Ma non sono contenti. Sentono che manca qualcosa, non è quello che si aspettavano. Giacomina ricomincia a pensare che in fin dei conti Peppino non era l’uomo giusto. Peppino si prende qualche scappatella. Il loro rapporto diventa ancora più modesto, con puntate verso lo squallido. Stanno insieme per i figli, la prole è il loro unico progetto. E’ possibile che vada a finire così: abbastanza spesso va a finire così. Ma non è detto. Infatti noi sappiamo, lo sappiamo con certezza, che Giacomina e Peppino sono due persone potenzialmente molto più ricche di quanto sembri. Sono entrambi, secondo la felice metafora di un gesuita (anche lui indiano, come lo psicoanalista), aquile addormentate che sognano di essere polli. Ecco una seconda intuizione del mondo delle infinite possibilità. Supponiamo adesso che per un evento fortunato - per esempio hanno letto un libro del gesuita, oppure questo - avvenga in uno dei due un principio di risveglio: non dal mondo immaginario (questo, bene o male, è già avvenuto), ma da quello della realtà ordinaria, in cui vivono la loro vita senza scosse di polli metropolitani. Giacomina, che è stata la prima a svegliarsi, comincia a borbottare, parafrasando senza saperlo un saggio cinese: ho sognato che ero un’aquila, e ora non so più se sono un pollo che sogna di essere un’aquila o un’aquila che sogna di essere un pollo. Così ragionando tra sé e sé, scuote Peppino e gli comunica il suo dubbio. Dopo un po’ sono in due a porsi la fatidica domanda: chi sono io veramente? Cari amici, vi avverto che questo dubbio va praticato con prudenza, perché il vostro senso abituale di identità potrebbe esserne danneggiato. Tuttavia dalle incrinature così prodotte potrebbe filtrare qualcosa di un mondo più vasto e più ricco di quello in cui attualmente vivete. Come insegnava anche uno sciamano ebreo che ha avuto molto successo (postumo) in Occidente, dobbiamo perdere qualcosa della nostra identità ordinaria per ritrovarci in un senso più essenziale. Il passaggio fa paura, perché sappiamo quello che lasciamo, non quello che troviamo (se mai troveremo qualcosa). E’ meglio affrontare questa paura nel tentativo di liberarci da quelle che ci affliggono nel mondo reale, o piuttosto tenerci queste per evitare guai peggiori? E se i saggi indiani, cinesi ed ebrei si fossero tutti sbagliati, e il mondo delle aquile di cui ci parlano non fosse altro che un settore dell’immaginario infantile refrattario a qualsiasi riduzione? Amici, io sono un povero terapeuta, non un profeta. Non ho verità da annunciare, ho solo domande da porre, a voi e a me stesso. Ma ho anche un’esperienza, e siccome anche voi ne avete una (perché, come me, avete cominciato a farvi delle domande), le possiamo confrontare. Se pensate che ne valga la pena, andiamo avanti. V . Il sigaro di Freud “Io vivo nella Possibilità/una casa più bella della Prosa” ha scritto una poetessa. Anche i poeti, oltre ai profeti, ci parlano del e dal mondo possibile, in cui abitano molto più volentieri che in quello reale, troppo scontato e prosaico. E noialtri, che non siamo né poeti né profeti, dobbiamo restarcene confinati qui a vita? Forse sì, a meno che non si risvegli anche in noi l’ispirazione che sonnecchia in qualche piega del nostro cervello destro. Sempre più difficile (mi pare di sentire nuovamente la vostra protesta). Non stiamo andando un po’ fuori tema? Non so. Consideriamo le cose da questo punto di vista: siamo stati gettati in questo mondo senza che nessuno, per quanto ne sappiamo, abbia chiesto il nostro parere. Siamo nati in un certo posto, in un dato anno, da certi genitori, che appartengono a una data classe sociale. Da queste premesse è derivata la posizione che occupiamo e che possiamo fare ben poco per cambiare. E che ci sta indubbiamente stretta. Claustrofobia, come sapete, significa paura dei luoghi chiusi. Eccoci rientrati nel tema. La realtà in cui viviamo non è un luogo decisamente chiuso? Non ci sentiamo un po’ tutti soffocare, qui dentro? E l’evasione-regressione nell’immaginario infantile non è la reazione, scritta nel nostro codice genetico, a questa paura? Oserei dire che l’angoscia da intrappolamento nella realtà è la paura centrale, la pietra angolare dell’edificio dei nostri terrori quotidiani. Occupiamoci pure dei vari mattoni e mattoncini, ma non dimentichiamo la pietra che sorregge tutte le altre. Anzi, sarà meglio dedicarle un’attenzione speciale. Nelle condizioni in cui viviamo c’è troppo poco di quello che ci servirebbe per star bene. Non c’è abbastanza tempo, spazio, denaro, salute, giustizia, amore. Non ci sono risposte soddisfacenti ai nostri bisogni. Perché anche i nostri bisogni sono reali, non meno della realtà che ci sta attorno. Non è così? In giardino miagola infelice e infreddolito il gatto dei vicini, che sono andati a passare le feste in montagna. C’è stato un gran gelo, alcune piante sono morte. Al semaforo un albanese chiede l’elemosina. In centro si è fermati in continuazione da benintenzionati che chiedono contributi per la lotta alla leucemia o all’AIDS. La cassetta delle lettere trabocca di richieste di aiuto per le missioni, l’infanzia maltrattata, rifugiati e bisognosi di ogni specie e paese. Si può negare la realtà di questi bisogni? E i disoccupati, i cassintegrati, gli alluvionati, gli sfrattati, non hanno diritto anche loro alla nostra attenzione? Quanto basta per chiarire una volta per tutte che nel mondo reale la produzione dei bisogni è enormemente superiore alla capacità di soddisfarli. Questo significa che l’equazione: io ho fame, dunque tu devi sfamarmi; ovvero: ho bisogno di affetto, tu mi devi amare, non funziona. Serve solo a colpevolizzare il destinatario della richiesta il quale, se permetterà alla colpa di impadronirsi di lui, potrà solo aggravare i problemi che immagina di risolvere. Se mi chiedete che cosa fare, vi rispondo ancora una volta con una domanda: credete davvero di poter fare qualcosa per i bisogni degli altri se non conoscete i vostri? E credete di conoscerli, i vostri? E di saper distinguere i veri dai falsi? Penso di no, perché in caso contrario non stareste a perder tempo con un terapeuta pieno di dubbi come me. Su una cosa possiamo concordare senza difficoltà: non sempre abbiamo bisogno delle cose di cui crediamo di aver bisogno. Prendiamo ad esempio un impulso tra i più misteriosi, com’è quello di grattarsi. A me succede, non so a voi, di avvertire a volte dei pruriti improvvisi, soprattutto alla punta del naso. Sono pruriti perentori, quasi irresistibili. Infatti di regola cedo, fingendo di soffiarmi il naso se qualcuno è presente. Più raramente decido di oppormi, se non altro per riaffermare la mia autorità sull’organo olfattivo che tenta, per lo più riuscendoci, di prendermi la mano. Dopo un minuto di vera agonia il prurito cede e se ne va com’era arrivato e senza apparenti conseguenze. Forse qualcuno di voi non si sarà lasciato sfuggire l’occasione per farmi accomodare sul divano e offrirmi la seguente interpretazione: il naso che tenta di prendermi la mano ha semplicemente sostituito un altro organo che da tempo non ha più questo potere. Un mio diniego varrebbe come sicura conferma, quindi me ne astengo. Mi limito a questa ammissione: è chiaro che una qualche tensione psicofisica, probabilmente la stessa che mi fa tamburellare le dita o dondolare un piede, cerca una via di scarico attraverso il grattamento. Allo scarico corrisponde una sensazione di sollievo; ma da questo non è lecito dedurre che, data una tensione, la cosa migliore da fare sia scaricarla. Dipende, naturalmente, dalla natura di questa tensione. Un freudiano o un reichiano di stretta osservanza non esiterebbero ad attribuirla a un ingorgo libidico. Potrebbero avere ragione, ma non trascurerei altre ipotesi, anche più verosimili. La tensione segnala di solito un conflitto o uno stato di allarme, mentre l’impulso a evacuarla tradisce l’incapacità di trattenerla e di utilizzarla per affrontare la situazione (reale o immaginaria) temuta. Come nella condizione a tutti nota in cui lo spavento non conduce a comportamenti appropriati alle circostanze, ma solo all’urgenza apparentemente illogica di svuotare l’alvo. Il principio è quello della valvola di sicurezza: la tensione all’interno di un sistema dovrebbe essere utilizzata per svolgere un lavoro utile, ma se questo non è possibile e la tensione sale troppo, è meglio scaricarla per evitare di danneggiarlo. Per questo motivo io cedo alla tentazione di grattarmi quando il prurito è imperioso, visto che l’atto non sembra avere controindicazioni di rilievo, e penso che continuerò a farlo finché non avrò trovato di meglio. Siete delusi perché non ci sono ancora riuscito? Vi avevo avvertito che sono ancora ben lontano dal nirvana. Sperando nella vostra comprensione, procedo nell’indagine: fino a che punto è lecito soddisfare il bisogno di scaricare una tensione? E’ una questione di non poco conto, perché una quantità enorme di comportamenti, inclusi i più aberranti, non sono che modi più o meno mascherati di evacuare una tensione spiacevole. Freud, per esempio, fumava sigari, cosa dannosissima per la sua salute. Ma il fumo lo rilassava e gli permetteva di lavorare. Avremmo oggi una psicoanalisi senza quei sigari? Possiamo apprezzare la sua scelta: sacrificando la sua salute, ha donato al mondo il frutto prezioso del suo lavoro. Che tuttavia di quel fumo conserva il sentore: l’apparato psichico della teoria freudiana è regolato dal principio dello scarico della tensione, proprio come l’apparato psichico personale del suo creatore. Oggi il tabagismo non è più di moda come un tempo. Nello stesso periodo anche il paradigma pulsionale ha perso terreno tra gli addetti ai lavori a favore di quello interpersonale: la vita affettiva si è emancipata, non è più un semplice riflesso di quella istintuale. Chi sa che non ci sia una connessione tra i due fatti. Permettetemi ora di presentarvi Antonio e Maurizia. Il primo è perennemente arrabbiato col mondo intero. Vorrebbe un’altra moglie, un altro lavoro, un’altra macchina, un altro terapeuta. Non potendo avere quello che vuole, scarica il suo malumore su quello che ha. La seconda, una donna giovane e di bell’aspetto, entra in agitazione e vi rimane in permanenza quando è in compagnia del fidanzato, il quale la sopporta - ma non credo che lo farà ancora per molto - per le belle qualità che in parte bilanciano quel difetto. Temendo di non poter essere amata, ella esige rassicurazioni a getto continuo. Il brav’uomo resiste fin che può, ma alla fine cede e consegna all’amata la dose richiesta di calmante, avendo imparato che è l’unico modo per avere anche lui un po’ di requie. C’è chi scarica la propria tensione tirando sassi dai cavalcavia; Antonio si limita a lanciare sassolini a chi gli capita a tiro. Non fa molto male, ma non si rende simpatico. Maurizia invece lancia continui e martellanti SOS, si tranquillizza quando ottiene una risposta che la soddisfa e dopo una breve tregua ricomincia come prima. L’uno scarica il suo risentimento, l’altra la sua insicurezza. La maggior parte di noi trasforma l’ambiente in cui vive in una discarica per materiali consimili. Naturalmente Antonio, Maurizia e noi stessi, quando ci comportiamo come loro, riveliamo di non soggiornare nel mondo reale, ma in quello immaginario. Il primo passo per il trasferimento da questo a quello consiste nel riconoscere la natura arcaica dei bisogni che in questo premono per il soddisfacimento. Il secondo nel comprendere che questo non può mai aver luogo nel mondo reale. Il terzo nella decisione di rinunciare ai comportamenti evacuativi per dare inizio al confronto con la mancanza e la contraddizione che segnano l’esperienza nel triste mondo di mezzo. Procediamo con ordine. Antonio e Maurizia hanno atteggiamenti apparentemente opposti: l’uno è aggressivo quanto l’altra è implorante. Ma la sostanza è la stessa. Si collocano entrambi al centro dei rispettivi mondi, dai quali pretendono attenzioni continue e conformità ai loro desideri. Se ciò non accade, vanno in ansia o si arrabbiano. Le loro aspettative sono d’altra parte comprensibili se rapportate all’età emotiva che dimostrano in questi frangenti. Dalla circostanza ovvia che un adulto non gode più dei diritti di cui invece legittimamente gode un infante discende l’improponibilità attuale di richieste fondate su diritti non più in vigore. Quanto prima il richiedente ne prende atto, meglio è per lui e per chi gli sta vicino. Poiché la capacità logica di Maurizia e Antonio è rimasta relativamente indenne, essi giungono senza eccessive difficoltà a riconoscere l’infondatezza delle loro pretese. Tuttavia questo riconoscimento rimane puramente formale e senza conseguenze pratiche: al primo e al secondo passaggio sopra enunciati non segue il terzo di una rinuncia effettiva a comportamenti di cui pure è stata vista l’irrazionalità. Cosa che non vi sorprende affatto: ogni fumatore o bevitore sa bene che il fumo e l’alcol fanno male, ma questa conoscenza è notoriamente priva di effetti sui rispettivi stili di vita. Che cosa, dunque, ci può persuadere ad abbandonare le pretese anacronistiche, e generalmente dannose per noi e per gli altri, che ci trattengono all’interno dei nostri mondi immaginari? Maurizia e Antonio ci dicono in coro: è più forte di me, il panico (o la rabbia) mi travolge, non posso fare a meno di comportarmi come mi comporto. La tensione che li domina è sostanzialmente paura incontenibile: di essere abbandonati, deprivati, manipolati o costretti a sopportare cose per loro insopportabili. Se volete aiutare Antonio e Maurizia che cosa fate? Permettete all’uno di sfogare su di voi la sua rabbia, all’altra di succhiarvi rassicurazioni come fossero gocce di Valium? Di sicuro hanno bisogno di essere calmati, ma non in quel modo. Potete calmare un bambino rifilandogli la tettarella o piazzandolo davanti al televisore o sbarazzandovi di lui in qualche altra maniera. Forse si calmerà, ma prima o poi ve la farà pagare. Che cosa occorre fare dunque con un bambino spaventato di qualsiasi età? Primo: mantenere la calma. Se vi agitate anche voi, non c’è speranza. Secondo, capire di che cosa ha paura. Terzo, capire di che cosa ha bisogno. Antonio teme di essere in balia di persone e circostanze che in tanto gli sono ostili in quanto non sono orientate primariamente a lui e al suo benessere. Ha bisogno di farsi una ragione della catastrofe in seguito alla quale il mondo ha smesso di ruotare intorno a lui e di ritrovare un senso in questo universo crudelmente copernicano. Maurizia ha paura di non essere amata. Ha bisogno di capire il paradosso per cui in questo ordine di cose chi più vuole meno stringe. Entrambi cercano confusamente un’esperienza che contraddica e corregga quella cui sono rimasti fissati; purtroppo le risposte che inducono non fanno che confermarla. Potete aiutarli se in primo luogo evitate di cadere nei loro giochi (ma non è facile); e poi se sapete offrirgli qualcosa che, a differenza di quello che apparentemente chiedono, corrisponda al loro bisogno effettivo (ma dovete capire qual è). Se volete i sogni di una persona dovete darle in cambio qualcosa che compensi la perdita. Lo schema generale dell’affare potrebbe essere: tu mi dai le tue fissazioni e io ti aiuto a crescere. Ma fate attenzione, perché nel linguaggio corrente questa parola vale quasi come un insulto (io crescere? vuoi dire che sono un bambino?). Dovete riuscire nell’impresa di persuadere il vostro interlocutore che la crescita è non solo possibile, ma persino conveniente. E’ difficile capire che la rinuncia a qualcosa di illimitato a favore di qualcos’altro di limitato possa essere una scelta vantaggiosa. Perché dovrei accontentarmi di una sola donna se posso averne tante?, protesta Antonio. Perché non dovrei sentirmi amata in ogni momento e più di ogni altra cosa dal mio fidanzato?, gli fa eco Maurizia. In effetti Antonio può volare di fiore in fiore, provando a posarsi sui più belli o almeno sui più abbordabili; e Maurizia può strappare al fidanzato rassicurazioni a raffica. Una riduzione di tali aspettative, per quanto già riconosciute irrealistiche, è respinta da entrambi come una perdita secca e quindi inaccettabile. Cari Antonio e Maurizia, quello che ottenete scaricando i vostri umori a destra e a manca e succhiando e rubacchiando qua e là, lo vedete bene e non vi basta. Giustamente volete di più dalla vita. Ma ho buone notizie per voi. Se vi date una mossa, vi rimboccate le maniche e vi mettete a coltivare il vostro orticello, in un tempo tutto sommato ragionevole comincerete a raccogliere i frutti del vostro onesto lavoro. La difficoltà, nel capire e far capire che la rinuncia ai giochi e ai sogni paga, sta nel fatto che il pagamento non è mai in contanti e a pronta cassa. Si tratta di scambiare un vantaggio attuale, scadente e tossico quanto si vuole, ma attuale e sicuro, con uno futuro e non garantito. Non solo: il primo è un diritto, quindi praticamente gratis, il secondo bisogna guadagnarselo. E’ dura da mandar giù. In ogni caso non va giù con esortazioni e prediche. Smascherare le illusioni (o portare l’inconscio alla coscienza, se preferite) è necessario, ma non sufficiente. Insomma, che cosa occorre dare in cambio?, mi chiedete ora con una certa impazienza, perché vi sembra che io stia girando intorno alla questione senza venire al punto. Vi ho parlato della crescita, ma non vi ho detto che cosa può farla apparire possibile e tanto meno conveniente, al punto da indurre qualcuno ad assumerla come progetto di vita al posto dei piaceri evacuativi tanto più a portata di mano. La mia risposta non vi può sorprendere, essendo in linea con quelle che vi ho dato finora: il fattore decisivo è l’esperienza. Credo che possiamo tranquillamente fare a meno delle ideologie che descrivono l’uomo come basilarmente orientato al piacere e adattato alla realtà solo per il desiderio opportunistico di evitare dispiaceri maggiori; oppure primariamente teso alla propria realizzazione, e caduto in preda a impulsi regressivi solo a causa di ostacoli insormontabili incontrati sul cammino. Io credo che voi non siete diversi da me: in voi, come in me, coabitano tendenze sia alla crescita sia allo scarico, combinate e intrecciate nelle proporzioni e nei modi più diversi. Quale delle due sia più antica o più essenziale, nessuno è mai riuscito a stabilirlo con certezza. Non vi aspetterete che ci riesca io. Ma, come vi dicevo, non credo che ne abbiamo bisogno. Ci basta osservare che nell’ambiente in cui viviamo si trovano fattori che favoriscono tanto l’una quanto l’altra. Esempi ovvi: la violenza e il moralismo da un lato, l’affetto e il dialogo dall’altro. Se dunque desideriamo che una persona riduca i comportamenti evacuativi e si impegni in un processo di crescita, non abbiamo che da offrirle una relazione in cui i fattori favorenti il secondo siano prevalenti. Questo in generale. Nel caso particolare la cosa è complicata dal fatto che i fattori in questione sono diversi, e noi non sappiamo a priori di quali il nostro interlocutore abbia bisogno (a meno che non apparteniamo a una delle tante sette religiose o psicoanalitiche che, disponendo di tale conoscenza, possono sottoporre i loro adepti a trattamenti standard. Ad esempio: tutti sul lettino ad associare liberamente e inesorabilmente, dal principio alla fine della cura). Voi, per fortuna, non appartenete a nessuna setta; per mia fortuna, intendo dire, perché altrimenti vi avrei già persi. Se sia anche la vostra, non posso dirlo. In ogni modo, visto che ci troviamo nella stessa condizione, a questo punto avvertiamo la stessa esigenza. Vorremmo sapere quali sono in generale i fattori che favoriscono la crescita, per poter riconoscere più agevolmente quelli che di volta in volta sono richiesti nelle situazioni in cui ci troviamo. Ma ce ne occuperemo nel prossimo capitolo, adesso tiriamo il fiato. Prima di chiudere questo, ancora una cosa. Provate a invertire le parti: voi non siete la persona che offre l’aiuto, ma quella che ne ha bisogno. Lo so, voi siete messi un po’ meglio di Antonio e Maurizia. Ma non fatevi troppe illusioni, qualche zona erronea, più o meno ampia, ce l’avete anche voi; così come avete anche una parte giusta, evoluta e matura. E’ grazie a questi due territori che potete entrare in rapporto con un partner che è messo un po’ bene e un po’ male, proprio come voi. Se riuscite a restare calmi quando lui si agita, e lui resta calmo quando vi agitate voi, è fatta. Se invece entrate in agitazione contemporaneamente, sono guai, ma anche in questo caso non disperate: più avanti vi suggerirò un metodo per stabilire dei turni, in modo che possiate andare fuori di testa uno alla volta. VI . Piccoli mostri Un momento, ho bisogno di una pausa. Lavorando alle ultime pagine ho avvertito una stanchezza che forse è trapelata fino a voi. Mi ero preso un impegno all’inizio: se la fatica avesse superato il piacere di scrivere mi sarei fermato per stanare il sabotatore. In effetti non devo stanare nessuno, perché ho a che fare con un nemico che opera tranquillamente alla luce del sole. Ma è molto insidioso, e mi seduce con argomenti cui non riesco a oppormi che troppo debolmente. L’avete riconosciuto? E’ il desiderio di comunicare - e la sua ombra necessaria, la paura di non riuscire a farlo. Per cominciare, questo desiderio pretende di non essere affatto un desiderio, ma nientemeno che un dovere. Tu sei un ricercatore, mi sussurra; hai l’obbligo morale di comunicare al mondo i risultati delle tue ricerche. Già fatto, rispondo io; e poiché l’ambiente degli addetti ai lavori li ha accolti con un interesse vicinissimo allo zero, mi considero esentato dal continuare a farlo. Al contrario, ribatte il nemico; devi solo individuare il tuo target. Ah sì? e come?, mi informo. Devi scrivere un libro per il grande pubblico, insinua lui; qualcosa che si possa vendere, tipo “Come vincere la paura in quattordici lezioni”; e al riparo di questa copertura esporre discretamente le tue idee scientifiche e filosofiche. Ma è una copertura troppo esile, obietto io; non basterebbe affatto a coprire un’operazione di pura vanità intellettuale. Lui: quale vanità? vuoi dire che tutta questa storia del libero ricercatore, emancipato da scuole e parrocchie, non è altro che un bluff? No, non dico questo; ma dal fatto che nessuno mette in discussione la mia buona fede, e tanto meno lo faccio io, non discende la conseguenza che le mie idee valgano qualcosa e meritino di essere divulgate. Considerate ad esempio la cronaca di un breve incontro di qualche anno fa con un collega coetaneo che a differenza di me è rimasto in università e ha fatto tutti i passi giusti fino ad arrivare in cattedra. Che cosa fai?, mi chiede distrattamente. Ho costruito un modello integrato di psicoterapia, gli dico. Minchia, il settecentounesimo, commenta senza cambiare espressione. Incasso e rifletto: che cosa faccio? gli illustro i vantaggi del mio? E’ inutile perché mi anticipa: nessuno ha bisogno di nuovi modelli; oggi il discorso è un altro: registrazione audio e video della seduta, microanalisi dell’interazione, oggettivazione dei fattori terapeutici. Mi duole ammetterlo, ma il collega cattedratico ha ragione. C’è stata una proliferazione di metodi psicoterapeutici oltre ogni ragionevole necessità, uno più scientifico ed efficace dell’altro. Secondo i rispettivi autori, naturalmente; ma i controlli rigorosi su meccanismi d’azione e risultati sono pressocché inesistenti. La situazione è paragonabile a quella della medicina omeopatica, anzi è un po’ peggiore. Sembra che la frequentazione regolare dello studio di uno psicoterapeuta qualcosa faccia. Ma, come ha osservato un valente analista, anche la decisione di recarsi due o tre volte alla settimana, a orari stabiliti e per tempi prefissati, sempre sotto lo stesso lampione, qualcosa farebbe. Non sappiamo se di meglio o di peggio, nessuno lo ha mai verificato. Tuttavia psicoterapeuti e omeopati continuano a lavorare, bene o male. Segno che ai loro (ai nostri) clienti la dimostrazione oggettiva della validità delle nostre discipline non interessa granché. Come mai? Ovvio, perché il banco di prova per noi è del tutto soggettivo. I clienti ritornano perché si sentono meglio, o perché la loro vita ha più senso. A loro, come a noi, piace pensare che il miglioramento sia un prodotto delle nostre pratiche e dei nostri rimedi. Nessuno desidera farsi troppe domande. Stando così le cose, a che pro darsi da fare per inventare nuovi metodi o modelli? I vecchi bastano e avanzano. Credete che a questo punto il nemico si dia per vinto? Nemmeno per sogno. Sentite la sua replica: nessun filosofo è mai riuscito a dimostrare che le sue teorie sono più vere di quelle di qualsiasi altro, né che sono efficaci per risolvere i mali del mondo; dobbiamo dunque concludere che la filosofia è un’attività superflua? Di fronte a questo attacco non mi posso schermire con l’argomento che io sono solo un terapeuta e non un filosofo, perché ho già riconosciuto che ogni terapeuta, volente o nolente, fa della filosofia pratica. L’avversario mi vede in difficoltà e incalza: da anni tu e le persone che ti onorano della loro presenza indagate quotidianamente sul senso del dolore, dell’angoscia, della vita e della morte; se tutta questa indagine è servita a svecchiare alcuni miti e a produrre alcuni strumenti per orientarsi meglio nel mare magnum dell’esistenza, non vale la pena, anzi non è un tuo preciso dovere farlo sapere a una cerchia più larga dei quattro gatti che frequenti? Questo è un colpo basso. Se nego che tutto questo lavoro sia servito a qualcosa, per coerenza dovrei chiudere bottega. Se lo ammetto, sembra che io abbia il dovere di comunicare al mondo le mie scoperte. Ci deve essere una via di uscita da questa trappola. Ecco, per esempio: Socrate non ha mai scritto una riga, eppure il suo insegnamento ha avuto una diffusione immensa. Controreplica fulminea: ma tu non sei Socrate, scordati che ci sia un Platone tra i tuoi allievi. Va bene, basta così, mi arrendo. Vi ho dato un piccolo saggio dello stile di lavoro del mio nemico interno. Ve l’avevo detto che è molto insidioso. Qualsiasi cosa dica, me la demolisce in un attimo e riprende a martellare la sua tesi. Questo desiderio di comunicare, o bisogno o dovere che sia, è davvero irresistibile. Quindi, ripeto, mi arrendo; purché sia chiaro che non è una resa incondizionata. Vorrei trovare un equilibrio tra due esigenze contrapposte. Una è quella di cui avete appena constatato la potenza. L’altra è sicuramente più debole, ed è per questo che sono tutto dalla sua parte. E’ un desiderio di essere semplicemente aperto a qualsiasi pensiero o emozione entri in questo momento nel mio campo percettivo, libero dal bisogno di dimostrare o testimoniare alcunché. Tanto la prima mi appesantisce, quanto la seconda mi fa sentire leggero. La verità è che ho bisogno di tutte e due. Se ho trattato come un nemico il desiderio di comunicare, è perché troppo spesso ne sono stato dominato e tiranneggiato. Ma so anche che se mi venisse a mancare diventerei troppo leggero, come certe persone che conosco e altre che certamente conoscete voi. Non mi piacciono i libri o i film troppo impegnati o troppo disimpegnati, né le persone troppo serie o troppo scherzose. Ma devo aggiungere e ribadire che il nemico principale per quanto mi riguarda resta la serietà. L’eredità e l’ambiente hanno congiurato per assegnarmene una dose esagerata, ed è sempre lei che tenta di prendere il sopravvento, se non sto più che in guardia. Ora mi sento meglio e posso riprendere il filo. Ci eravamo lasciati, alla fine dell’ultimo capitolo, con una domanda: quali sono i fattori che in una relazione favoriscono la crescita? E’ una domanda pesante. Direi di più: è il vero baricentro del mio lavoro, e anche del vostro, se mai vi verrà voglia di iniziarne uno. Supponiamo che non siate soddisfatti della vostra vita e cerchiate qualcuno che vi aiuti a capire che cosa c’è che non va. Secondo voi, sarà più probabile che troviate quello che vi serve se il vostro interlocutore è cristiano, buddista, freudiano o junghiano? Oppure se non è nessuna di queste cose, o anche una qualsiasi di queste, ma non costringe il vostro problema ad accomodarsi tra le maglie più o meno strette della sua teoria? Spero che abbiate risposto affermativamente alla seconda domanda, perché vorrebbe dire che siete interessati a quella che segue: potrete mai capire di che cosa una persona ha bisogno se non disponete di una adeguata teoria dell’uomo, come quelle di cui sono ben forniti i cristiani, i freudiani, eccetera? In prima battuta io direi di no, dal momento che di regola noi vediamo solo quello che siamo predisposti a vedere. Abbiamo tutti le nostre teorie del mondo, della vita e dell’uomo e le utilizziamo a ogni passo per interpretare quello che ci succede e prendere le decisioni del caso. Il rovescio della medaglia è l’impossibilità di comunicare con chi utilizza teorie diverse dalle nostre, cioè la quasi totalità del resto del mondo; cosa che spiega lo stato di incomunicabilità che regna sovrano tra gli uomini di ogni razza, ceto e livello culturale. Qualche anno fa un bravo psicoanalista uruguayano si prese la briga di studiare il modo in cui lo stesso materiale (il caso dell’Uomo dei lupi) era stato trattato dai suoi colleghi di diverse scuole analitiche. Giunse alla conclusione che le teorie di Freud, Klein, Lacan e degli altri capiscuola debbono essere considerate dei paradigmi (nel senso in cui questo termine è stato impiegato dal filosofo Kuhn: costruzioni che includono elementi non soltanto cognitivi ma anche affettivi, come valori e fantasie); e che questi paradigmi sono reciprocamente incompatibili e conducono a costruzioni non confrontabili. L’inconsapevolezza di quei grandi nei confronti di tali entità è tale da indurre l’uruguayano a paragonarle a piccoli mostri annidati nella mente dell’analista, capaci di fargli vedere solo quello che loro vogliono che veda e di lasciarlo nella convinzione che ciò che vedono corrisponda alla realtà delle cose. La situazione nel campo psicoanalitico, secondo lo studioso, è seria ma non disperata: bisognerebbe restituire agli strumenti di conoscenza il posto che loro compete, percorrendo a ritroso il cammino che li ha trasformati in mezzi di identificazione e di potere. Per far questo suggerisce di sviluppare un’analisi comparata delle diverse teorie e un linguaggio descrittivo che ci permetterebbe, più di quanto facciano le teorie, di parlare di ciò che non comprendiamo. Come potete facilmente immaginare, l’eccellente suggerimento è caduto nel vuoto. Gli analisti, con rare eccezioni, si guardano bene dal disfarsi dei loro mezzi di identificazione e di potere. Si richiamano tutti a Freud e usano le stesse parole chiave, ma con significati differenti e divergenti. Che la loro associazione sia ormai una torre di Babele lo sanno benissimo e tuttavia non possono farci niente. O meglio, potrebbero se volessero sottoporsi all’unica terapia che può guarirli, al prezzo però di essere privati di quanto hanno di più prezioso: l’identificazione con il paradigma e il potere che ne deriva. Ebbene, amici, noi siamo più fortunati. Lo sono io, per cominciare, che sono un piccolo terapeuta di provincia, con una modesta clientela e nessuna identità culturale da difendere. Quanto a voi, il fatto che mi avete seguito fino a qui dimostra chiaramente che non siete testimoni di Geova né ciellini. E allora, che cosa abbiamo da perdere? I nostri paradigmi privati, naturalmente. Ma è gia qualcosa, se abbiamo solo quelli. E dunque proviamo a raccogliere noi il suggerimento dell’amico uruguayano che altri hanno lasciato cadere. (Sì, è un amico anche lui, anche se non lo conosco. Lo so perché parla come me e come voi). Primo punto: un’analisi comparata delle teorie. Che cos’è una buona teoria? E’ uno schema in cui raccogliamo e organizziamo l’esperienza passata, buono per fare previsioni non vincolanti su quella a venire, cattivo se usato per costringerla a correre su binari prefissati. Se voi e io ci incontriamo portiamo con noi un patrimonio di esperienze che possono arricchire voi quanto me. A patto di volerle confrontare e non di tirarcele addosso come mattoni: quelli con cui abbiamo edificato le dimore concettuali in cui viviamo più o meno confortevolmente e da cui abbiamo una paura terribile di uscire. Quando la trasformazione dei nostri schemi in paradigmi è compiuta, chiamiamo verità e valori i piccoli mostri che si sono in tal modo installati nella nostra mente. Sono conclusioni e valutazioni che dovrebbero restare sempre provvisorie per essere modificate, confermate o abbandonate nel confronto con le esperienze successive e con quelle degli altri. Se questa fluidità viene mantenuta, un dialogo è possibile. Se è perduta, sostituita da un credo privato o collettivo, quello che rimane è l’ordinaria incomunicabilità in cui siamo tutti tristemente immersi. Punto secondo: utilizzare un linguaggio descrittivo. Considerate quello che va per la maggiore nelle scuole psicoanalitiche, psicoterapeutiche e filosofiche: nella quasi totalità dei casi è infarcito di espressioni gergali. Chi parla presuppone nei suoi ascoltatori la confidenza con una teoria che non si trova nelle cose di cui si parla, ma è la chiave che permette di decifrarle. In tal modo i fatti non sono descritti, ma spiegati, e sono dunque accessibili solo a chi dispone della griglia teorica indispensabile per comprendere quelle spiegazioni. Tutti i giorni vengono da me delle persone che spiegano, argomentano, dimostrano, e non si stancano mai di discorrere in questo modo. Io ascolto e aspetto il momento in cui mi è possibile intervenire per stabilire un contatto. Sei qui con me in questa stanza, gli dico quando l’occasione è propizia. Sei rilassato o teso, a tuo agio oppure no; hai delle sensazioni, ti aspetti qualcosa; in ogni caso hai un’esperienza. Puoi sentirla se chiudi gli occhi e descrivi quello che ti succede adesso, lasciando da parte spiegazioni e giudizi. Faccio così non perché io pensi che la situazione terapeutica meriti più attenzione di altre, ma semplicemente perché è quella in cui mi trovo a lavorare. Chi impara a fermarsi in un posto, può farlo in qualsiasi altro. Cerco di stipulare un’alleanza con il mio paziente, in cui ciascuno si impegna a sottoporsi a una disciplina che i fenomenologi chiamano epoché, e che consiste nell’osservazione di ciò che accade sospendendo ogni preconcezione e aspettativa. Ascoltare senza memoria e senza desiderio, diceva Bion. Molti terapeuti di diverse scuole fanno le stesse cose ma pensano di fare cose diverse perché le chiamano con nomi differenti. Con l’esercizio di questa disciplina si fanno osservazioni interessanti. Mentre cerchiamo di astenerci da ciò che facciamo abitualmente, cioè dal tentativo di costringere le cose a corrispondere alle nostre attese affettive e cognitive, permettiamo alle cose di mostrarsi per quello che sono. Almeno per quel tanto che la nostra capacità di neutralizzare le aspettative, che non è mai perfetta, lo consente. In questo modo possiamo farci un’idea dei bisogni fondamentali in gioco in una relazione il cui obiettivo è la crescita personale di chi vi è coinvolto: in primo luogo nella relazione di terapia, ma anche in tutte le altre - specialmente in quella di coppia - che condividono quell’obiettivo. Così torniamo alla questione che abbiamo lasciato in sospeso. Di che cosa ha dunque bisogno un essere umano per la propria crescita psicologica? Qualsiasi bambino potrebbe rispondere: di una madre e di un padre. E se le cure materne o paterne sono state insufficienti, con la conseguenza di uno sviluppo disturbato? Si può sempre sperare di correggerlo fornendo in seguito almeno una parte di quanto è mancato prima. E dove troviamo delle madri e dei padri sostitutivi? In nessun luogo. Però alcune funzioni genitoriali possono essere assunte da figure significative della vita adulta. Lo psicoterapeuta è una di queste figure? Certo che lo è. Quasi tutti i pazienti gli chiedono in modo esplicito o implicito di essere per loro il padre o la madre che non hanno avuto. E lui come risponde? Come sa e come può; spesso destreggiandosi, o anche trasgredendo apertamente le regole del suo metodo, che non prevede nulla del genere. Infatti in quasi tutte le scuole si insegna che lo psicoterapeuta deve essere prima di tutto uno scienziato che produce conoscenza; la quale, in quanto è direttamente somministrata al paziente, può di per sé coincidere con la cura, come nei metodi analitici; oppure è utilizzata per costruire pratiche o esercizi che porteranno alla guarigione, come nelle scuole comportamentali e cognitive. Fino a non molti decenni fa un terapeuta poteva ancora credere di assomigliare a uno schermo bianco o a uno specchio riflettente. Oggi questa fantasia sopravvive in pochi nostalgici, mentre tutti gli altri ammettono che la terapia è un’interazione tra due persone e che il terapeuta si trova di fatto e necessariamente a svolgere alcune mansioni genitoriali. In particolare riveste un ruolo materno quando offre una base sicura, un contenitore protetto e un accoglimento incondizionato. E uno paterno in quanto spinge e incoraggia alla separazione, alla responsabilità e al confronto con il mondo esterno. L’ormai lunga conoscenza che ho dei miei colleghi psichiatri e psicologi mi permette di affermare, cari amici, che la loro (la nostra) dotazione di qualità genitoriali non è mediamente superiore alla vostra. Sappiate dunque che in questo campo noi non possiamo niente di più di quanto possiate voi. Debbo avvertirvi tuttavia che il vostro compito è più difficile. Contrariamente a quanto comunemente si ritiene per un pregiudizio diffuso, la relazione di terapia è più facile di quella di coppia. Il pregiudizio in questione è che per quest’ultima bastino due cuori e una capanna. Non è assolutamente vero. Oltre ai due cuori servono anche due cervelli ben funzionanti per regolare un traffico che è molto complesso, se si vuole che la capanna, oltre a offrire un riparo alle intemperie, sia anche un luogo di crescita. Per i componenti della coppia, intendo dire: perché la grande maggioranza delle coppie pensano di semplificare la questione decidendo che chi deve crescere sono i figli, essendo i genitori già cresciuti. Il fatto che i figli di genitori già cresciuti quasi sempre crescono male potrebbe far riflettere sulla premessa. Ma non è certo il vostro caso, perché voi avete già superato questa dannosa illusione. Siete quindi nella condizione di capire perché il vostro lavoro (mi limito per ora al punto della crescita psicologica) è più difficile di quello del terapeuta, che già non è facile. Si tratta di questo: mentre nel teatrino della terapia il paziente assume di regola il ruolo del figlio e il terapeuta quello del genitore (i tentativi del paziente di invertire le parti raramente hanno successo), nella coppia passabilmente sana i ruoli si scambiano ripetutamente: in un momento lui è un padre o una madre per lei, in un altro è lei una madre o un padre per lui. Una faccenda non semplice, come potete capire. Può funzionare se c’è un buon livello di percezione dei bisogni propri e del partner, una sufficiente disponibilità a svolgere per quanto si può le funzioni richieste, e soprattutto una capacità di mediazione superiore alla norma, dato che tra domanda e offerta c’è spesso una distanza deprimente. Basterebbe questo per inserire anche la relazione di coppia nella lista dei compiti impossibili. Ma non è finita, perché quanto precede presuppone un lavoro non indifferente di conoscenza, proprio come nella relazione di terapia. Tuttavia vi prego, prima di decidere che sto esagerando e che la cosa non fa per voi, permettetemi di aggiungere, nel prossimo capitolo, alcuni elementi che potranno riaccendere il vostro interesse, oppure dargli il colpo di grazia. VII . Il monito di Apollo Nell’anno 869 dell’era volgare i padri della Chiesa si riunirono a Costantinopoli e stabilirono che l’uomo non era composto di tre parti - corpo, anima e spirito - come si era ritenuto fino a quel momento, ma di due soltanto. Lo spirito venne abrogato come parte autonoma, e ridotto a facoltà dell’anima. Il nostro tempo ha perfezionato quell’operazione abrogando anche l’anima, che è stata ridotta a facoltà del corpo. Si possono nutrire dei dubbi sull’utilità di questa semplificazione. Conosco persone sanissime nel corpo, ma deperite nell’anima e quasi cachettiche nello spirito. Oppure vivacissime nello spirito e malandate negli altri settori. Vi propongo pertanto, amici, di restaurare l’antica tripartizione: sono convinto che ne ricaveremo una migliore comprensione dei bisogni umani. Se la paura, punto di partenza di tutte le nostre riflessioni, è in gran parte di origine infantile, per liberarcene temo non vi sia altra strada che diventare grandi. Compito non facile e per di più insufficiente, perché anche sulla nostra vita adulta grava ogni sorta di minacce. Per una cura radicale dovremmo diventare più che grandi, addirittura saggi. Se è così, possiamo metterci il cuore in pace: la paura resterà sempre la nostra compagna inseparabile. Eppure al tentativo di diventare adulti e persino saggi è difficile sottrarsi. Se non proviamo a diventarlo almeno in parte che cosa ci rimane, a parte i nostri sogni? La cui trasformazione in incubi è peraltro in fase avanzata, per voi e per me: altrimenti non saremmo qui a cercare di svegliarci. Questa strada su cui faticosamente arranchiamo era ben nota agli antichi, che il dio Apollo incoraggiava con la celebre esortazione: conosci te stesso. Un invito così sintetico fu inteso principalmente in due modi. Nel primo, prevalente tra i presocratici, Apollo è un dio che dall’alto del tempio di Delfi abbassa il suo sguardo severo sull’uomo e lo ammonisce: conosci i tuoi limiti, e in primo luogo quello temporale della tua esistenza. Ricordati che sei mortale, le prerogative degli dei non ti appartengono. Se l’uomo di quel tempo aveva bisogno di un richiamo del genere, vuol dire che non era affatto diverso da quello contemporaneo. Il sogno di immortalità e onnipotenza lo affliggeva allora come oggi. La differenza sta nel fatto che nella ricerca di un aiuto che lo riportasse a sé stesso il greco andava a Delfi, mentre l’uomo del ventesimo secolo va dall’analista. Non ci sono state tramandate percentuali di rinsavimento, ma non ho motivo di pensare che fossero lontane da quelle odierne. Nessuna civiltà può sopravvivere se non si provvede di momenti e luoghi culturali dove i suoi figli possano sottoporsi al processo di risveglio dalle illusioni infantili con il conseguente approdo alla dura realtà. Meno che mai la nostra, nonostante i progressi della psicofarmacologia. Senza nulla togliere al farmaco - ausilio importante e a volte indispensabile - non si è mai vista una sostanza chimica capace di produrre conoscenza. La via medicamentosa alla pace della mente è il modo che oggi non pochi scelgono, con l’avallo di chi non può essere biasimato se non ha altro da proporre, per sottrarsi al monito del dio Apollo. Un farmaco può mettere un cervello in condizione di lavorare meglio, ma non può lavorare al posto suo: la conoscenza non si ottiene manipolando neuroni, ma riflettendo sull’esperienza. Ed è difficile riflettere sulla piazza del mercato, sulla quale non è nemmeno facile avere le esperienze che occorrono. Per l’una e per l’altra cosa ogni cultura ha inventato spazi appositi, come il tempio e lo studio del terapeuta. D’altra parte, se ciò che accade in questi posti fa leva sulla nostra comune natura umana, perché non potrebbe accadere anche nel soggiorno di casa vostra, dopo avere spento il televisore e mandato i bambini a letto? Per rispondere a questa domanda dobbiamo innanzitutto capire in che modo procede la conoscenza di sé. Il primo punto al quale gli antichi rivolsero l’attenzione, dicevamo, fu la necessità di sviluppare la coscienza dei propri limiti, uscendo dalla condizione di onnipotenza sognante. A rigore questa prima fase del processo sarebbe di competenza dei genitori. Ma poiché non si può chiedere a questi di portare i propri figli oltre il livello che loro stessi hanno raggiunto, raramente la famiglia è stata ed è all’altezza del compito di consegnare alla società individui autonomi e pienamente svezzati. Di qui la necessità di luoghi e istituzioni in cui si tenta di sopperire alle lacune dell’educazione domestica e di correggere le storture da essa derivate. Una prima fase del lavoro è dunque di carattere riparativo. Il sacerdote (o lo sciamano, in culture ancora più antiche) o il terapeuta assume su di sé alcune funzioni di tipo materno o paterno adottando temporaneamente (a volte in permanenza, ma questo è un suo problema) e per alcuni aspetti il fedele o il paziente come figlio. E’ evidente che il rapporto che si viene a creare non può essere semplicemente sostitutivo, a causa dell’intrinseca contraddittorietà delle relazioni che su questa base si stabiliscono. Infatti sullo sciamano o sul terapeuta si riversano aspettative che in parte sono realistiche, ma in un’altra parte, solitamente più estesa, non lo sono. Inoltre il portatore di entrambi i tipi di aspettative di regola se ne difende in molti modi, negandole e rimuovendole, perché a causa di esse si trova esposto a frustrazioni o a dipendenze umilianti. Il terapeuta deve pertanto, come i suoi predecessori, creare un rapporto che faciliti la regressione, cioè l’emergenza dei desideri e dei bisogni arcaici; per poi discriminare quelli che meritano risposte positive dagli altri di cui deve essere mostrata l’illusorietà. Questa distinzione non è semplice e si presta a fraintendimenti e manipolazioni. Da un lato la stessa esistenza di caste sacerdotali ha comportato inevitabilmente in ogni tempo l’interesse a mantenere i fedeli in uno stato di soggezione e dipendenza. Gli stessi sacerdoti del resto sono tenuti al rispetto delle regole di un sistema dogmatico e gerarchico che mette ciascuno al suo posto: è il prezzo per la conservazione di una struttura che offre sicurezze a tutti, dalla base al vertice della piramide. Che le cose vadano oggi come sono sempre andate lo dimostra il sistema di selezione e formazione degli psicoanalisti. Se non ci credete, sentite che cosa ne scrivono loro stessi: “Ciò che noi consciamente ci proponiamo di conseguire presso i nostri candidati è lo sviluppo di un io forte e critico. Le caratteristiche del nostro comportamento come analisti didatti, nonché il nostro sistema di training, vanno in direzione del tutto contraria a questo traguardo conscio: le cose funzionano in maniera tale da condurre sicuramente il candidato a un indebolimento di queste funzioni dell’io” (Balint). “Il sistema di training dell’istituzione psicoanalitica è espressione di una politica di potere, come si può rilevare dal processo di selezione, che è irrazionale e inumano, una barriera che può essere superata solo da chi si adatta e si sottomette, e dall’analisi didattica, che approfondisce il processo di infantilizzazione iniziato con la selezione” (Cremerius). Una prima difficoltà è dunque questa: il sistema sacerdotale può assecondare e favorire le tendenze regressive non per una finalità terapeutica, ma per la propria conservazione. Sono lieto di annunciarvi, cari amici, che voi vi trovate da questo punto di vista in una condizione più vantaggiosa. Nonostante il fatto che la tentazione di spingere o mantenere vostra moglie o vostro marito in uno stato di minorità si faccia sentire anche da voi (appoggiandosi agli stereotipi del “sesso debole” o del genere “gli uomini sono tutti bambini”, perpetuati con soddisfazione da una parte e dall’altra della barricata), la vostra è una relazione sostanzialmente paritaria, perlomeno in questo secolo e in Occidente. In mancanza di un interesse stabilito a mantenere il dominio culturale di una parte sull’altra, il gioco relazionale può svilupparsi più liberamente e riflettere più fedelmente i bisogni reali dei partner. Dal lato opposto la regressione è meno favorita di quanto potrebbe essere utile per il timore di produrre situazioni imbarazzanti o difficili da gestire. A questo si deve, tra l’altro, il permanere del tabù del contatto fisico: una modalità di rapporto tanto ricca di potenzialità terapeutiche quanto fortemente avversata o severamente proibita dalla maggior parte delle scuole. Tuttavia la logica stessa della relazione analitica-terapeutica sembra richiederlo. Abbiamo già osservato che quasi tutti i terapeuti hanno abbandonato la fantasia di essere per il paziente uno schermo bianco e si sono arresi all’inevitabilità dell’interazione. Il terapeuta non può mai rendersi totalmente impersonale: lo stesso sforzo prodotto in questo tentativo mostra qualcosa di lui, delle sue scelte e delle sue paure. Di conseguenza anche ciò che il paziente fa e dice è almeno in parte una risposta al suo comportamento. Il mancato riconoscimento di questa componente non può che avere effetti nefasti, come sempre avviene quando qualcuno si muove senza avere il polso della situazione in cui si trova (al passo della ben nota danza dell’elefante nella cristalleria). Una volta raggiunta, per quanto a fatica e a malincuore, la consapevolezza di questo stato di cose, i terapeuti si dividono grosso modo in due gruppi. Quelli del primo cercano comunque di ridurre al minimo la propria presenza personale: stabilita l’inarrivabilità del modello del puro specchio riflettente (e respingente), s’ingegnano tuttavia di avvicinarvisi per quanto possono, nella non scalfita convinzione della sua bontà. Quelli del secondo si trovano invece di fronte a un passaggio simile a quello in cui s’imbatté il capostipite di tutti noi quando si rese conto, con iniziale disappunto, che le sue pazienti tendevano a sviluppare un interesse per la sua persona che poteva anche sopravanzare quello per la cura stessa. Gradualmente il fastidio lasciò il posto all’apprezzamento per un’evenienza che, mettendo in scena una rappresentazione intensamente vissuta, offre al soggetto una preziosa opportunità di coglierne il significato. Il passaggio successivo, che spetta a noi (Freud ha già dato, non chiediamogli troppo), consiste nel prendere parte attiva alla rappresentazione del paziente, assumendo uno dei ruoli previsti dal suo copione. Mentre i terapeuti del primo gruppo rifiutano sdegnosamente di stare al gioco e non possono fare altro per coerenza con la loro scelta speculare (salvo poi trovarvisi coinvolti loro malgrado per la logica ineludibile del processo), quelli del secondo, più pragmatici, si chiedono caso per caso se una determinata domanda vada semplicemente rispecchiata perché ne sia visto il carattere immaginario, o meriti una messa in scena nel teatrino della terapia, in cui anche al terapeuta sarà assegnata una parte. Va da sé che lo psicodramma sarà tanto più efficace quanto più la partecipazione di entrambi sarà effettiva e sentita e quanto meno assomiglierà a una recita senz’anima. Voi capite bene (vi sembrerà strano, ma non tutti lo capiscono, nemmeno tra gli addetti ai lavori) che la stessa idea di fare psicoterapia senza metterci l’anima è un controsenso. Detto questo, aggiungo che l’era postfreudiana ha visto un graduale spostamento dell’attenzione dalla vicenda edipica, notoriamente triangolare, alla fase preedipica, cioè alla diade madre-bambino. Ci troviamo sempre di più a esplorare esperienze decisive che risalgono al periodo precedente l’acquisizione del linguaggio. A questo punto sono certo che vi verrà spontanea la domanda: come possiamo pensare che una relazione puramente verbale sia in grado di riparare dei guasti originati in una fase preverbale? La risposta standard, da cui non vi lascerete confondere, è questa: il paziente non ha bisogno d’altro che di un lettino per regredire fino alla vita intrauterina, e della partecipazione empatica di un analista per rivestire di parole, e quindi elaborare e integrare, qualsiasi esperienza muta. Quando ero più giovane mi faceva infuriare chiunque pretendesse di sapere di che cosa avevo bisogno senza nemmeno avermi ascoltato. Con il passare del tempo ho imparato a dosare meglio i miei umori. Benché qualche volta mi irriti ancora, in generale ho deciso che coloro che sanno le cose a priori non meritano la mia rabbia, ma solo la mia e la vostra compassione. Tornando alla questione: se io da piccolo, da piccolissimo, non mi sono sentito sufficientemente tenuto, contenuto e sostenuto, nel senso elementare, insieme affettivo e corporeo, dell’esperienza, e di conseguenza mi sono costruito intorno un guscio protettivo per sopravvivere; vi sembra logico, o anche soltanto probabile, che io sia disposto a uscire da quel guscio abbandonando le mie ultrasofisticate tecniche di autocontrollo, se non trovo qualcosa che abbia una ragionevole somiglianza con l’ambiente di cui quel piccolo dentro il bozzolo non ha mai cessato di aver bisogno? Prendete ad esempio il caso di Pietro, un insegnante sulla trentina afflitto, oltre che protetto, da una ricca sintomatologia ossessiva. Alcuni anni di lavoro non sono bastati a persuaderlo a lasciare la presa. Pietro si stende sul divano. Chiude gli occhi, cerca di rilassarsi e di abbandonarsi all’esperienza del momento. Immancabilmente nel giro di pochi minuti sobbalza, annaspa con le braccia nell’aria come se stesse precipitando nel vuoto. E’ alle prese con qualcosa che non può sostenere. Se smette di pensare, di tenersi letteralmente assieme con il suo pensiero ossessivo, sente di andare in pezzi. Un giorno gli chiedo: “Pietro, posso fare qualcosa per lei?”. “Forse sì, risponde lui dopo un po’, ma non so se è possibile”. “Lei dica quello che le serve, poi vediamo”. Lui esita: “Dovrebbe mettermi le mani sul torace e tenermi giù contro il divano, con forza; non so se si può fare una cosa del genere in terapia”. “Perché no?”, dico io. Pietro sente sotto di sé il divano e le mie mani sopra di lui. Smette di sussultare, è tranquillo: qualcun altro lo tiene, per una volta non ha bisogno di tenersi da solo. Nella seduta successiva porta un sogno in cui mi incontra per la strada e io faccio finta di non vederlo. “Lei è inaffidabile, mi dice; prima mi tiene, poi mi lascia cadere”. Però chiede di essere tenuto di nuovo. Intendo dire che: primo, il contatto fisico ha permesso, in questo come in molti altri casi, un’esperienza di contenimento che nessun holding empatico-interpretativo riesce di per sé a produrre. Secondo, questo vissuto risveglia l’ambivalenza originaria relativa alla figura materna. Terzo, la prosecuzione del lavoro consente sia lo sviluppo di un’esperienza riparativa rispetto al contenimento difettoso ricevuto in passato, sia l’elaborazione del conflitto tra bisogno di essere tenuto e paura di essere lasciato (e/o invaso). Non dovete pensare, amici, che la cosa riguardi solo Pietro e la terapia professionale. Non ve ne avrei parlato se non pensassi che la cosa interessa anche voi. Chi da piccolo non si è sentito abbandonato o soffocato alzi la mano. A quei pochi tra voi che l’hanno alzata, chiedo ancora: siete sicuri di ricordare bene i vostri primi due anni di vita? La vostra mente cosciente non ricorda nulla di quel periodo, ma la vostra memoria corporea ha registrato tutto l’essenziale. Se volete recuperarla, non avete che da creare una situazione di intimità fisica con la vostra compagna o il vostro compagno. Se vi sentite perfettamente a vostro agio, vuol dire che avevate ragione ad alzare la mano. In caso contrario, siete già pronti per l’esercizio che vi voglio proporre. A turno, mettetevi nella posizione dell’infante tenuto in braccio, e restateci quanto basta per entrare bene nell’esperienza. Potrete sentirvi bene nella posizione della madre e a disagio in quella del bambino, o viceversa. Se state male in tutte e due le posizioni mi congratulo con voi, perché nonostante questo siete riusciti ugualmente a formare una coppia. La situazione potrebbe evocare delle sensazioni erotiche. In questo caso forse avrete fretta di uscire da questo stupido esercizio per dare corso a un sano amplesso; o, al contrario, penserete che questo eccellente esercizio vi dà finalmente la possibilità di prolungare una condizione di intimità affettiva senza doverla pagare con un amplesso. Cercate di essere semplicemente presenti alla situazione. Evitate i giudizi e le spiegazioni, limitatevi a descrivere quello che sentite e vi viene in mente. Non è detto che l’esperienza abbia subito un senso, non abbiate fretta di dargliene uno. Tenete un diario di viaggio, fate attenzione ai sogni e incontratevi almeno una volta alla settimana per una seduta di “coterapia”. Gradualmente dalle sensazioni, dai pensieri, dai ricordi e dai sogni comincerà a emergere un quadro significativo e prenderà forma un processo. Prima di partire, però, accertatevi che esistano le condizioni minime perché la cosa possa funzionare. Dovete essere delle persone relativamente sane, cioè non troppo nevrotiche, e dovete avere un partner disponibile e motivato come voi. Siccome mi rendo conto che sto parlando dello zero virgola zero qualcosa per cento della popolazione, per non restare con quattro o cinque lettori vi esorto a continuare la lettura anche se purtroppo per il momento non rientrate nelle condizioni dette sopra. Ecco, in ogni modo, una variante meno impegnativa. In alternativa al setting madre-con-bambino vi invito a considerare il meno inquietante paziente-terapeuta. Le modalità sono le stesse, con la differenza che non c’è contatto fisico. La chiave del gioco sta nel fatto che chi fa la parte del paziente usa un linguaggio descrittivo dell’esperienza del momento, e non discorsivo (aiuta molto tenere gli occhi chiusi). Chi fa la parte del terapeuta ascolta in silenzio e interviene solo se è necessario per incoraggiare o stimolare o comunicare la propria esperienza in risposta a ciò che ascolta, mai per fornire spiegazioni o interpretazioni (non di rado gratuite e fastidiose quelle dei professionisti, figuratevi le vostre), meno che mai per emettere giudizi e sentenze. Terminata la seduta (tempo medio da trenta a sessanta minuti), si invertono i ruoli: il terapeuta diventa paziente e viceversa. Molti di voi che si sono sentiti respinti dal primo esercizio potrebbero non essere del tutto sfavorevoli alla variante. Forse arriviamo allo zero virgola qualcosa per cento, corrispondente a una quota un po’ più elevata di voi, che solo per arrivare fin qui avete già superato una selezione abbastanza severa. Ho iniziato il capitolo proponendovi di tornare all’antica distinzione tra anima e spirito, che ritengo fruttuosa dal nostro punto di vista. In effetti poi ho parlato solo dell’anima, cioè della dimensione psicologica del lavoro di autoconoscenza, rinviando ai prossimi il discorso sullo spirito, termine ancora più demodé con cui in altri tempi si indicava la parte più propriamente filosofica del medesimo lavoro. Ho già accennato alla guerra che i gruppi e sottogruppi della galassia delle psicoterapie si fanno tra di loro. Non molto diversamente vanno le cose in campo filosofico, dove si creano vasti schieramenti quasi sovrapponibili a quelli dell’altro campo: filosofie analitiche contro filosofie continentali da una parte, scuole scientifiche contro scuole ermeneutiche dall’altra. La contrapposizione più generale, in questa guerra di tutti contro tutti, vede gli psicologi schierati contro i filosofi, in competizione per l’egemonia sullo stesso territorio, che è la conoscenza dell’uomo. Tutto questo è un prodotto della tendenza straordinariamente tenace a stabilire con le teorie legami impropri di identificazione, caratteristica dell’animale teoretico che noi siamo. Ma non è un destino ineluttabile. Nulla ci obbliga a questo uso perverso, al quale siamo invece spinti dall’angoscia di non sapere chi siamo. Angoscia che crediamo di dominare grazie all’appartenenza a una scuola o una setta in cui ogni cosa trova il suo nome e la sua spiegazione. La guarigione dalla malattia teoretica passa per il ritorno all’atto filosofico originario del non sapere. Cari amici, non voglio dirvi che la pratica del non sapere è agevole, ma solo ricordarvi che è possibile e forse anche necessaria per muoversi nel mare aperto dell’esperienza senza farsi portare alla deriva da una delle innumerevoli correnti che la percorrono. Vedete bene che non è possibile essere “psicologi” senza essere al tempo stesso “filosofi”. Chi pensa che lo sia scambia per scienza la propria visione del mondo ed è pertanto un filosofo inconsapevole, cioè un cattivo filosofo, e di conseguenza anche un cattivo psicologo. A parte questo, io non credo che occorra una laurea per riflettere su ciò che ci costituisce come uomini. Pertanto vi invito a condividere la mia diffidenza verso coloro che presentano la filosofia e la psicologia come discipline specialistiche di cui loro stessi sarebbero i cultori e i custodi, con un linguaggio costruito apposta per tenervi a distanza. Sono persone che cercano di espropriarvi di ciò che è da sempre vostro. Procediamo allora, amici, se vogliamo riprenderci quello che è nostro, armati della sola coscienza di non saper nulla, nella nostra navigazione. VIII . Della madre e del padre Ci risiamo. Lo spirito di gravità ha ripreso il sopravvento e mi obbliga a parlarvi di cose serie e importanti. Per carità, ha assolutamente ragione: sono cose serissime e importantissime, e io non posso né voglio sottrarmi al mio dovere. E tuttavia, se l’equilibrio tra dovere e piacere si alterasse troppo a sfavore del secondo io mi fermerei, per coerenza con l’impegno preso all’inizio e perché non vorrei affliggervi con un testo simile a tanti altri che hanno afflitto me, miei cari. La corda seria vibra gravemente e con tono di rimprovero: “Perché ti preoccupi di compiacere i tuoi lettori? Tu pensa a dire quello che hai da dire, chi vorrà leggerti ti leggerà”. Può essere giusto, ma non vorrei assomigliare a quegli insegnanti che tirano dritto con il programma ministeriale, incuranti se qualcuno li segua o meno. Con la differenza che gli infelici sui banchi sono costretti per lo meno a presenziare al rito, mentre niente e nessuno potrebbe impedire a voi di chiudere un libro divenuto indigesto. In realtà, come sa chiunque sia stato alunno di quei professori, cioè come sappiamo bene tutti, la leggerezza non è affatto sinonimo di facilità. Al contrario, la pesantezza si addice ai pigri: non c’è che lasciarsi andare alla forza di gravità per diventare pedanti e prevedibili, segno che qualche automatismo mentale ha preso il comando e l’intelligenza è andata a dormire. Ancora una volta sono qui a esporvi le mie paure. Da un lato temo di essere catturato dallo spirito di serietà, sempre pronto a ghermirmi come un avvoltoio. Dall’altro per sfuggire a quel pericolo rischio di alleggerire eccessivamente il mio discorso, mancando di lealtà nei confronti di ciò che alla fine debbo pur dire. Qual è il giusto mezzo tra questi estremi? Lo vado cercando a tentoni, a volte credo di trovarlo, più spesso di sicuro lo manco. Spero nella vostra comprensione e vi prego, anche nel vostro interesse, di accordarmela: vi sarà più facile essere pazienti con voi stessi, quanto sarete alle prese con il medesimo problema o con altri analoghi. Per esempio, non conoscete nessuno che si aggrappa alla compagnia per paura della solitudine, o piuttosto si barrica in questa per paura di quella? Avete mai incontrato qualche fannullone che considera il lavoro con sgomento, o qualche gran lavoratore che è perduto se non ha niente da fare? O certe persone troppo gentili spaventate dalla propria rabbia, a fronte di altre stabilmente rabbiose e incapaci di gentilezza? Per caso vi siete riconosciuti in una di queste opposizioni, o in qualche altra consimile che vi è venuta in mente? Benissimo, questo non può che cementare la nostra alleanza e spronarci alla ricerca di una soluzione ai nostri comuni dilemmi. Sull’onda di queste polarità, torniamo a quella che abbiamo lasciato in sospeso: l’anima e lo spirito; per osservare anche qui lo stesso fenomeno. La riduzione dello spirituale allo psicologico e viceversa segnala la difficoltà molto diffusa di cogliere e affrontare le tematiche specifiche di ciascun ambito. Per cogliere a colpo d’occhio il rapporto tra le due dimensioni può forse esservi utile lo schema che segue: Fig. 2. Il campo della terapia o della crescita. MP: asse psicologico. OK: asse filosofico La figura descrive graficamente lo spazio della relazione terapeutica. La domanda del paziente mi pone nell’uno o nell’altro dei vertici di un quadrato diviso da due diagonali. L’asse orizzontale congiunge i vertici M e P, corrispondenti alle posizioni materna e paterna che cerco di occupare come meglio posso quando il mio paziente direttamente o implicitamente lo esige. Per esempio quando Pietro, che avete appena conosciuto, mi ha chiesto di contenerlo fisicamente, mi ha attribuito una funzione materna. La sua richiesta mirava a ottenere un contenimento migliore di quello ricevuto un tempo, che non era stato all’altezza del bisogno. Sentendo che questa volta la risposta era di suo gradimento, Pietro ha manifestato la sua soddisfazione; dopodiché, nelle sedute successive, ha dato la stura a un torrente impetuoso di rabbia nei miei confronti, mentre lo tenevo o più esattamente grazie al fatto che lo tenevo. Una rabbia che non aveva mai potuto dirigere sulla madre, incapace di reggerla, e aveva dovuto di conseguenza ingoiarsi; costruendosi in seguito una spessa corazza caratteriale per impedirle di esplodere, travolgendo tutto e tutti. Sarebbe imprudente da parte vostra pensare di non avere niente a che vedere con il caso di Pietro, anche se indubbiamente state meglio di lui. Probabilmente gli assomigliate più di quanto abbiate sospettato - come gli assomiglio io, del resto - per la semplice ragione che quasi tutte le nostre mamme assomigliano poco o tanto alla sua. Il fatto è che nel nostro paese di santi e di navigatori alle mamme, che non navigano, l’immaginario collettivo assegna un ruolo di sante e martiri cui esse non possono sottrarsi facilmente, trovando nella cultura in cui sono immerse tutti i mezzi e gli incoraggiamenti necessari alla sua rappresentazione. Ora, come potete pensare di arrabbiarvi con una santa e martire? Se ci provate lei vi guarda senza capire e poi vi rimprovera dolcemente o, se tardate a pentirvi, severamente (o, peggio ancora, rimprovera sé stessa e si deprime). Meglio rimettere la mamma sull’altare e lasciar perdere. Vi trovate collocati nell’opposto vertice paterno quando la persona di cui vi state prendendo cura vi induce con il suo atteggiamento a rivolgerle la domanda chiave: che cosa vuoi? Mi riferisco alla situazione, che di sicuro conoscete bene, in cui qualcuno vi cerca, vi provoca, vi biasima, vi blandisce, ma non vi dice chiaramente che cosa vuole: probabilmente perché non lo sa nemmeno lui. Quando eravamo abbastanza piccoli sapevamo bene che cosa volevamo. Gradualmente questa coscienza è stata sepolta sotto strati e strati di non si può, non si deve, è pericoloso, è inopportuno, e alla fine non ne abbiamo saputo più niente. Quando un bambino non ha ancora eretto e fortificato le sue barriere difensive, la questione è più semplice. “Che cosa vuoi?”, domanda il padre. “Voglio venire nel lettone”. “Va bene, ma fra mezz’ora te ne torni nel tuo lettino”. “Ma io voglio restare qui”. “Mezz’ora e basta. Se no resti piccolo”. “Ma io non voglio crescere”. “E noi non vogliamo un bambino che resta piccolo”. Questa è la differenza tra la madre è il padre, o più precisamente tra funzione materna e paterna, da chiunque sia svolta (anche dalla nonna o dalla tata): la prima accoglie incondizionatamente, il secondo pone condizioni. Il padre mette il figlio di fronte alla necessità, anche se sgradita, anzi sicuramente sgradita, di crescere. Processo che implica la separazione dalla base sicura e infinitamente accogliente della madre. In tempi fortunatamente andati alla domanda del bambino “perché?” poteva seguire la risposta “perché sono tuo padre”. Oggi è facile che il figlio replichi “e con questo?”. Quando il principio di autorità valeva come tale, indipendentemente dal modo in cui era esercitato, il padre non era tenuto a persuadere e motivare. Di qui la grave crisi in cui versa l’istituto paterno nell’Occidente contemporaneo, cioè ovunque. Se la vostra esperienza con la figura paterna è stata mediamente insoddisfacente, non perdetevi d’animo. La relazione di coppia offre ampie possibilità di recupero, e se non riuscite a rimediare nemmeno lì, vi resta sempre l’ultima spiaggia della terapia. Se poi fallisse anche questa, provate almeno a cambiare terapeuta prima di andare a Lourdes. Vediamo dunque in che modo nelle relazioni di terapia e di coppia può essere rimesso in scena il padre. Nella prima il paziente, che si presenta con una varietà di problemi e di sintomi, si aspetta giustamente che il terapeuta lo aiuti a capire il senso di ciò che lo affligge e a trovare rimedi adeguati. Vede in lui un esperto, qualcosa di mezzo tra uno scienziato e un consigliere spirituale. Voi, che leggevate Freud già alle elementari, potete anche sorridere della sua ingenuità. Sapete, anche se lui non lo sa ancora, che in realtà sta cercando soprattutto una mamma o un papà. Ebbene, carissimi, non vorrei turbare la vostra visione serenamente freudiana del mondo, ma si dà il caso che chi si rivolge a un terapeuta non sempre e non necessariamente è spinto dal bisogno urgente di rimettere in scena la propria infanzia travagliata da desideri edipici e/o carenze varie. Tanto è vero che esistono dei terapeuti, chiamati ad esempio cognitivo-comportamentali o transpersonali, che non danno soverchia importanza alle fantasie inconsce di cui sono oggetto, ma prendono pressappoco alla lettera la richiesta che è loro coscientemente indirizzata. Il procedimento di costoro è notevolmente simile a quello degli antichi filosofi, impegnati assieme ai loro allievi in un lavoro di liberazione dello spirito umano dalla tirannia delle passioni. Di questo lavoro, che corrisponde all’asse verticale dello schema riportato all’inizio di questo capitolo, vi parlerò nel prossimo. Mi limito qui ad anticipare che ho preso a prestito le lettere K e O da Bion, che le usa per indicare rispettivamente la conoscenza (knowledge) e l’ignoto: sulla linea che unisce questi due poli si muove il filosofo. I due assi orizzontale e verticale si intersecano nello schema come le due modalità di intervento si intrecciano e si combinano nella realtà della relazione, sempre che il terapeuta permetta al processo di svilupparsi in funzione della sua logica interna e non lo costringa, come invece per lo più fa, a muoversi lungo canali prestabiliti. Abbiamo visto la figura della madre, vedremo quella del filosofo. Quanto al padre, la sua funzione centrale è quella di riconoscere e neutralizzare i tentativi di fuga dalle esperienze dolorose, riconducendo il figlio - o colui che in quel momento occupa una posizione filiale - di fronte a ciò che cerca di evitare, aiutandolo a farlo e persuadendolo dell’utilità di farlo. “Caro dottore, non vedo perché dovrei portare qui i miei bisogni e desideri, sapendo in partenza che le sue risposte sarebbero in ogni caso molto al di sotto di quelle che cerco”. “Cara signora, dove, se non qui?”. Questo non lo dico per partito preso, ma solo se sono state esplorate tutte le possibilità alternative, e in particolare dopo avere appurato che non esiste, né è prevedibile che esista in tempi brevi, un rapporto di coppia in grado di reggere l’investimento in questione. La signora non è convinta. “E’ vero che tutti gli uomini che ho conosciuto finora mi hanno deluso, ma perché non potrei incontrare domani quello giusto?”. “Potrebbe incontrarlo, ma temo che in breve la deluderebbe anche lui, come del resto la deluderei io stesso”. “Dunque non c’è scampo?”. “Non c’è scampo per nessuno”. “E allora che cosa ci guadagno a lasciare i miei sogni?”. Buona domanda. So per esperienza che se non riesco a coinvolgermi affettivamente con una persona non potrò fare molto per lei. Se invece ci riesco, ho da offrirle qualcosa che potrebbe persuaderla al rischio del gioco. Pensate a un padre che non ha paura di abbracciare i suoi figli e le sue figlie, pur sapendo che il contatto affettivo può evocare sensazioni erotiche da una parte o dall’altra o da entrambe. Da questa posizione affettiva, e solo da questa, potrei dire al mio o alla mia paziente: “Mentre nei suoi sogni non rischia nulla, qui qualcosa rischia senz’altro, ma proprio per questo può anche guadagnarci; in particolare può fare l’esperienza del desiderio in un rapporto che le ripropone oggi una figura genitoriale, con la certezza non assoluta ma ragionevole che questa esperienza non condurrà a comportamenti incestuosi o antiterapeutici”. Cari amici, posso parlarvi della paura senza occuparmi di quella che ha un posto d’onore nella fantasia dei popoli, la paura dell’incesto? Quando aveva cinque anni, Elsa riferì alla madre delle sensazioni piacevoli che provava quando lei la teneva in braccio. La madre rispose che quelle sensazioni non erano belle e smise di prenderla in braccio. Circa quarant’anni dopo, avendo alle spalle due matrimoni falliti e una terapia in cui aveva accuratamente evitato ogni coinvolgimento personale, Elsa mi confessò che prima ancora di iniziare un nuovo trattamento con me aveva fermamente deciso che non avrebbe avuto “il transfert”. Tanto era terrorizzata all’idea di riprovare quelle piacevoli sensazioni con qualcuno che aveva inquadrato da subito nella categoria dei genitori. Se un genitore (o un terapeuta) teme di perdere il controllo dei propri impulsi, è ovvio che deve stare a distanza di sicurezza dagli oggetti dei suoi insani desideri. Ed è ugualmente ovvio che in questi casi non può svolgere un ruolo educativo o terapeutico, che dovrebbe pertanto affrettarsi a delegare ad altri. Saremmo quindi autorizzati a ritenere, se rimane al suo posto, che sia in grado di esercitare le funzioni di sua competenza. Sappiamo bene che purtroppo non è così. Il genere umano ha sempre incluso, e forse includerà sempre, una quota variabile di ladri, di assassini e di genitori e terapeuti che abusano dei loro figli o pazienti. E’ triste, d’accordo, ma se pensate che questo sia un buon motivo per barricarsi in casa, o per tenere a distanza pazienti e figli, mi aspetto che per coerenza smettiate di mangiare. Se invece continuate a farlo, pur consapevoli del pericolo di prendervi un’intossicazione alimentare, credo che per lo stesso principio non vorrete sottrarvi agli altri rischi del vivere. Un terapeuta che abbraccia, metaforicamente o quando è il caso letteralmente, un o una paziente, svolge una doppia funzione: materna in quanto accoglie, contiene e sostiene; e paterna in quanto stimola, aiuta ed eventualmente costringe a riconoscere bisogni e desideri e a prenderne la responsabilità. Avete già capito, naturalmente, che queste funzioni appartengono di diritto a voi prima che a qualsiasi professionista; al quale può essere richiesto di subentrare solo se e quando voi decidiate, per qualsiasi motivo, di non esercitarle. Nel caso abbiate dei dubbi sulla vostra convenienza a farlo, ricordatevi del nostro filo conduttore: la paura; e in particolare quella che più di ogni altra vi unisce e nello stesso tempo vi separa dal vostro partner: la paura - con il sotteso bisogno - di affidarsi. E’ un sentimento così universale che gli esseri umani possono essere divisi, a seconda di come ad esso reagiscono, in due grandi tipi. I primi si proteggono dal rischio implicito nell’affidamento - il potere che diamo a un altro di abbandonarci, opprimerci, manipolarci - semplicemente negando il bisogno corrispondente, e trasformandosi in individui rigidi, controllati e autosufficienti. I secondi ammettono invece senza riserve il bisogno, ma immaginano di difendersi dai rischi connessi avvinghiandosi, implorando, minacciando o altrimenti manipolando. Se vi siete riconosciuti nell’una, nell’altra o in entrambe le categorie, non inquietatevi, vuol dire che siete perfettamente nella norma. Non è affatto normale invece, anzi è abbastanza raro, prendere coscienza di questa situazione e decidere di porvi rimedio. Se vi attira l’idea di appartenere a questa esigua minoranza, non avete che da persuadere la persona cui siete affettivamente legati a impegnarsi assieme a voi in un lavoro sul vostro legame, in cui il bisogno e la paura di affidarsi siano posti esplicitamente in gioco. Che cosa potrebbe convincere voi e il vostro partner a farsi coinvolgere in un’impresa simile? La motivazione, mi dispiace dirlo, non potrebbe essere diversa da quella che altrimenti vi spingerebbe a cercare una terapia: una condizione di disagio, di crisi, di sofferenza. Fin qui niente di difficile, il dolore è l’unica cosa che non manca in nessun luogo. Ciò che invece per lo più scarseggia è la capacità e la volontà di collegare il malessere ai nodi affettivi irrisolti: è di gran lunga più popolare la scelta di attribuirlo a fattori oggettivi d’ogni specie o all’altrui responsabilità, o ricorrere alla formula autoassolutoria onnicomprensiva (sono fatto così). Ho già appurato, cari amici, che voi siete forniti della capacità e della volontà sopra dette in misura superiore alla media. Facendo dunque leva sulle vostre doti non comuni, provate uno degli esercizi che vi ho suggerito nel capitolo precedente, il cui senso potrà esservi più chiaro alla luce di ciò che vi ho detto in questo. Mentre abitualmente le tematiche affettive del rapporto sono variamente intrecciate, e quindi complicate da questo intreccio, si tratta, in sostanza, di creare degli spazi in cui i motivi dell’uno sono relativamente e temporaneamente separati da quelli dell’altro. Stabilire che nel gioco, a turno, uno fa la parte del figlio-paziente e l’altro quella del genitore-terapeuta, significa creare un contesto che facilita l’emergenza dei bisogni affettivi di una parte e mette alla prova la capacità di risposta dell’altra. In precedenza ho messo l’accento soprattutto sul bisogno primario di essere accolti e ascoltati da qualcuno che non giudica, non spiega, non insegna e non interpreta: un’esigenza fortemente sottovalutata nei rapporti ordinari, e non di rado anche in quelli professionali. Ho descritto, in altre parole, una posizione di tipo materno. Il lavoro in questo vertice del quadrato facilita, per entrambe le parti, il recupero dell’esperienza vissuta, depurata da giudizi e razionalizzazioni. Se, d’altra parte, questa esperienza è per vari motivi dolorosa, fastidiosa o umiliante, è probabile che uno se ne difenda in modi inapparenti a lui stesso ma evidenti per l’altro: al quale consiglio allora di spostarsi nell’angolo paterno, e di lì cercare di riportare il fuggitivo a sé stesso con domande del tipo: che cosa ti sta succedendo? che cosa senti, che cosa vorresti o ti dà fastidio in questo momento? (Usate con parsimonia la domanda da manuale di psicoanalisi: che cosa ti viene in mente?, per non cadere nella tentazione di mettervi a interpretare il materiale che in tal modo avrete ottenuto). Se il vostro compagno vi dice qualcosa in cui percepite un rimprovero o una critica nei vostri confronti, l’ultima cosa che dovete fare è mettervi sulla difensiva, come altrimenti fareste senza pensarci un momento. Al contrario, vi conviene dare per certo che in ciò che vi viene detto ci sia almeno una parte di verità, in una percentuale per il momento non determinabile che può andare dall’uno al novantanove per cento, probabilmente più vicina al secondo che al primo valore. Se poi anche quella quota fosse piccola, resterebbe il fatto che l’altro ha bisogno di esprimere il suo malumore per capirlo meglio, e sarà bene, nel suo e nel vostro interesse, che riesca a vuotare il sacco. Vi darete così reciprocamente un aiuto prezioso per vincere due paure basilari: quella di non essere accettati quando non siete carini e gentili, e l’altra di essere troppo piccoli e incapaci per affrontare situazioni difficili o emozioni dolorose. Non posso chiudere questo capitolo senza rispondere alla vostra obiezione accorata: va bene giocare a mamma e papà, mi dite, ma non dimentichiamo che siamo persone adulte, interessate anche ad altri giochi che tra genitori e figli non sono ammessi, mentre per noi sono non solo leciti, ma persino doverosi. Permettetemi, amici, di sottolineare il secondo aggettivo da voi usato. Il dovere coniugale è, naturalmente, il nemico numero uno del piacere: come posso desiderare qualcosa o qualcuno che debbo desiderare? L’obbligo di desiderare vostra moglie è il più potente incentivo alla trasgressione: nulla diventa così desiderabile come la donna d’altri. Se ora pensate, con timore o con speranza, che io voglia elogiare l’infedeltà, mi affretto a tranquillizzarvi o a deludervi. Al contrario, la decisione di non calpestare l’erba del vicino e di dare un limite preciso alla vostra libertà di movimento è benefica per la vostra libido, che difficilmente potrà evolvere fintanto che avrà il permesso di scorrazzare in lungo e in largo senza confini e senza legge. Come trattenere il desiderio all’interno della coppia senza trasformarlo in un plumbeo dovere: ecco un problema formidabile, una sfida epocale, lo scoglio sul quale i più grandi amori fanno naufragio. Voi, che avete già imparato a non aspettarvi da me ricette miracolose, non vi aspetterete nemmeno questa. Da me avrete, per il momento, solo la modesta proposta di attrezzare un laboratorio in cui il tema potrà essere contenuto, esplorato, analizzato e tolto, per cominciare, alla sua terribile immobilità. Vi consiglio, in altre parole, di apprezzare l’inestimabile valore di una zona franca, all’interno del vostro rapporto, in cui il dovere coniugale è sospeso. In questa zona, coincidente con il luogo dell’esercizio di comunicazione che vi ho suggerito, sarete finalmente liberi di essere quello che siete e di sentire quello che sentite. Tutte le paure relative al dover essere, al dover fare, al dover desiderare saranno private in quest’area del sostegno normativo che abitualmente le alimenta e le giustifica, e potranno essere viste in tutta la loro nuda inconsistenza. L’unico dovere che qui rimane in vigore è la fedeltà alla vostra esperienza cosi com’è, al di là o al di qua del bene e del male. E’ vero che per questo lavoro le indicazioni che vi ho dato fino ad ora, relative al versante psicologico della crescita, non bastano più. Ma non avete, carissimi, che da passare al prossimo capitolo, dove troverete tutto quello che vi serve per continuare la vostra proficua ricerca. IX . Dello scienziato e del mistico Lo so, ho lasciato a metà il discorso sul monito di Apollo, e voi aspettate con impazienza che vi dica come va a finire. Dovete dunque sapere che i Greci per un po’ si accontentarono della prima versione che vi ho ricordato, cioè convennero che il dio, invitandoli a conoscere sé stessi, li esortasse a prendere atto della distanza che li separava da lui: a riconoscere, insomma, di essere dei semplici mortali. Accettarono, pur senza troppo entusiasmo, il richiamo alla loro finitezza perché sapevano, come sappiamo bene anche noi, a quali guai va incontro, e quanti ne procura a chi gli sta attorno, l’uomo che crede di essere un dio. E tuttavia questa soluzione - noi mortali quaggiù, gli dei lassù sull’Olimpo - per quanto ragionevole e ordinata, non soddisfaceva pienamente il Greco. Non c’è modo, si chiedeva, di lavare il bambino dalle sue illusioni senza buttarlo via con l’acqua del bagno? Ma per avere una risposta dovette aspettare Platone. A capire il senso del precetto di Delfi, disse l’allievo di Socrate per bocca del maestro - leggendo i suoi dialoghi non sappiamo mai bene chi dei due sta parlando - ci aiuta il ricorso a un paragone. Come l’occhio non può vedere sé stesso direttamente, ma deve specchiarsi in qualcos’altro, ugualmente il conoscitore può conoscersi solo riflettendosi in un altro. E che cosa trova, guardando in sé stesso, di diverso da sé? La parte migliore dell’anima, che essendo simile al dio è altro rispetto a tutto ciò di cui ha già riconosciuto la natura caduca e mortale. Questo nucleo essenziale è altro rispetto a tutto ciò che di sé l’uomo vorrebbe conservare - il corpo, l’immagine, le passioni - eppure solo in esso, pensa Platone, l’uomo è propriamente sé stesso. Così l’immortalità, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra, direte giustamente voi. L’idea che ci sia nell’uomo almeno una parte simile al dio, e dunque immortale, è dura a morire. D’altra parte, siamo sicuri che la sua dipartita ci renderebbe migliori e più felici? Se Apollo ci ammonisce a non divinizzare il nostro io umano, sin troppo umano, la bontà del suo consiglio non può sfuggire a nessuno. Ma se, fatto questo, ci invita a non arrestarci, e a cercare in noi un quid sovrapersonale e sovrumano che ci apparenta a lui, è difficile leggere in questa esortazione un incoraggiamento alla regressione nel giardino d’infanzia. Un tratto caratteristico di tutta la filosofia antica, greca e romana, è quello di subordinare qualsiasi speculazione teorica a una pratica di trasformazione dell’esistenza da un livello dominato dalle passioni disordinate e dalle preoccupazioni correnti a un altro orientato intorno al suo principio essenziale. Lo stesso si può dire del pensiero orientale, il cui più illustre esponente era arrivato alle stesse conclusioni di Platone un secolo prima di lui e forse anche più lucidamente. Al riconoscimento della mortalità corrisponde la dottrina dell’anatta: tutto ciò che nasce muore, tutto ciò che è composto si decompone. Verità inoppugnabile tanto per la logica quanto per l’esperienza, ma non per l’Occidente cristiano, tenacemente aggrappato alla fede nell’immortalità non solo delle anime, ma persino dei corpi. L’anima è destinata a decomporsi definitivamente come il corpo, insegnava invece il Buddha: ma da questa disgregazione, e dal dolore che comporta, qualcosa si salva. Questo qualcosa è anche per lui un quid sovrapersonale che rende l’illuminato simile a un dio. Se ora vi allarma il sospetto che io nutra speciali simpatie per i platonici o per i buddhisti, sarà mia cura tranquillizzarvi citandovi un pensatore inattuale del secolo scorso che ne aveva pochissime per entrambi, e che tuttavia fece pronunciare al suo Zarathustra queste parole: “Tu devi voler bruciare te stesso nella tua stessa fiamma: come potresti volere rinnovarti, senza prima essere diventato cenere!”. D’accordo, non sono parole troppo tranquillizzanti per il lavoro che vi attende, ma io volevo rassicurarvi solo sulla mia non appartenenza ad alcuna scuola, antica o moderna. Non ne avete bisogno? Avete ragione, sono io che ho bisogno di ribadire la mia libertà di pensiero con una frequenza che vi insospettisce. Diciamolo chiaro, il vostro (e il mio) dubbio: se fossi davvero così libero come mi piace pensare, sentirei ancora l’esigenza di riaffermare così spesso la mia autonomia rispetto a tutti i miei padri? Forse l’accostamento tra Platone, Buddha e Nietzsche vi sembrerà troppo ardito. Sono differenti i temperamenti, gli orizzonti culturali e gli stili di vita, eppure è simile, se non sovrapponibile, la lettura che hanno o avrebbero dato del precetto di Delfi. Per tutti e tre conoscere sé stessi significa in primo luogo accertare la finitezza e la mortalità del nostro io; in secondo luogo riconsegnare la sostanza transeunte di cui siamo fatti alla morte, cui del resto appartiene di diritto, per risvegliarci alla parte oltreumana del nostro essere. Se volete prendere la cosa per vera perché l’hanno detta quei grandi, fate pure, ma poi non dite che ve l’ho suggerito io. In ogni caso, come ben potete immaginare, io non lo faccio. Pur sapendo di fare una cosa scontata e per di più sospetta, ripeterò ancora una volta che ai grandi io non obbedisco né credo; però li rispetto e cerco di imparare da loro qualcosa, se mi riesce. Il fatto che uomini così lontani tra loro nel tempo, nello spazio e nel carattere siano giunti a conclusioni così simili attira il mio interesse e potrebbe attirare anche il vostro, carissimi, se vorrete riflettere sulla circostanza che l’unica cosa che al di là di ogni dubbio ci accomuna è la certezza della fine. Che progetti avete per il tempo che ancora vi separa da quel momento? E quanto pensate che ve ne resti? Se considerate che forse ne rimane, a voi e a me, meno di quanto ne vorremmo, converrete che non è troppo ragionevole investire tutte le nostre risorse su quella parte della nostra vita che potrebbe svanire nel nulla in ogni istante, senza avere almeno tentato di appurare se ne esiste un’altra non toccata da quella minaccia. Se, dunque, decidete che la questione è degna del vostro interesse, i racconti degli esploratori che vi hanno preceduto possono servirvi come traccia, ma l’esperienza deve essere la vostra, sempre che non vogliate accontentarvi di quella altrui. In questo caso non vi biasimerei, ma, se potete, aspettate a farlo almeno fino alla fine di questo capitolo. Lasciamo dunque da parte i timori reverenziali e osiamo indagare con il nostro intelletto, cui non è giusto assegnare anzi tempo limiti troppo stretti: esiste davvero in noi qualcosa che si sottrae alla giurisdizione della morte? Permettetemi innanzitutto di attirare la vostra attenzione su un’altra cosa che ci accomuna: io posso porre la domanda che precede in quanto in primo luogo sono presente a me stesso e alla questione; e lo stesso vale per voi. Prima di essere qualsiasi cosa (io scrittore e voi lettori, per esempio) dobbiamo semplicemente esserci. La semplice presenza è la base per ogni successivo esser qualcosa o qualcuno. Questa presenza, peraltro, non è qualcosa che si possa dare per scontato, tanto è vero che è molto più facile essere assenti a sé stessi e alla situazione, sonnolenti o persi in qualche fantasticheria. E’ piuttosto un dato potenziale che può realizzarsi o meno, e che per la maggior parte di noi per la maggior parte del tempo non si realizza affatto. Dove siamo quando non siamo presenti? Siamo altrove, rimuginiamo il passato o sogniamo il futuro. Non siamo qui e ora, dove accade qualcosa che non approviamo perché non è come dovrebbe essere. Gli antichi, che intendevano il filosofare in primo luogo come una terapia delle passioni, si riferivano in particolare a questa malattia. Le passioni sono paure e desideri esagerati, dove l’esagerazione sta per una mancanza di proporzione o di misura con la realtà presente e il conseguente allontanamento da questa. La filosofia era per loro soprattutto un esercizio spirituale: un allenamento a fermarsi nel momento così com’è, frenando e gradualmente estinguendo la fuga nel dover essere (e nel dover avere). Ritorniamo al nostro tempo, in cui il dover essere è chiamato superio e il dover avere es, e la psicoanalisi è la pratica filosofica che promuove il rafforzamento della capacità di presenza a spese del soggiorno in quei territori alienati. Ma l’io, il soggetto di questa pratica, è un’entità assai precaria e problematica, che in questa disciplina si ritiene derivata da uno dei territori che poi dovrebbe bonificare; un’istanza cui si attribuisce il compito di mediare tra le esigenze delle altre due e quelle della realtà esterna, ma non un fondamento su cui far valere un’esigenza propria di libertà da tutti e tre i padroni. Anzi, il solo accenno alla possibilità di un tale fondamento potrebbe attirare sull’incauto che l’ha fatto l’accusa di spiritualismo, una delle più squalificanti in un tempo in cui il mito della scienza detta norme e valori. Per non attirarmela io stesso, mi affretto a chiarire che l’anima e lo spirito di cui parlo non sono sostanze metafisiche, di cui non avrei alcun titolo per parlare, ma categorie dell’esperienza, di cui invece parlo con pieno diritto, purché sia la mia. In un modo che potrete giudicare un po’ arbitrario, ma che non è tanto lontano da quello sancito dalla tradizione, chiamo anima la dimensione psicologica dell’esperienza che si radica originariamente nel rapporto con i genitori, e a partire da questo si espande e si ramifica nel senso di interdipendenza e di appartenenza reciproca tra esseri umani; mentre chiamo spirito la dimensione filosofica dell’esperienza, che si fonda sull’intuizione di un elemento simile al dio - la sapienza che il filosofo ama - e sulla liberazione, grazie a esso, da ogni legame. Ormai vi è chiaro il paradosso. Il processo della conoscenza di sé passa, in un primo momento, per l’accettazione della condizione mortale e quindi della dipendenza che ci lega gli uni agli altri; in un secondo momento per la scoperta di un elemento non mortale che ci rende liberi da ogni vincolo. Ma mentre la prima parte vi è del tutto evidente, non potete dire lo stesso della seconda; anzi, non potete tacere il vostro sospetto che in essa si nasconda quel nucleo di onnipotenza infantile che è felicemente scampato alla riduzione nella fase precedente e ora rientra in scena rimpannucciato e pimpante. Che cosa posso opporre alla vostra validissima obiezione? Solo la mia esperienza, che da un lato è poverissima, non potendo appoggiarsi ad alcun testo sacro né ad alcuna autorevole istituzione, ma dall’altro è più ricca di tutti i potenti di questa terra, se è vero, come a me sembra, che è in grado di poggiare su sé stessa. Io sono qui, davanti ai vostri e ai miei dubbi, e vi dico, come ha fatto a suo tempo un grande razionalista, che posso dubitare di tutto ma non del fatto che sto dubitando: cioè della mia presenza a me stesso nell’atto di dubitare, come in qualsiasi altro. A differenza di quel grande, tuttavia, non partirò da questa consapevolezza per spaccare il mondo in una sostanza pensante e un’altra estesa, installandomi nella prima e guardando con sussiego alla seconda. In effetti io posso essere presente anche senza pensare; anzi, se riesco a non pensare del tutto lo sono ancora meglio, come quando sono attento al respiro o a un abbraccio, in perfetto silenzio mentale. Si è fatto a gara, in questo secolo che sta finendo, nello scovare gli errori di Cartesio, che è stato accusato persino di assassinio della psicologia, per aver separato lo spirito dal corpo. A parte il fatto che se si volesse indagare su questo presunto delitto bisognerebbe almeno risalire al mandante, che naturalmente è Platone, io non desidero partecipare a questa gara. Al contrario, credo che dobbiamo essere grati all’autore della formula cogito, ergo sum, per averci richiamato al punto di partenza di ogni filosofia, che l’era moderna aveva smarrito. A patto di tradurre cogito con io sono cosciente, e non io penso. E’ vero che anche la seconda traduzione ha una parziale legittimità, ma andiamo con ordine. Prima di tutto voi volete sapere che cosa c’entra il cogito con l’immortalità. Se permettete, io girerei la domanda: che cosa c’entra la morte con il cogito? E risponderei: niente. Finisce tutto ciò che ha avuto inizio, dunque tutto ciò che vive nella durata. In effetti niente dura, di ciò che esiste nella durata: né il corpo, né l’anima. Ma lo spirito, il cogito, esiste solo nel presente. E’ la semplice presenza che non è destinata a decomporsi perché, non essendo composta, non è decomponibile. La percezione del nostro esserci è complicata dal fatto che esso di solito si identifica e si confonde con i suoi predicati. Chi siete?, vi domando. Voi mi rispondete: sono Giacomo o Carolina; sono un grafico o una logopedista; sono di sinistra o di destra; sono ateo o credente; amo il cinema o la musica rock; e così via. Ma io vi domando ancora: chi siete veramente? Il nome potete cambiarlo, la professione, le idee politiche, il credo e i gusti anche; persino il sesso potete cambiare, se proprio ci tenete. Mettete tra parentesi tutte queste cose, in fondo accidentali e aleatorie: quello che rimane è solo la coscienza indubitabile di esserci: il cogito. Vi ho chiarito che quando parlo di spirito non faccio della metafisica - non nel senso deteriore che il termine ha assunto oggi, almeno - ma mi riferisco solo alla più elementare delle esperienze. Ora mi rimane da mostrarvi il potenziale liberatorio della semplice presenza. Il lavoro precedente, sull’asse orizzontale o psicologico, riguardava la nostra dipendenza dalle persone che rispondono ai nostri bisogni e si prendono cura di noi. Se ora ci spostiamo sull’asse verticale non è per negare la nostra natura di esseri limitati e dipendenti, ma per vedere se, oltre a questo, siamo anche qualcos’altro. Ricordo bene la piazza di Milano che stavo attraversando in un tristissimo pomeriggio di adolescente improvvisamente illuminato da un pensiero: io posso pensare. Qualsiasi cosa accada, nessuno può impedirmi di staccarmi dalla scena e osservarla con calma dall’esterno, come se fossi uno spettatore del film cui prendo parte come attore. Fu la mia personale scoperta del cogito. In quel momento seppi che ero salvo. Il mondo poteva anche crollare, io sarei stato lì a vedermi lo spettacolo. Penso, dunque sono. Tutto ciò che esiste nello spazio e nel tempo posso dominarlo con la mente o lasciarlo al suo destino. Io, il pensatore, non ne sono toccato. Bella onnipotenza, obietteranno i pochi freudiani incalliti che ancora resistono tra voi. Un ragazzo triste e spaventato si rifugia in sé stesso perché non sa venire a patti con un mondo incomprensibile. Che libertà è mai questa? Una libertà cartesiana, miei cari. Una mezza libertà, in effetti, ma è meglio che niente. Una manna, a quell’età. Vi dicevo che tradurre cogito con penso è parzialmente legittimo: lo è nel senso che il pensiero, inteso come osservazione distaccata e distanziante delle cose, è una delle due modalità della presenza. Ma è da lì che si comincia: non vedo come possiate salvarvi dal risucchio nel flusso magmatico e mesmerico degli eventi se non avete imparato a prenderne le distanze. La coscienza ingenua preriflessiva si identifica immediatamente con quello che vive. Se si sente aggredita o colpevole, vuol dire che c’è stata un’aggressione o è stata commessa una colpa. La coscienza cartesiana (K, nel nostro schema) dubita di tutto: non so se è veramente accaduto, potrei averlo sognato. Socrate avrebbe detto: sembra che ci sia stata un’aggressione, ma poiché non sappiamo nulla con certezza, indaghiamo. Furono gli stoici a portare questa posizione alla massima chiarezza. Nella celebre sentenza di Epitteto (“gli uomini non soffrono per gli eventi, ma per le loro opinioni sugli eventi”) c’è già tutta la terapia cognitiva. Lo spirito sovrano prende le distanze non solo dagli eventi esterni, che appartengono al mondo, ma anche dalle opinioni, che appartengono all’anima. I primi non sempre si possono cambiare, ma le seconde sì, una volta scoperto che noi non siamo queste né quelli. Quale sia l’altra modalità della presenza, l’avrete già capito. Se con l’una si esce dal vissuto, con l’altra vi si rientra. Nei termini più semplici: la libertà dalle emozioni e quella di viverle fino in fondo sono i due modi simmetrici della presenza. Libertà da e libertà di. Vedete bene che la facoltà di uscire di casa, se non è accompagnata da quella di rientrarvi, non è granché; e lo stesso vale per la condizione opposta. E’ vero che, se la casa brucia, conviene pensare prima di tutto a mettersi in salvo (com’era stato il caso del ragazzo sopraccitato, assai felice di avere trovato l’uscita e dispostissimo a restare senza fissa dimora, avendo ben soppesato i pro e i contro della vita famigliare). Ma lo spirito non ama restarsene in disparte troppo a lungo. Anche la presenza ha un suo tempo, che non è il tempo della durata, ma quello del ritmo e del ciclo: dentro e fuori dal mondo, fuori e dentro la vita dell’anima e del corpo. Non avevano ragione di chiamare divina questa presenza gli antichi e il pensatore inattuale? Voglio ricordarvi la descrizione nietzscheana del dio Dioniso che vive in noi come genio del cuore, posto che sappiamo risvegliare la sua/nostra presenza. “Il genio del cuore che fa ammutolire ogni voce troppo sonora e ogni compiacimento di sé e insegna a porsi in ascolto, che leviga le anime scabre e infonde loro un nuovo desiderio da assaporare - quello di starsene taciturni come uno specchio affinché in esse si rispecchi il profondo cielo… Il genio del cuore che insegna alla mano maldestra e precipitosa l’indugio e una maggiore delicatezza nell’afferrare: che sa divinare il tesoro occulto e obliato, la goccia di bontà e di dolce spiritualità sotto un ghiaccio torbido e spesso, ed è una bacchetta magica per ogni granello d’oro, che a lungo sia restato sepolto nel carcere di molto fango e sabbia; il genio del cuore, dal cui tocco ognuno si diparte più ricco, non graziato e stupito, non beneficato e oppresso come da un bene estraneo, sebbene più ricco di sé, più nuovo che per l’innanzi, dissigillato, alitato e spiato da un vento astrale, forse più insicuro, più delicato, più fragile, più infranto, ma colmo di speranze che non hanno ancora un nome, colmo di un volere e di un fluire nuovo, colmo di una nuova riluttanza e di un nuovo riflusso…”. Al genio del cuore del filosofo corrisponde con eccellente approssimazione la figura del mistico di Bion: colui che mettendosi in ascolto del cuore ignoto dell’essere ne riceve ispirazione e linfa vitale. Il mistico - la presenza nel vertice O del nostro quadrato - sta al mistero come lo scienziato sta alla conoscenza. Il movimento del cogito non è un semplice andirivieni da e verso un mondo che rimane costante. Dopo aver preso le distanze dalla realtà, la presenza si apre al mondo della possibilità. Il terapeuta osserva da una posizione neutra (vertice K) tutto ciò che accade - è più esatto dire che neutralizza in continuazione e per quanto può tutte le aspettative e preconcezioni che interferiscono con la sua visione - e incoraggia il suo paziente a fare altrettanto. Quindi, spostandosi nel vertice opposto, cerca di sintonizzarsi con la dimensione ignota (O) - con l’inconscio, se preferite - per cogliere, assieme all’altro, tutte le potenzialità inespresse di una situazione che appare chiusa e bloccata. La capacità di mettersi nella posizione del mistico, vale a dire di immergersi nel mondo delle infinite possibilità per riemergerne con soluzioni nuove a vecchi problemi - corrispondente al volo magico con cui i nostri antenati sciamani si recavano nella dimora degli spiriti per averne indicazioni sulla cura delle anime - è la funzione cruciale di ogni terapeuta degno del nome: con esclusione, cioè, di tutti coloro che, incapaci di silenzio, non attingono le loro risposte dal cuore dell’essere che non sanno ascoltare, ma dall’archivio di soluzioni preconfezionate apprese sui banchi e i divani delle loro scuole. Questo vale nel modo più evidente e necessario per la terapia, carissimi, ma si applica ugualmente a ogni situazione in cui sia in gioco il risveglio del cogito dalle brume del dover essere e del dover avere in cui è avvolto. E poiché in quelle lande caliginose si aggirano e prosperano i fantasmi di ogni angoscia esistenziale, se volete liberarvene non avete che da rischiararle con la vostra presenza. Voi esitate, e vi capisco. Avete appena iniziato a bonificare la vostra mente dai suoi terrori infantili grazie all’esperienza correttiva, materna e paterna, che vi fornite vicendevolmente; e già vi trovate di fronte a un compito nuovo e ben più formidabile. E tuttavia io vi chiedo: se non volete far vostra la capacità divina di muovervi sulla linea che unisce la conoscenza e l’ignoto, a chi pensate di delegarla? Suppongo, nell’ipotesi migliore, a coloro che ne hanno la competenza istituzionale, gli scienziati e i preti, nelle cui mani vorrete consegnare la vostra vita. Se quelle mani vi sembrano più affidabili delle vostre, fate bene. In caso contrario, potrebbe interessarvi quanto segue. X . Platone versus Freud Il più è fatto. Dei quattro personaggi dell’umana e divina commedia che vi ho presentato almeno uno è sempre in scena in ogni azione che abbia per tema la paura e il suo superamento. Se volete prendere parte al gioco, dovete disporvi a indossare l’una o l’altra delle maschere, a seconda delle esigenze del copione che si viene via via scrivendo. Parlo di maschere e di commedia perché non vi venga la tentazione di prendere tutta la questione troppo sul serio, ora che avete imparato a non prenderla alla leggera. Vi metto in guardia, in particolare, dal pericolo di elevare i quattro personaggi al rango di figure archetipiche, come potrebbe accadervi nel caso l’analista sul cui divano vi siete allungati o nella cui poltrona vi siete rannicchiati per molti anni avesse mostrato un’inclinazione in tal senso. Da me, certo, non vi aspettate una mappa dell’essere, con quattro enti ben installati ai quattro angoli del mondo a fare buona guardia sull’ordinato andamento delle cose, e magari una quinta essenza a tenere assieme il tutto. Non ho titoli, vi è ormai chiaro, per avventurarmi in costruzioni metafisiche; ma ho bisogno, come tutti i naviganti, di carte nautiche e strumenti di viaggio. La divisione in quadranti del territorio racchiuso dalla linea dell’orizzonte, con le quattro figure nei punti cardinali, mi permette di definire in ogni momento la mia posizione e la direzione in cui mi sto muovendo. Posso dire, ad esempio: procedo in senso paterno-scientifico, come un marittimo direbbe: rotta a nord-est. Il navigatore si orienta con il sole e con la stella che sta allo zenit del polo nord, io con le funzioni genitoriali e filosofiche. In entrambi i casi la scelta non è arbitraria, ma è dettata dalla particolare situazione dell’uomo tra terra e cielo. Se il vostro naviglio incrociasse sotto l’equatore, cerchereste un’altra stella. Se il vostro orizzonte fosse diverso dal mio, potreste trovare più conveniente orientarvi su altre figure; se poi preferiste dividerlo in cinque o sei parti, anziché in quattro, non avrei obiezioni. Ma non credo che voi ne abbiate sul principio: l’importante è sapere dove si sta andando. Dove stiamo andando? Nel paese della libertà, altrimenti detto utopia come il filosofo era detto dai Greci átopos, che vuol dire incollocabile: perché la sapienza che ama e la libertà che cerca non si trovano in alcun luogo dello spazio e del tempo. Che sia questa la nostra direzione sono autorizzato a pensarlo dall’oggetto stesso del nostro discorso. Se mi seguite in queste riflessioni sulla paura, non mi pare azzardato ritenere che sia perché anche a voi non dispiacerebbe liberarvi dalla sua morsa. E forse a questo punto anche voi vi chiedete: come potrebbe non sentirsi attanagliato dal timore un essere psicologicamente e spiritualmente debole? Traendo dalla vostra domanda la conseguenza necessaria che chi vuol esser libero non ha che da rafforzarsi sull’uno e l’altro asse della sua persona. E chi può rafforzarsi? Voi e io che conosciamo la nostra debolezza, non certo chi, ignorandola, si trova nella condizione di non poter neppure iniziare questo cammino. Che tale consapevolezza sia necessaria, ma purtroppo insufficiente, è mostrato peraltro dalla sterminata schiera di coloro che nella debolezza si adagiano come fosse il più confortevole dei giacigli. Questa strana malattia merita di essere ben indagata, non tanto per curiosità scientifica quanto perché sarebbe rischioso per voi e per me illuderci di esserne immuni. Stendiamo un piccolo elenco di fenomeni che appartengono a questa sindrome. Al primo posto metterei la convinzione che la debolezza comporti automaticamente il diritto alla protezione e all’assistenza da parte dei forti: idea che dall’infanzia, in cui è fisiologicamente fondata, trapassa per molti nell’età adulta producendo e alimentando le aspettative più tenaci ma di per sé non irrealistiche, dal momento che non di rado incontrano chi è disposto a legittimarle. Si va dagli amorevoli genitori del subcontinente indiano che storpiano vistosamente i figli per assicurar loro un reddito a vita da elemosina, alle masse nostrane che puntano alla pensione di invalidità come al più ambito dei riconoscimenti. Si può andare e si va ancora più in là: la debolezza, con la relativa sofferenza, è trasformata in un merito da premiare, se non in questa vita almeno nell’altra, che deve necessariamente esistere se non altro per garantire la regolare consegna del premio. Chi al riguardo non ha dubbi riesce per lo meno a rasserenarsi nell’attesa della giusta ricompensa, che sarà tanto più lauta quanto più grave è l’ingiustizia attualmente patita. Chi invece conserva qualche dubbio, cerca di farsi giustizia da sé coltivando la pianta del risentimento che è, sì, velenosa come tutte le sostanze inebrianti, ma è anche dotata di un potente effetto consolatorio. Fin qui, direte voi, è psicologia elementare: chi si sottrae al piacere e al dovere di rafforzarsi lo fa perché ricava dalla sua debolezza vantaggi reali o immaginari che lo compensano quanto basta. E tuttavia questa spiegazione non vi soddisfa del tutto, perché lo spettacolo del masochismo morale che celebra sotto i vostri occhi i suoi fasti quotidiani ha in sé qualcosa di grandioso, vorrei dire di metafisico, comunque irriducibile ai modesti calcoli sopra riportati. C’è qualcosa di inesplicabilmente attraente nell’atto di lasciarsi affondare nella sconfitta, nell’umiliazione e nel fallimento. Si direbbe che in tal modo sia soddisfatto un istinto primario, detto di décadence o di morte rispettivamente da Nietzsche e Freud, che più acutamente di altri hanno avvertito la sua cupa e onnipervasiva presenza. Il fatto che questa parte della teoria freudiana sia stata quasi unanimemente rifiutata dagli psicoanalisti la dice lunga, considerando la loro devozione al maestro, sulla resistenza che tutti noi opponiamo al riconoscimento dell’attrazione fatale. Per liberarci della paura che è naturalmente inerente a ogni condizione di debolezza dovremmo diventare più forti. D’altra parte il cedimento a tutto ciò che ci indebolisce è molto più desiderabile, come ben sapete. Trovo giusto il detto di Zarathustra: l’uomo è un cavo teso tra il bruto e il superuomo, che significa: l’uomo è un essere che si distingue per la sua capacità di abbrutirsi come di superarsi. Alle due possibilità corrispondono due impulsi, di cui vi propongo di analizzare le manifestazioni sullo scenario onirico. Che rapporto avete con i vostri sogni? Spero che abbiate l’abitudine di trascriverli regolarmente sul vostro diario di bordo. Se non l’avete, vi suggerisco di prenderla: è un modo eccellente per curare il dialogo con il vostro inconscio, e Dio sa se ne avete bisogno. Trascurarlo è come infischiarsi di che cosa pensa il socio principale della vostra azienda. Avete smesso di segnarli perché non ci capite granché? Forse vi siete scoraggiati dopo aver letto l’Interpretazione dei sogni di Freud. In questo caso, vi capisco. Ci sono almeno due ragioni per non seguire le indicazioni di quel testo (dopo averlo doverosamente letto). La prima è che il metodo delle libere associazioni, se applicato ai sogni, vi complica inutilmente la vita. Aveva osato dirlo Jung per primo, ma poi la sua osservazione è stata raccolta anche in campo freudiano: in particolare da Fornari, a mio parere uno degli analisti più originali e meno parrocchiali che si siano mai visti dalle nostre parti. Che cosa ha detto Fornari? Che il testo di un sogno può essere interpretato come qualsiasi altro, ad esempio il verbale di una riunione condominiale, semplicemente ricostruendo la trama affettiva che sottintende qualsiasi discorso umano, quale che ne sia il contenuto manifesto. Per far ciò non abbiamo affatto bisogno di ampliare il testo del sogno con le libere associazioni del sognatore, come suggeriva Freud, e tanto meno con quelle che l’analista attinge al suo ricco data base mitologico, come ha invece proposto Jung. Di che cosa abbiamo bisogno allora? Di nient’altro che di un mazzetto di unità elementari di significazione (o coinemi, come li chiamava Fornari): i parentemi (padre, madre, figlio), gli erotemi (parti del corpo e azioni legate alla sessualità), la nascita, la morte. A questi io aggiungerei solo i due impulsi basilari: di vita (di crescita, rafforzamento, guarigione) e di morte (di decadenza e annientamento). Il primo è sovente personificato nei sogni come terapeuta interno (che ha, come quello esterno, i tratti di una o più delle quattro figure che conoscete). Il secondo motivo per cui non vi consiglio di seguire il metodo freudiano è la sua unilateralità. Il soggetto inconscio della psicoanalisi è un furfantello lascivo, iroso e vendicativo, animato unicamente dalla volontà di soddisfare i suoi desideri, per lo più ignobili, mascherando le sue vere intenzioni con un abile lavorio che abbastanza spesso gli permette di renderle irriconoscibili. Purtroppo è vero, è verissimo che in noi abita un tale manigoldo, e la nostra riconoscenza per l’uomo che ce lo ha fatto impietosamente vedere, distruggendo per sempre le nostre illusioni su noi stessi, deve essere imperitura come quella che abbiamo per i massimi benefattori dell’umanità. Ma è ugualmente vero che nel nostro inconscio non abita solo quel personaggio, per quanto la sua presenza possa essere così ingombrante da offuscare qualsiasi altra. Ho riletto i sogni di Freud alla ricerca di una volontà inconscia diversa da quella da lui implacabilmente braccata e sbugiardata, ma non ne ho trovato traccia. Del resto, non me ne meraviglio: il padre della psicoanalisi ha selezionato il suo materiale in funzione della tesi che doveva dimostrare. Per non espormi alla stessa accusa, io seguirò un procedimento differente. Non farò alcuna scelta, ma trascriverò qui di seguito i due sogni che ricordo della notte scorsa. Ecco il primo. Uscendo da un parcheggio commetto un’infrazione. Un vigile me la contesta. Io mi giustifico e chiedo che la contravvenzione sia annullata. Il vigile è visibilmente irritato dalla mia richiesta. Risponde che se voglio mi cancellerà la multa, ma non sarebbe giusto. Riconosco che ha ragione, e accetto di pagare. Ed ecco il secondo. Sto affrontando alcune prove per essere assunto in una società. Trovo che alcune di queste (non ricordo quali) siano ingiuste, e le rifiuto con decisione. I dirigenti accettano la mia contestazione. Anzi, sembra a questo punto che una parte dell’esame consista proprio in una dimostrazione di autonomia di giudizio. Invece non rifiuto un’altra prova che è molto dura, ma che, pur non comprendendola, non ho motivo di ritenere ingiusta. Si tratta di mangiare un pezzo di lamiera largo come un tovagliolo. Taglio dei piccoli pezzi di metallo e li mastico per cercare di smussarne le punte, che altrimenti potrebbero perforarmi le viscere. A questo punto i dirigenti sospendono la prova, reputando corretta la mia risposta. L’esame è superato. Devo ammettere che l’esito della prova mi ha incoraggiato in questa esposizione abbastanza temeraria. Sono sicuro, comunque, che non vi siete lasciati impressionare dal mio colpo di teatro. Anche Freud in un suo scritto ha presentato un sogno fresco di nottata: ma non abbiamo avuto, né lui né io, il fegato di dichiarare che commenteremo quello della notte prossima. Entrambi i miei sogni trattano il tema del rapporto con l’autorità, incarnata nel primo da un vigile che mi contesta un’infrazione. La sua irritazione evidenzia l’infondatezza della mia pretesa di non pagare la multa. Tuttavia egli non mi impone nulla: si limita ad appellarsi alla mia responsabilità. Non mi resta che arrendermi e riconoscere il mio torto. Il tentativo di farla franca tradisce la mia convinzione di avere diritto a un trattamento speciale e di non essere soggetto al rispetto della legge come i comuni mortali. Non ne siete affatto sorpresi, i vostri sospetti sulle mie fantasie di onnipotenza ricevono una puntuale conferma. Tuttavia questo desiderio non prevale. Lo sguardo severo del vigile mi induce a desistere e a fare atto di sottomissione. E’ lecito vedere, in questo sogno, il contrasto tra un desiderio di trasgressione e uno di accettazione della legge? O, in altre parole, tra una volontà di conservare l’onnipotenza infantile e una di abbandonarla a favore del processo evolutivo? Si può affermare che la conclusione di questa scena è determinata dal prevalere di una volontà di emancipazione dalla fantasia infantile, e quindi di rafforzamento e di crescita? Vorrei dire di sì, e mi piacerebbe portare questo sogno come elemento di prova. Sfortunatamente non posso negare che lo stesso materiale si presta benissimo anche a una lettura freudiana ortodossa: secondo la quale io non mi sottometto perché voglio rafforzarmi e crescere, ma solo perché temo la disapprovazione della figura paterna che si è installata dentro di me, dove svolge le sue mansioni regolamentari di superio. Sarebbe in tal modo confermato che tutta la vicenda si muove all’interno di una logica inesorabilmente infantile: il conflitto tra il desiderio di trasgressione e quello di non contrariare il padre-superio si risolve semplicemente a favore del secondo. Lasciamo dunque in sospeso la questione e procediamo nell’analisi del secondo sogno, dove sono alle prese con un tipico esame di ammissione. Sarebbe ancora più tipico se fosse un esame che nella realtà ho già affrontato e superato, come quello di maturità liceale. Qui invece spero di essere assunto in una società del tutto anonima, tanto da rendere plausibile l’ipotesi che il tema sia quello dell’entrata “in società”, secondo il classico schema dei rites de passage che è comune a questo tipo di sogni. Per cominciare, c’è un capovolgimento rispetto alla scena precedente. Mentre lì un’autorità mi faceva notare l’ingiustizia del mio comportamento, e io non avevo difficoltà a darle ragione, qui succede il contrario: sono io a prendermi la soddisfazione di far rilevare ai commissari di esame la scorrettezza di alcune prove cui dovrei sottopormi, e sono loro ad accettare le mie osservazioni. Così facendo si direbbe che io dia una prova di indipendenza di giudizio e mostri di non essere disposto a subire prepotenze per ingraziarmi gli esaminatori. Non rifiuto invece una prova molto dura e quasi impossibile, com’è quella di mangiare un bel pezzo di lamiera. Il contrasto con quanto precede è solo apparente, perché è come se io dicessi a chi mi giudica: signori, io ho respinto le prime prove non per debolezza, ma per amore di verità; che il coraggio non mi manchi ve lo mostrerò ora non sottraendomi a quest’altra, così ardua e rischiosa. “Zenone pensava che, grazie ai suoi sogni, ognuno potesse avere coscienza dei progressi che faceva. Questi progressi sono reali se uno non si vede più vinto, in sogno, da qualche passione vergognosa, o consenziente ad alcunché di cattivo o ingiusto”. Così Plutarco. Se avesse ragione Zenone (il fondatore della scuola stoica), avrei motivo di essere soddisfatto di questi sogni. Il rafforzamento ottenuto fino ad ora non sarebbe superficiale, ma abbastanza profondo da resistere alla prova onirica. Sarei capace di oppormi all’ingiustizia, ma anche di masticare i bocconi durissimi che in ogni caso la vita serve a me come a chiunque altro. Il mio rapporto con l’autorità sarebbe libero da soggezione: mi sottometto se ha ragione, mi ribello se ho ragione io. Va da sé che un freudiano non accetterebbe queste conclusioni. Sarebbe certamente insospettito dal capovolgimento che il secondo sogno realizza rispetto al primo, in cui avevo dovuto sottomettermi all’autorità. Non ti sembra, mi chiederebbe, che adesso stai cercando di prenderti la tua rivincita? Impartisci una lezione ai tuoi esaminatori, ma non ti basta, vuoi stravincere. Devi avere un bel po’ di pelo sullo stomaco, uno stomaco davvero a prova di lamiera. Non c’è che dire, hai un coraggio proprio sovrumano. Quasi onnipotente, no? Devo ammetterlo: in questo caso, come nell’altro, la lettura freudiana non è meno plausibile di quella che avrebbe dato un filosofo stoico. Questo dimostra che per via interpretativa si può dimostrare quello che si vuole, come in effetti avviene nelle numerose scuole psicoanalitiche e psicoterapeutiche. Ma non è un motivo per perdersi d’animo. Se, dato un certo materiale, si possono fare diverse ipotesi per spiegarlo, benissimo: più ipotesi siamo capaci di produrre, meglio è. L’importante è non fissarsi su alcuna, ma definire chiaramente le procedure di verifica e falsificazione. Da questo deriva che: primo, è un’ingenuità credere di possedere la chiave autentica per decifrare l’inconscio e i sogni (tipo: “il sogno è la realizzazione allucinatoria di un desiderio”). Di chiavi ce ne sono tante; non è male averne in tasca più d’una; ma soprattutto serve capire quali porte aprono, e dove si pensa di andare passando di lì. Secondo: quasi sempre è possibile avere una o più letture soddisfacenti di un sogno senza ricorrere a libere associazioni, ma ciò da cui non si può prescindere è il quadro in cui questa lettura si fa. Un testo ha bisogno di un contesto. Qual è il nostro quadro? Un discorso sulla paura e un lavoro per liberarci dalla sua presa paralizzante. Le paure di cui faremmo volentieri a meno sono quelle irrazionali che attestano la presenza in noi di una parte debole, non sufficientemente emersa dall’infanzia. Non possiamo pensare di star meglio se non provvediamo a rafforzarla. Se ora io vi dicessi: carissimi, non me la date a bere. So benissimo che non avete la minima voglia o intenzione di crescere, come non l’ho io e non l’ha mai avuta nessuno. Le vostre vere motivazioni sono tutte radicate nel desiderio infantile, che è abilissimo a camuffarsi ed è pronto a qualsiasi giravolta pur di ottenere quello che vuole. Però vi conviene tener conto della realtà, e quindi prender coscienza di tutti i modi in cui fino ad ora avete potuto evitare di farlo. Quanto più ci riuscirete, tanto più sarete in grado di adattarvi a un mondo adulto che inevitabilmente contraddice i vostri desideri più profondi. Questo non vi renderà felici e non darà alcun senso alla vostra vita, ma che volete farci. La vita è questa, è meglio prenderla per quello che è piuttosto che campare di sogni e di nevrosi. Se vi parlassi così, potrei forse sedurvi con una prospettiva di disincanto che vi farebbe sentire superiori al resto dell’umanità ancora immerso in illusioni senza avvenire. Ma non potrei certo persuadervi a un lavoro per una vera crescita cui io per primo dichiaro di non credere. Con questo non voglio dire che il freudismo abbia in sé meno verità di qualsiasi altra visione del mondo. Dico solo che è un approccio obbligato fintanto che siete animati principalmente da una volontà di smascherare e demistificare: che peraltro vi raccomando di non abbandonare mai, perché la capacità di ingannare noi stessi è di gran lunga la meglio sviluppata di tutte le nostre doti e, per quanto ne so, è inestinguibile. Ma se, oltre a questo, volete veramente curare voi stessi o qualcun altro, dovete cercare un’altra base per il vostro lavoro: come del resto Freud per primo, con il suo evidente e crescente disinteresse per la terapia, implicitamente riconosceva. La disinvoltura con cui gli psicoanalisti di diverse scuole interpretavano qualsiasi materiale in modo da trarne sempre una convalida delle loro teorie indignò talmente Popper da indurlo a inventare il principio di falsificabilità, per il quale il valore scientifico di una teoria non dipende dalla quantità di prove che la confermano, ma dal fatto di poter essere falsificata, cioè confutata. L’affermazione “il sogno è la realizzazione allucinatoria di un desiderio” è inconfutabile, perché è sempre possibile interpretare un sogno in modo da confermarla, e quindi il suo valore scientifico, secondo questo principio e anche secondo me, è abbastanza modesto. Al confronto appare superiore, proprio perché confutabile, la teoria di Platone, che pure parte dalle stesse premesse: durante il sonno, quando la parte razionale dell’anima dorme, “salta fuori l’altra parte, quella animalesca, selvatica, che… facendosi largo nel sonno cerca di venire a galla e soddisfare le sue aspirazioni… Così, ad esempio, non ha alcuna esitazione a rappresentarsi un’unione incestuosa con la madre, o con un altro uomo, qualsiasi sia, o con dei o con animali, oppure a macchiarsi del sangue di chiunque, o a cibarsi di qualunque cosa. Insomma, non lascia indietro nulla per folle o indecente che sia”. Ma questa prevalenza nei sogni della nostra parte peggiore non è affatto scontata, secondo Platone. Per evitarla basta non cedere al sonno prima di essersi occupati nel modo appropriato della nostra parte concupiscibile, che non va tenuta digiuna, ma non deve essere nemmeno del tutto saziata, della parte irascibile, che va calmata, e di quella razionale, che va stimolata e attivata. Provate a seguire il suggerimento di Platone, e poi osservate se e come cambia la qualità dei vostri sogni. E’ una teoria che consente di formulare previsioni confutabili, e quindi è più vicina a ciò che oggi consideriamo scientificamente corretto di quanto non sia la psicoanalisi. Ma vale la pena darsi da fare per sognare meglio? Sì, se ha ragione Zenone, cioè se i progressi nel sogno hanno una corrispondenza con quelli della veglia: in questo caso l’osservazione dei primi ci servirebbe per controllare l’andamento dei secondi. Teoria falsificabile anche questa, tra l’altro. Adesso non mettetemi, per favore, nella lista dei nemici della psicoanalisi. Di Freud, e di quanto dal tronco freudiano è rampollato, io ho bisogno quanto voi. Ciò di cui invece possiamo fare a meno è la spocchia che trasforma chi ne è affetto in un vate depositario non di una, ma della chiave che apre l’accesso ai misteri della vita. E’ ben riconoscibile, lo spocchioso, perché non desidera confrontarsi con le discipline affini e concorrenti, ha un interesse tiepido per i procedimenti scientifici di verifica e assolutamente nullo per quelli di falsificazione. Ma so che voi, miei cari, siete di un’altra pasta: tanto è vero che l’idea di mettere alla prova il consiglio di Platone, ne sono certo, non vi dispiace. Vi serve qualche chiarimento pratico? Sono qui per questo. Sollevato, per una volta, dalla possibilità di stare sulle spalle di un gigante, sono pronto a fornirvi, nei prossimi quattro capitoli, tutte le delucidazioni del caso. Perché solo quattro? Vi ringrazio per il gentile tentativo di trattenermi, ma ho deciso che i capitoli saranno quattordici, non uno di più. Intanto perché questo numero corrisponde a una mia idiosincrasia pitagorica. A motivo di una congenita lentezza raramente riesco a sentire completo un ciclo di sette unità (giorni o anni, ad esempio), mentre la misura doppia per lo più mi va a pennello. A parte questo, sono convinto che uno scritto breve sia più che sufficiente per gli obiettivi limitati che mi propongo. Se qualcuno di essi sarà raggiunto, e se gli dei non hanno in serbo altri piani per me o per voi, troveremo di certo il modo di riprendere il discorso. XI . La casa-base Se la paura segnala uno stato di pericolo la cui gravità è direttamente proporzionale alla nostra debolezza, per ridurre l’intensità del segnale senza ricorrere all’alcool, agli ansiolitici o a mezzi consimili chimici o mentali, non c’è altro che diventare più forti. Ma questo presuppone il risveglio, dal sonno profondo in cui facilmente cade, della volontà di esserlo. Dobbiamo credere, anche quando sembra svanita, che essa sopravvive allo stato latente, più o meno intorpidita e soppressa da una potenza opposta, una neghittosità, una ribellione alla fatica e all’incertezza del vivere, una voglia di annullare tutto e sparire. Ciò significa, fratelli, che se la volontà di vivere, crescere o guarire di cui disponete è gracile e impari alla bisogna, quella che manca dovete andare a ripescarla nelle profondità catalettiche in cui giace, sommersa da molti strati di negazioni, traumi e sconfitte. L’attraversamento di queste falde, come potete aspettarvi, non è un viaggio di piacere, ma è certamente alla vostra portata, se decidete di intraprenderlo: decisione che in effetti viene da sola, nel momento in cui ne avvertite l’inderogabile necessità. Alla quale altrimenti derogate più che volentieri, fintanto che potete farlo. Ma che cosa vi trattiene ai livelli più superficiali del vostro essere, apatici e scontenti, abbarbicati a mediocrissime certezze, rimuginanti sogni rancorosi, dediti all’esercizio rassegnato e meticoloso dell’autocommiserazione? Che cosa annebbia fino a tal punto la vostra (e la mia) vista? Una parola è adatta a descrivere il virus che si impadronisce della nostra mente e la intorbida fino a ottenebrarla del tutto: giustificazione (parola che include anche il suo reciproco: condanna). Se vogliamo trasformare il nostro dialogo interno in un regolamento carcerario non abbiamo che dire, ad esempio: sono troppo vecchio, o troppo sfortunato, o troppo debole e incapace per essere preso in considerazione, per crescere o cambiare. Ne consegue che conviene di solito partire dalla, e in ogni modo ritornare spesso alla, posizione che nel quadrato a voi ben noto corrisponde al vertice K. Ricorderete che ho preso a prestito questa lettera dall’analista inglese che l’ha impiegata come iniziale della parola knowledge, conoscen-za, in connessione con la lettera O, che nella stessa lingua significa zero, nella fattispecie ignoto. L’O di Bion ha una qualità filosofica che la differenzia dall’inconscio freudiano. Mentre questo denota il rimosso, il materiale psichico cui l’accesso alla coscienza è stato rifiutato ma in linea di principio può essere consentito - ciò che è inconscio può divenire cosciente - l’ignoto è l’inconoscibile: la cosa in sé, o l’originario, rispetto a cui ogni conoscenza è una trasformazione, non una rappresentazione, e ancor meno una spiegazione; è il mondo delle infinite possibilità di cui ogni fenomeno è una realizzazione. Se K ha sempre O come sfondo, la conoscenza non è mai corrispondenza definita e definitiva con la cosa in sé, ma solo descrizione sempre parziale e provvisoria di come la cosa appare in un dato momento a un osservatore. Non dovete temere che questo ci faccia precipitare in una selva relativistica di punti di vista arbitrari quanto equivalenti. Infatti ciò che appare - il fenomeno - ha una sua qualità oggettiva che lo rende riconoscibile all’osservatore spassionato. Quanto più questi riesce a sospendere la memoria e il desiderio, come suggerisce Bion, o i giudizi e le motivazioni ordinarie, se preferite la formula di Husserl, tanto più i fenomeni gli si mostrano per quello che sono. Potete iniziare a praticare l’epoché in qualsiasi momento, se non avete già iniziato a farlo. Non dovete chiedere il permesso a nessuno. E’ sufficiente che abbiate capito, e a questo punto dovreste almeno avere cominciato a sospettarlo, quanto è avvolgente la ragnatela di giudizi, convinzioni e aspettative che vi imprigiona. La voglia di liberarvene non può che venirvi di conseguenza. Sfortunatamente il cammino di liberazione è arduo e denso di insidie. Nelle scuole filosofiche dell’antichità si chiedeva, a chi voleva intraprenderlo, un impegno indefesso e un’adesione totale ai principi e ai metodi insegnati. Ancora oggi l’appartenenza a una scuola e la fedeltà assoluta ai suoi dogmi sono considerate da molti condizioni imprescindibili. Molti trovano temeraria l’idea che si possa procedere al di fuori di un contesto istituzionale, senza maestri e senza regole rigide. Si può, ma devo avvertirvi che è più difficile. Ormai posso dirvelo, avendo appurato che le difficoltà non vi spaventano. Se riuscite a diventare seguaci di qualche maestro, scuola o chiesa, meglio per voi: da quel momento non avrete che da affidarvi alla guida che avete scelto. Se invece non ci riuscite, la guida dovete trovarla dentro di voi: in questo caso il rischio di smarrirvi è più alto, e più forte la tentazione di lasciar perdere. Ma forse è troppo tardi, per voi come per me. Non siamo così progrediti da vedere la meta, ma nemmeno così annebbiati da non saper muovere un passo senza che qualcuno ci dica dove mettere il piede. Non abbiamo camminato abbastanza da poterci sentire in salvo, ma quanto basta per respirare un po’ di aria fresca fuori dal recinto dei miti privati e collettivi e per non aver più voglia di tornare alla vecchia aria viziata. E’ il punto di non ritorno cui l’Occidente mi sembra sia arrivato con il secolo dei lumi. Voi pensate di sapere che cosa sia l’illuminismo, ma la nozione corrente include uno solo dei lati che esso aveva all’inizio. Il lume di cui si tratta non è solo quello della ragione, come comunemente si crede. Molti illuministi, soprattutto i tedeschi, distinguevano la luce della conoscenza da quella dell’inconoscibile, di competenza rispettivamente dello scienziato e del mistico. Di entrambe c’è bisogno per rischiarare il cammino, ed esce dallo stato di minorità chi cerca di percepirle con i propri mezzi, cioè con il proprio cervello (sinistro e destro) e non con quello di qualcun altro. Disgraziatamente il secolo dei lumi, che erano due, per il prevalere di uno è diventato l’età della ragione. La quale non riconoscendo più alcun dio fuori di sé è divenuta una dea essa stessa. Smarrendo il contatto vitale con l’origine prerazionale, la ragione decade in razionalismo mentre il progresso prende il posto della crescita. Simmetricamente il fondamento rimosso ritorna come fondamentalismo. Razionalisti e fondamentalisti - progressisti e reazionari - si combattono aspramente senza capire di essere figli dello stesso errore. Chi ci salverà dagli uni e dagli altri? Nessun escamotage postmoderno, credo. Piuttosto il recupero di quell’illuminismo che, grazie all’assenza di soggezione nei confronti di qualsiasi mito e autorità, può partecipare in tutta libertà alla vita fenomenica senza dimenticare il noumeno. Vi fa star meglio questo piccolo inquadramento storico? Io preferisco sentirmi figlio dell’illuminismo che figlio di nessuno o di un errore. Spero che voi condividiate la mia preferenza, visto che è l’unica parentela di cui sono orgoglioso. In questo caso la nostra fratellanza troverebbe una matrice di tutto rispetto. Torniamo dunque al nostro punto K, che si potrebbe chiamare anche vertice della riflessione. Riflettere significa, letteralmente, comportarsi come uno specchio. Vale a dire, trasformare la propria mente in una superficie il più possibile priva di qualsiasi scabrosità: di qualsiasi caratteristica propria che non sia quella di rispecchiare nel modo più fedele ciò che ha di fronte. Riflette colui che si distanzia dalle cose e si colloca nella posizione di un osservatore neutrale per vederle come sono. Una neutralizzazione che è, naturalmente, sempre parziale e imperfetta. Se cadete nell’illusione di averla ottenuta in modo compiuto, sarete portati a ritenere in errore chiunque veda le cose diversamente da voi. Avrete notato, spero, che non ho lesinato gli sforzi per proteggervi da questa perniciosa caduta. D’altra parte, l’identificazione acritica e non problematica della propria esperienza con la verità delle cose è ciò che caratterizza la condizione mentale preriflessiva, la dimora abituale della maggior parte di noi per la maggior parte del tempo. Vi è ormai chiara la differenza tra un modo di rapportarsi al mondo intriso di desideri, timori, aspettative e gabbie mentali di ogni sorta, e un altro in cui è presente l’impegno di portare alla coscienza e neutralizzare per quanto è possibile questi fattori. Nella relazione terapeutica - in quella professionale come in quella domestica, quando giocate a terapeuta-e-paziente con il vostro partner - il vertice K è la casa-base di chi in quel momento conduce la danza. Che abbiate deciso di indossare la maschera di colui che guarisce per vocazione, per gioco o per l’infondata speranza di arricchirvi, per una scelta avveduta, amorevole o sconsiderata, in tutti i casi è per voi assolutamente indispensabile riflettere su quanto sta accadendo nel campo affidato alle vostre cure. Tanto è vero che, se non lo fate, in pochissimo tempo vi troverete avviluppati in qualche groviglio senza capo né coda, da cui difficilmente potrete svincolarvi in modo indolore. Se, dunque, non siete sicuri della vostra capacità di occupare e rioccupare in continuazione la posizione neutra, o se questa capacità non si è fatta apprezzare nei pochi tentativi in cui l’avete messa alla prova, vi suggerisco di non cimentarvi in un gioco che potrebbe trasformarsi per voi e per qualche altro incauto in un gioco al massacro. In tal caso rimane aperta per voi l’alternativa tra il tentativo di sviluppare detta facoltà sotto la guida di qualcuno che già la possiede in misura adeguata, o lasciar perdere e dedicarvi a giochi più innocui (non il bridge, che riserva molti dispiaceri a chi non riflette abbastanza: meglio la canasta o il rubamazzetto). Siamo rimasti in pochi, dopo l’abbandono di coloro che hanno deciso per la canasta. Ma voi, che state continuando la lettura, dimostrate con la vostra decisione una capacità riflessiva già acquisita o in via di sicuro sviluppo. Grazie a questa potete diventare frequentatori assidui del vertice K del campo che avete creato, o creerete presto, assieme al vostro compagno di gioco e di lavoro. Di lì sarete nella posizione migliore - l’unica, in effetti - per valutare di che cosa ha bisogno la persona che in quel momento è affidata alle vostre cure. Supponiamo che il vostro partner mostri di condividere il vostro interesse per la riflessione, e abbia voglia, come voi, di studiare gli automatismi e le fantasie che condizionano il suo modo di essere: in questo caso lo incoraggerete a parlare della sua esperienza, con particolare attenzione per quella del momento presente, nella relazione con voi. Cercherete di costruire un’alleanza di lavoro, uno spazio paragonabile a un laboratorio scientifico in cui due ricercatori si dedicano con pazienza al compito di decifrare le strutture latenti dell’esperienza e del comportamento. Vi pare un impegno eccessivo per voi che non siete scienziati, ma insegnanti o agenti di commercio? Lo ammetto, non è facile. Ma considerate le alternative: affidarvi alle cure di un professionista, la cui laurea in medicina o in psicologia non vi permette comunque di farvi soverchie illusioni sulla sua scienza, oppure unirvi al gruppo della canasta che ci ha appena lasciato. Entrambe le ipotesi potrebbero essere per voi tanto sgradevoli da indurvi a produrre uno sforzo fuori del comune per creare un piccolo laboratorio domestico dove dedicarvi al compito di rispondere meglio che potete al monito di Apollo. Secondo il mio modesto parere a questo scopo non servono particolari competenze specialistiche, che possono essere anzi più d’intralcio che di aiuto. La comune capacità di riflessione - la sospensione di giudizi e aspettative, di preconcezioni e motivazioni ordinarie - è più che sufficiente, se è esercitata assiduamente in una relazione che fa del rispecchiamento reciproco una sua ragione d’essere essenziale. Ma proprio questo è difficile che accada, dato che in genere le persone si mettono assieme perché si attendono dal sodalizio così istituito la soddisfazione di ogni sorta di bisogni, ma non quello di un aiuto per la conoscenza di sé. Che cosa potrebbe indurvi a rifondare in tal senso il vostro rapporto di coppia, o a fondarne uno nuovo sin dall’inizio consacrato al dio Apollo? In primo luogo una condizione di disagio personale abbastanza forte da obbligarvi a fare qualcosa per alleviarlo. Quindi la riluttanza ad affidarvi a una nuova terapia, dopo le due o tre con terapeuti di scuole diverse che avete già inanellato. Infine la fortuna di avere trovato una persona motivata come voi a un’impresa che qualsiasi persona ben pensante e ben analizzata sconsiglierebbe senza esitare. Sussistono per voi queste tre condizioni? Per le prime due non c’è problema, si potrebbe arruolare un battaglione. La difficoltà sta tutta nella terza, a proposito della quale osservo che non mi sognerei di negare alla fortuna un peso rilevante nelle vicende umane. Mi accontento di aggiungere che quel peso può essere bilanciato almeno in parte dalla determinazione che costringe gli eventi a piegarsi alla vostra volontà. Voglio dire che se veramente volete trovare un terapeuta adatto a voi, è quasi certo che prima o poi lo troverete; se invece preferite un compagno di viaggio, e siete abbastanza ostinati, probabilmente troverete anche quello, o riuscirete a rendere tale la persona che era al vostro fianco sin dall’inizio. Ma se è vero che chi cerca trova, come mai l’evento in questione si realizza così difficilmente? Appunto per questo, perché di solito si cerca tutt’altro. Se però, come mi piace credere, voi siete una felice eccezione a questa regola, avete già trovato o siete in procinto di trovare la persona che vi accompagnerà nel viaggio per il quale vi offro i suggerimenti che seguono. Ciò che ho da dirvi è solo un’esplicitazione di quanto è implicito nella condensatissima formula apollinea: conosci te stesso. A un primo livello, come già sapete, il comando vi esorta a prendere atto della vostra mortalità, cioè a stanare l’illusione di immortalità o di onnipotenza su cui si impiantano e si reggono le più caduche delle vostre costruzioni mentali. Se queste sono già abbastanza ammaccate e vacillanti per i ripetuti colpi ricevuti dalla dura realtà, forse è giunto per voi il momento di cambiare strategia: invece di investire il meglio delle vostre risorse nell’impegno di puntellare e rinforzare un edificio sempre più traballante, potete decidere di lasciarlo al suo destino, e anzi di accelerarne la fine. Chiederete in questo caso a colui o colei che vi assiste di aiutarvi a vedere la parte illusoria o immatura o disadattiva di cui avete deciso di sbarazzarvi. Cosa che egli o ella farà così facilmente che ne sarete sorpresi, perché il peggio di voi è tanto ben nascosto ai vostri occhi, quanto solarmente evidente a quelli di chi vi sta vicino. Se poi vorrete rendere ancora più facile il compito del vostro partner, gli fornirete un piccolo elenco di istruzioni. Gli direte di porre attenzione a tutto quanto in ciò che dite e fate ha una qualità reattiva. E prima di tutto gli spiegherete la differenza tra risposta e reazione, che è molto semplice: si risponde a una contraddizione che si vede e si accetta, si reagisce in caso contrario. Esempio classico: la volpe reagisce affermando che l’uva è acerba, mentre risponderebbe correttamente alla contrarietà se, dopo aver onestamente manifestato il suo disappunto, si disponesse a contrattare con il contadino il prezzo del grappolo, eventualmente ripiegando su mele o fichi ove questo fosse troppo alto per le sue tasche. La mente funziona nel modo reattivo quando la contraddizione è dichiarata inesistente oppure, se la sua esistenza è troppo evidente per poter essere negata, inammissibile: se l’evento sgradito non può essere completamente rimosso dalla coscienza, per lo meno ne è contestata la liceità. Diremo allora: è inconcepibile che io sia trattato in questo modo, è intollerabile che il mio diritto non sia riconosciuto, è vergognoso che alla mia (alla tua) età io (tu) faccia ancora di questi sbagli; e via ammantandoci di onta e di sdegno. Per cominciare punterete dunque l’attenzione sulle aree reattive del vostro comportamento (e, a turno, di quello del vostro partner; vi raccomando di non farlo in contemporanea, altrimenti finisce in bega): negazioni, razionalizzazioni, pretese, vittimismi, moralismi, sentimenti di insofferenza, rabbia, colpa o vergogna esagerati o fuori luogo. Quindi cercherete di mettere a fuoco la contraddizione cui reagite in quel modo. Troverete di regola qualcosa del tipo: non ho (non sono) qualcosa che voglio, oppure ho (sono) qualcosa che non voglio; in generale, le cose (interne o esterne a me) non sono come dovrebbero essere. La riflessione ci induce a essere sospettosi. Dubitiamo di tutto, anche della stessa volontà di riflettere. Prendete il caso dell’uomo che viene da me e mi chiede di aiutarlo a sbrogliare la matassa del rapporto con la moglie. Va bene, gli dico, me ne parli. Lui si lancia in un racconto ricco e dettagliato, ma quando è il mio turno di dirgli quello che mi pare di aver capito sembra che gli faccia un dispetto. Mi ignora e riparte con la sua storia. E’ chiaro che non vuole o non può riflettere sul suo materiale. Abbandono allora il vertice K e mi trasferisco nell’angolo paterno, dal quale cerco di metterlo di fronte alla sua contraddizione: mi chiede un parere, ma poi non mi ascolta. Più che irritato, ora sembra addirittura affranto. Vede in me un altro padre tirannico, del tutto identico a quello che lo ha tormentato per anni: come lui ho sempre ragione e non gli lascio scampo. Il confronto è impossibile; per non esserne schiacciato non gli resta che evitarlo, scivolando via e rendendosi imprendibile. E’ vero che sono stato un po’ incalzante, perché avevo ritenuto che il suo bisogno fosse precisamente quello di essere confrontato con la sua guizzante elusività. Ma la mia ipotesi, benché errata, è servita a mettere in scena un dramma molto sentito. Non serve ora fargli notare che non ho la minima intenzione di imporgli le mie idee, che gli chiedo solo di ascoltare per confrontarle con le sue. E’ troppo forte la sua urgenza di esprimere la rabbia e il dolore per come si è sempre sentito dominato e oppresso dal padre, dalla moglie e ora anche da me. In questo momento non è in grado di riflettere e nemmeno di confrontarsi con le sue contraddizioni: è come un bambino terrorizzato che ha bisogno solo di essere accolto e rassicurato. Prendo di conseguenza una posizione materna come avreste di sicuro fatto anche voi al mio posto, e come avete imparato o state imparando a fare con il vostro partner in circostanze analoghe, di frequentissima occorrenza, come ben sapete, nella vita quotidiana. Se ci sono dei problemi la cosa più logica da fare è riflettere, tra persone adulte. Ma quando la riflessione è impossibile per l’evidente interferenza di fattori emotivi, come spessissimo accade tra le mura domestiche o nella vita pubblica - ad esempio in un dibattito televisivo tra uomini politici - conviene rivolgersi al bambino che sta facendo valere i suoi diritti all’insaputa dell’adulto che lo ospita, e dargli la risposta genitoriale che in quel momento gli è necessaria. Inutile dire, carissimi, che noi abbiamo un grande vantaggio rispetto agli uomini politici. Loro non possono permettersi di perdere la faccia, ma noi sì, perché l’investimento sulla nostra immagine, per quanto notevole, non è altrettanto vitale. Forti di questo vantaggio, procediamo nella nostra riflessione per chiarirne le possibilità e i limiti. Per capire, cioè, quando è il caso di riflettere e quando è meglio ritornare in un’area di cure genitoriali; o piuttosto spingerci in uno spazio ulteriore che un filosofo ha arditamente chiamato postriflessivo. XII . Se il grano non muore Ancora una volta sento salire la vostra protesta. Impegnati nel severo esercizio della riflessione, cercate di riconoscere e neutralizzare tutto ciò che annebbia la vostra vista. Ma io, invece di incoraggiarvi e sostenervi in codesto difficile compito, già vi spingo oltre. Non vi inquietate, miei cari. Se vi invito a guardare più in là non è per aggravare il vostro lavoro, ma per alleggerirlo. State imparando a prendere le distanze, mettere tra parentesi, sospendere il giudizio. E’ uno sforzo meritorio, oltre che obbligato, dato che avete deciso di emergere una buona volta dall’immaginario per installarvi nel mondo reale. Avete rinunciato ai sogni grandiosi e all’oscillazione permanente tra emozioni anacronistiche di rabbia e di vergogna che ne era il sottoprodotto e avete accettato la vostra finitezza: benissimo, era ora. Ma non vorrete pensare di essere giunti alla meta, solo perché siete diventati adulti. Ora sapete distaccarvi dalle passioni e osservare le cose con pacatez-za e senza pregiudizi. O quasi; in ogni modo avete preso questa direzione, forse definitivamente. Eppure non siete troppo soddisfatti. Alla vostra vita, divenuta così sobria e ragionevole, manca qualcosa; vi chiedete se sia possibile appassionarsi a un’esistenza senza passioni. Anzi no, a pensarci meglio non se ne parla nemmeno. Se tutto quello che ho da offrirvi, al termine di tanto lavoro, è una vita misurata e dignitosa ma senza entusiasmi e senza sugo, no grazie, vi tenete le vostre passioni, e se sono nevrotiche pazienza. Come vi dicevo: se la riflessione non è un momento del percorso ma il suo punto d’arrivo, tutto il gioco non vale la candela. Ci serve, di conseguenza, una visione d’insieme di tutto il processo. La distanza che avete preso dalle cose significa che voi siete qui e le cose sono là. Una situazione resa ancora più spiacevole dal fatto che può essere mantenuta solo al prezzo di uno sforzo costante. Non la sopporterete a lungo se non sarete sorretti almeno dalla speranza di un ricongiungimento. E su che cosa può reggersi questa speranza per chi, come voi e come me, non si lascia consolare dal lieto annuncio di città terrene o celesti in cui le colpe saranno redente e i torti raddrizzati? Accettate la tensione, se questa significa che state lottando per liberarvi. Ma quando potrete rilassarvi? Non illudetevi di poterlo fare rinunciando a combattere: non fareste che ritrovarvi al punto di partenza, che già non era granché, come certamente ricordate, e che adesso sarebbe ancora meno, perché non potreste più contare sui sogni nel frattempo infranti. Potreste rimpiangere di esservi mai messi in cammino, visto che una volta in viaggio è difficile tornare indietro. Non resta che andare avanti, ma verso quale meta? Per quanto ne so, ce n’è una sola: quella cui conduce la logica interna del processo che abbiamo messo in moto. Quella che già gli sciamani conoscevano bene, e il pensatore inattuale ha cercato invano di riportare in auge: il vecchio uomo deve tramontare perché quello nuovo possa venire al mondo. Naturalmente il vecchio uomo - il vostro e il mio - non ne vuole sapere di togliersi di mezzo, ed è giusto che sia così. Ha imparato a sopravvivere in questa giungla, dove si è conquistato un suo piccolo spazio e si sente qualcuno. Perché mai dovrebbe sparire? Dal suo punto di vista è incomprensibile. Dovremo cercare di persuaderlo, perché senza la sua collaborazione non potremo fare molto. Ci complimenteremo con lui per il buon successo dei suoi sforzi. Si è guadagnato una posizione solida e vantaggiosa, e se si accontenta va bene così. Ma come può essere contento, se la sua preoccupazione costante è di mantenere il controllo? E come potrà lasciarsi andare, se la sua stessa ragione di esistere è il dominio dell’esperienza, dalla quale non ammetterà mai di essere sopraffatto? Il paradosso ben noto dalla notte dei tempi - si vis vitam para mortem - suona, in una versione un po’ meno allarmante: per rafforzarsi è necessario indebolirsi, ritrovare quella vulnerabilità e quell’impotenza un tempo negate perché troppo dolorose o umilianti. La vostra protesta non si placa. E’ questo l’alleggerimento che vi avevo promesso? Da questa prospettiva di mortificazione e umiliazione dovreste sentirvi incoraggiati? Vi rendete conto, certamente, che la vostra ribellione è la roccia basilare, la madre di tutte le resistenze. Ma se non ci è riuscito Freud con il lavoro di una vita, con i suoi preziosi strumenti analitici, il suo genio e il suo carisma, a indurre i suoi pazienti alla resa, e alla fine ha dovuto arrendersi lui, come penso di farcela io, da una posizione tanto più debole? Tutto sommato, un piccolo vantaggio sul padre della psicoanalisi penso di averlo. Ho la fede: non quella dei credenti, come ormai vi è ben chiaro; ma quella degli sciamani, dei mistici come Eckart, dei filosofi come Jaspers, degli analisti come Bion. Da questa dichiarazione mi deriva l’obbligo di chiarire: primo, quale posto e senso può avere la fede nell’esperienza di un non credente; secondo, perché penso che in essa si possa trovare quella forza che invano ci aspetteremmo dalla sola riflessione (o dalla sola analisi). Sul primo punto, dirò che la parola fede, per un laico, sta a indicare l’intuizione che l’esistenza è affidabile. Cosa che non equivale all’idea di vivere in un mondo su cui veglia un Ente provvidenziale; in cui si può tutt’al più credere, dal momento che non è affatto evidente. Se mai è evidente il contrario: si direbbe che la Grande dea sia alquanto indifferente alla sorte delle creature che incessantemente genera e getta nel mondo. La visione tragica dei Greci è più vicina all’esperienza - alla mia, quanto meno - delle visioni che si ispirano alle religioni monoteiste. Eppure un pagano, quale io sono, è fedele alla terra, a differenza di chi si sente destinato a una dimora ultraterrena. Ciò significa che la vita su questa terra è da lui ritenuta buona, anche se crudele. Ma come può essere buona la vita di un essere che si sente gettato nel mondo e abbandonato al suo destino? Certo non può esserlo dal punto di vista del soggetto interamente preso dalla cura (del corpo, della mente, dell’immagine, degli oggetti, dei legami): lo sforzo di sottrarre queste cose precarie e deperibili alla fine cui sono destinate consegna inesorabilmente all’angoscia chi in esso confida per salvarsi. La vita sulla terra può essere buona solo per chi, pur prendendosi cura del suo mondo, non se ne cura troppo, ma in essa vede o almeno intravede un senso ulteriore: quello che si dischiude con il sacro sì alla vita - con il sacrificio del no, dell’opposizione in nome di tutto ciò che ha importanza sul piano dell’esistenza ordinaria. Il superamento di quel piano è l’obiettivo del filosofo. Chi lo ha raggiunto è il saggio: cioè non siete voi, perché se lo foste non perdereste tempo a leggere queste cose che sarebbero per voi ovvie e scontate, e non sono io, perché se lo fossi non farei tutta la fatica che invece faccio per avanzare a tentoni verso una meta che, anche se non è raggiunta, per il solo fatto di esistere rende buono il cammino. Ma siamo sicuri che questa meta esiste?, obiettate prontamente voi. Come faccio a dirlo se non l’ho raggiunta? Questo non dimostra che sono anch’io un credente, a dispetto di tutti i miei dinieghi? Non credo che il filosofo possa essere scambiato per un credente, solo perché crede nella sofia. Non lasciamoci confondere dalle parole: il filosofo crede nella sapienza perché la respira, non perché qualcuno gli ha detto che esiste. Questo può dirlo anche chi, come me, non la respira a pieni polmoni, ma boccheggia come un asmatico. E tuttavia è sufficiente quel filo d’aria che riesce a filtrare dai bronchioli congesti a vivificare la corrente sanguigna e a persuaderlo a lottare, pur ansimante, per averne di più. Ormai sapete che a una cosa io sono basilarmente fedele: l’esperienza. La mia, voglio dire; quella altrui l’ascolto, la tengo in considerazione, eventualmente la utilizzo, ma non ci conto per decidere dove devo andare. Sarei dunque sommamente incoerente se vi invitassi a confidare nella mia esperienza: al contrario, posso e voglio solo esortarvi a farvi la vostra. In particolare ora vi incoraggio a scoprire da voi stessi che questa vita è degna della vostra fiducia. Non perché essa si prenda cura di voi e dei vostri bisogni. A volte vi sembra che lo faccia, altre volte vi lascia nella più nera indigenza e favorisce chi sicuramente non lo merita. Se poi vi pare che il destino sia tutto sommato benevolo con voi, sarà il caso di ringraziare la misericordia del vostro dio o piuttosto la circostanza che non siete nati nel Burundi, ma in un ricco paese dell’Occidente? Collegate la fede nella vita alla soddisfazione di desideri e bisogni se pensate che essa debba comportarsi verso di voi come una buona mamma o un buon padre. Dalla constatazione che le cose su questa terra non vanno così, discende per lo più una chiusura rancorosa per l’ingiustizia patita, e/o il trasferimento in sede ultraterrena del luogo dove le cose saranno messe a posto. Ma voi, miei cari, sapete già come uscire da questo dilemma, esito quasi obbligato del pensiero infantile: non avete che da riconoscere e abbandonare le idee irrealistiche che questo produce e alimenta. Il problema, ora, è quello già posto in precedenza: come non gettare il bambino assieme all’acqua del bagno con cui lo abbiamo ripulito dalle sue illusioni. Come smascherare le favole senza approdare a uno sterile disincanto, come demistificare le costruzioni del pensiero onnipotente senza eliminare il senso del mistero di cui non può fare a meno chi non vuole cadere in un’altra forma di onnipotenza, la presunzione scientistica. Come sentirsi avvolti e accolti da questo mistero - l’Umgreifende, l’abbracciante, lo ha chiamato Jaspers - che stritola ogni certezza profana - mysterium tremendum - ma rianima e trasforma. Che dire di questo mistero? Ne siamo circondati, compenetrati, assediati. Che sia minaccioso lo sappiamo tutti. Ma che sia anche affidabile, come possiamo saperlo? In generale, come si stabilisce la fiducia? Un paziente mi chiede qualcosa sulla mia formazione. “Perché vuole saperlo?”, gli chiedo a mia volta. “Perché vorrei capire se posso fidarmi di lei”, mi risponde. “L’Ordine dei medici mi ha ritenuto degno di figurare nell’elenco degli psicoterapeuti”, gli dico; “vuole esaminarmi anche lei?” “Non credo che sarei in grado”, ammette; “ma in qualche modo dovrò capire se lei è un professionista affidabile”. “Giustissimo”, dico io; “ma non in questo modo”. “E in quale, allora?”, si informa lui. “Come fa a capire se può fidarsi del suo fruttivendolo, del suo meccanico o del suo dentista? Li mette alla prova, no? E così lei deve fare con me”. “Non è così semplice”, obietta giustamente lui. “So che cosa mi posso mediamente aspettare dalle figure da lei citate, ma che cosa può fare lei per liberarmi dai miei sintomi e farmi star bene? Voi terapeuti siete divisi in tante scuole; se non siete d’accordo nemmeno voi su quale sia il metodo migliore, come posso saperlo io?” “Infatti, non è di questo che deve preoccuparsi”. “E di che cosa, dunque?” “Prima di tutto le consiglio di porre attenzione a questo: se il suo terapeuta le sembra più interessato a lei, o alle sue proprie tecniche e teorie; in secondo luogo, se non solo prova a rispondere ai suoi bisogni, ma prima ancora l’aiuta a capire quali sono, senza dare per scontato di saperlo sin dall’inizio, né che lo sappia lei. Last but not least, che non pretenda di saperla guarire”. “Come sarebbe”, chiede il paziente confuso. “Se non lo sa lui, chi deve saperlo?” “Lo sa Dio, potrebbe risponderle Freud, che amava citare il motto di un celebre chirurgo: Je le pansai, Dieu le guérit. Intendeva dire: il terapeuta non deve cercare di guarire il paziente, perché la cosa non è affatto nelle sue mani. Deve soltanto cercare di attivare e favorire un processo di guarigione, che ha una sua propria logica”. “Ma il terapeuta lo sa, qual è questa logica?” “Se pretende di saperlo, si mette al posto di Dio”. “E Freud?”. “Era un uomo grande e contraddittorio: quello che raccomandava ai terapeuti di non fare, lo ha fatto lui. Ha preteso di sapere che ogni paziente, per guarire, deve rimettere in scena la propria infanzia nella relazione con l’analista, con particolare riferimento al conflitto edipico, che dovrà essere rivissuto e risolto”. “E non è così?” “A volte sì, altre volte no”. “Insomma lei vuol dire”, conclude il paziente, “che io posso fidarmi di lei solo se lei per primo si fida di un processo che nessuno di noi due controlla”. “Precisamente. Infatti, se io pretendessi di avere la chiave di questo processo, dovrei chiederle di affidarsi e lasciarsi guidare da me. Della qual cosa lei potrebbe anche essere felicissimo, perché le toglierebbe ogni responsabilità. Ma una parte di lei inevitabilmente si rivolterebbe, manifestandosi come protesta virile o invidia del pene, a seconda del suo sesso, o in cento altri modi. Su questa resistenza iatrogena si è incagliata la terapia freudiana, come ogni altra che muova da premesse analoghe”. La guarigione, a qualsiasi livello e comunque sia intesa, sarebbe impensabile se non esistesse una vis medicatrix naturae, una tendenza naturale di ogni organismo a riparare le ferite e a procurarsi i fattori di crescita di cui ha bisogno. E poiché lo sviluppo non è un percorso lineare, ma comporta diversi passaggi da uno stadio a un altro, in cui le condizioni del precedente debbono essere abbandonate per transitare al successivo, ne consegue che il processo generativo e risanativo richiede il distacco sistematico da tutto ciò che ostacola il suo corso. Maestro Eckart esprimeva questa legge generale con la nota formula: il padre genera il figlio in ogni uomo che in ogni tempo pratichi il distacco. Essendo Eckart un monaco, la formula non poteva piacere al suo vescovo il quale, dovendo difendere la tesi che il Padre ha generato il Figlio una sola volta nella storia e in un solo uomo, non poté esimersi dal mandarlo sotto processo per eresia. I mistici non hanno mai avuto vita facile nelle Chiese, ma sono certo che questo non è un vostro problema. Se, come credo, non temete le reprimende ecclesiastiche, potete utilizzare liberamente l’algoritmo eckartiano nel senso in cui era inteso dal suo autore: come una legge rigorosa e indefettibile. La potenza generativa (il padre) non può non rigenerare l’uomo che ad essa si affida (il figlio). La vismedicatrix naturae non può non risanare, se togliamo di mezzo gli ostacoli alla sua azione. Il processo terapeutico non può non seguire il suo corso, se sono riconosciute ed eliminate le resistenze con cui ad esso ci si oppone. La crescita non può non avvenire, se lasciamo la presa su tutte le cose alle quali per paura di perderle siamo aggrappati. La vita non può non mettere qualcosa nelle mani di chi invece di stringerle convulsamente le apre. Provare per credere, ma con due avvertenze. Prima, il distacco che apre lo spazio per l’azione della vis generatrix presuppone un lavoro precedente di riflessione e di analisi, dato che gli attaccamenti in questione sono per lo più energicamente difesi, cioè giustificati e razionalizzati o camuffati o semplicemente negati e rimossi. Seconda, attenzione alle aspettative che il processo generativo può alimentare. Non c’è modo di sapere che cosa, come e quando accadrà - se no, che mistero sarebbe? L’aspettativa, che si riferisce a qualcosa di determinato, non può che agire come una nuova resistenza (in termini bioniani: lo spazio dell’ascolto viene saturato invece di restare aperto), e quindi va riconosciuta, disattivata e sostituita con quell’atteggiamento del tutto differente che è l’attesa. L’aspettativa è di fatto una pretesa (ciò che mi aspetto deve accadere, perché me lo merito, perché è logico, perché per questo ho rinunciato a quello, perché non posso farne a meno; se non accade mi inquieto, mi offendo, mi arrabbio o mi dispero). L’attesa, al contrario, è apertura che non pone condizioni sul cosa, come e quando. Qual è allora l’oggetto di questa attesa? Perché qualcosa, comunque, si attende. Si attende qualcosa che si è conosciuto, si cerca qualcosa che si è perduto. Il tempo perduto, di cui tutti abbiamo memoria, anche se non tutti sappiamo di averla. La memoria è l’antecedente necessario dell’attesa, un ricordo che è propriamente un ricordo, una faccenda di cuore, non di mente. Il sentimento di chi eravamo prima di venire al, o essere gettati nel, mondo. La memoria dell’origine, del tempo senza tempo, prima dell’inizio del tempo storico, ci guida al suo ritrovamento. E come la memoria - questa memoria - non ci rimanda a un momento del passato, ma a un tempo che è fuori del tempo, ugualmente l’attesa non ci proietta in un momento ipotetico del futuro, in questa vita o un’altra, ma ci radica ancora di più nel presente, unico luogo dove ci sentiamo nelle vicinanze dell’origine. L’intensificazione della presenza, in questa memoria e questa attesa, riattiva un contatto con la dimensione originaria che, per quanto parziale e fugace, è la base di ogni atto originale, cioè generativo, creativo o risanativo. Vi sembra un discorso troppo filosofico per un manualetto fai-da-te senza troppe pretese come questo? Non posso farci niente, sono obbligato dal tema che devo trattare. Oltre l’angoscia nevrotica - che si cura scoprendone la radice immaginaria e favorendo l’adattamento alla realtà - c’è l’angoscia esistenziale, che ci attanaglia per il solo fatto di esistere in questo mondo, esposti alla precarietà di tutto ciò in cui confidiamo. Un filosofo tedesco, molto influente tra i suoi colleghi continentali, ha creduto di superare l’intera storia della metafisica occidentale, che ha privilegiato la dimensione del presente, indicando in alternativa il futuro, in cui si collocano i progetti che danno senso alla vita dell’uomo. Ma essendo l’unica cosa certa, nel futuro di tutti noi, la morte, ci troviamo di fronte a questa scelta: o cerchiamo di eliminarla dal nostro orizzonte, banalizzandola o rimuovendola - ma questo ha un prezzo: la vita perde la sua autenticità - o al contrario l’accogliamo, anzi l’anticipiamo nella consapevolezza - ma così ci esponiamo all’angoscia della vanificazione di ogni progetto. Il tema non è nuovo. Era già stato affrontato da un pensatore danese, che però, in modo più conseguente, aveva portato il discorso fino in fondo: il sentimento dell’angoscia ci segnala la caducità di tutte le cose con le quali crediamo di rassicurarci, e ci obbliga pertanto a indagare se non ci sia proprio nulla che si sottrae a questa distruzione. In effetti è la riproposizione in chiave esistenziale del monito di Apollo, a voi ormai ben noto. Il tedesco, invece, s’era fermato all’angoscia. A liberarsene non ci pensava affatto, perché per lui, come per tanti altri, l’angoscia era ed è un sentimento nobile, segno di verità e autenticità, contrapposto alla ricerca di facili consolazioni di chi non si è ancora emancipato dalle illusioni metafisiche. Nel corso degli anni ho incontrato molti disperati realmente inguaribili, in quanto assolutamente indisposti a barattare la loro angoscia, che li fa sentire tutto sommato bene perché in possesso di una verità superiore, con un processo terapeutico che li riporterebbe al livello di una banale normalità. Ma voi, carissimi, a differenza di tanti intellettuali che si crogiolano nell’angoscia pronti a bollare come consolatoria qualsiasi ricerca di liberazione personale, mi avete seguito fin qui perché avrete pure i vostri difetti, ma almeno da questa perversione siete immuni. Di conseguenza potete anche fare a meno di leggere Essere e tempo, se non ne avete voglia, ma in compenso dovete fare un piccolo sforzo per seguirmi (ancora per poco) in queste riflessioni. XIII . Un gallo ad Asclepio Adesso siete più tranquilli. Sapete che la riflessione non è il punto d’arrivo del nostro viaggio, ma solo un suo momento. Io non ho l’ambizione, e voi non correte il pericolo, di trasformarvi in pensatori. La prospettiva di diventare persone originali, cioè creative e generative, è ben più interessante per voi, come lo è per me; di conseguenza è meno pesante lo sforzo che pure è necessario fare per diventare in primo luogo persone riflessive. Il fatto è, miei cari, che se volete essere originali prima di avere imparato a riflettere rischiate di diventarlo davvero, ma nel senso in cui lo si dice di chi sfida le convenzioni e le regole stabilite per partito preso o per noncuranza. Poiché la nostra frequentazione fino a questo momento mi permette di escludere una vostra inclinazione alla bizzarria e all’eccentricità, do per assodato il vostro interesse per le considerazioni che seguono. Per cominciare, ricolleghiamoci al nostro tema generale con la domanda: esiste un legame tra la paura e la riflessione? Altroché, rispondiamo subito, e strettissimo, come è facile vedere: molto spesso, o quasi sempre, chi non riflette è una persona spaventata. Tanto è vero che, se questo accade a vostra moglie o vostro marito, sapete per esperienza che non serve a nulla arrabbiarsi: lei o lui s’impaurirà ancora di più e rifletterà ancora di meno. Avete imparato che in molti casi la cosa migliore da fare è prendersi cura del bambino spaventato che in quel momento ha preso il sopravvento, con dolcezza materna, con fermezza paterna o con una giusta combinazione delle due. A meno che non siate spaventati anche voi, e allora sarà meglio che andiate a fare un giro e non facciate nulla. Se poi la cosa si prolunga e nessuno dei due riesce a calmarsi quanto basta per aiutare l’altro, vi consiglio di parlarne col vostro terapeuta, e se non l’avete di cercarvene uno. Lo dico giusto per ricordarvi che esiste anche questa possibilità, ma sono sicuro che ne approfitterete solo se proprio non potrete farne a meno. Dopo aver sondato la situazione con un messaggio materno, tipo “non preoccuparti, va tutto bene; se qualcosa ti turba ne possiamo parlare”; o paterno, come “capisco che questa cosa ti spaventa, ma sarà meglio affrontarla che subirla”, e avere ottenuto tutto ciò che su questi piani potevate ottenere, siete pronti per iniziare l’avventura della riflessione. La seconda topica di Freud - io, es, superio - è uno schema abbastanza utile per un primo orientamento. Serve a cogliere con un colpo d’occhio il fatto che l’io non è padrone a casa propria, ma deve confrontarsi con due gruppi di coinquilini - gli istinti e gli ideali - che, per come lo trattano, si direbbe siano loro i veri padroni. L’attività principale dell’io sembra essere quella di mediare tra le esigenze contraddittorie che sono avanzate dai suoi vicini e quelle che altrettanto imperiosamente sono fatte valere dal mondo esterno. Si capisce che il povero io, dovendo accontentare ben tre padronati diversi, cerca di cavarsela come può, ma difficilmente riesce a andare oltre qualche compromesso raffazzonato e precario. Dovete ammettere, se vi guardate attorno e dentro, che questa descrizione dell’io-servitore di tre padroni è abbastanza realistica. Noi siamo in generale tanto poco liberi che si può dire, senza sbagliare di molto, che non lo siamo affatto. Peraltro, non potendosi negare la differenza tra un uomo pienamente abbrutito (o perfettamente adattato alle norme del gruppo) e soddisfatto di esserlo, e un altro che lotta per elevarsi e ha raggiunto almeno una relativa autonomia dagli istinti e dalle convenzioni sociali, è corretto descrivere due modi di funzionamento dell’io: uno condizionato, cioè asservito ai suoi vari padroni, e uno libero, cui lo stesso Freud si riferiva con il suggerimento, che vi ho già ricordato, di procedere senza intenzione alcuna, con la mente sgombra e senza preconcetti. Egli poteva raccomandare agli analisti un atteggiamento di neutralità perché sapeva di poter contare sulla capacità, latente in ogni essere umano, di neutralizzare ogni intenzione, aspettativa o pregiudizio. Questa capacità di neutralizzare, sospendere, mettere tra parentesi, è la facoltà riflessiva che ora vogliamo attivare e portare a un funzionamento ottimale. Tra i due modi di funzionamento dell’io è sempre possibile un passaggio dal primo al secondo e viceversa: Fig. 3. I due modi dell’io L’asservimento consiste nel fatto che l’io si lascia sedurre o intimidire dalla promessa di gratificazioni o dalla minaccia di punizioni. L’io in tal modo condizionato mette tutta la sua capacità di pensiero al servizio della ricerca di un piacere o dell’evitamento di un dispiacere. Tenterà di operare delle mediazioni tra esigenze conflittuali di diversa provenienza in modo da ottenere comunque il massimo piacere o il minimo dispiacere. (Questo è l’io della metapsicologia freudiana) La neutralizzazione consiste nel fatto che l’io non si lascia sedurre né intimidire. La capacità di tollerare l’angoscia è decisiva in entrambi i casi: l’io è libero in quanto non si fa condizionare dalla paura della sofferenza che conseguirà a privazioni o punizioni. Ciò non implica che l’io non avverta la paura, ma solo che non se ne lascia dominare. (Questo è l’io della terapia freudiana). Il fatto che Freud ci abbia presentato due volti opposti dell’io, uno nella terapia e l’altro nella metapsicologia, significa che egli era in parte libero e in parte no, come tutti noi. Il fatto poi che non sia riuscito ad articolare il rapporto tra i due può essere fonte di disappunto solo se pretendiamo troppo da quel grande: ma noi non cadremo in questa trappola, che mostrerebbe solo il nostro asservimento a istanze di perfezionismo. Esaminiamo più da vicino il processo della neutralizzazione. L’io avverte delle pressioni imperiose a muoversi in conformità a certi princìpi o in vista di determinati obiettivi. Per non farsene condizionare non dice né sì né no, ma prende le distanze per capire meglio. Le pressioni provengono da certe parti della personalità o del mondo esterno, sono dunque parziali e settoriali. L’io che riflette cerca invece di farsi una visione d’insieme di tutte le parti in causa, per formarsi un’opinione quanto più è possibile, anche se mai perfettamente, imparziale e globale. Questo è l’obiettivo dell’io libero: la conoscenza giusta e l’azione retta, a differenza dell’io condizionato, che cerca solo il massimo piacere o il minimo dispiacere. Nella metapsicologia freudiana non c’è spazio per la libertà dell’io, ma bisogna riconoscere che questo è coerente con il suo intento, che è per l’appunto quello di essere una psicologia, cioè una scienza della psiche o dell’anima. L’anima è il principio che informa tutti gli esseri animati, cioè gli animali e l’uomo. In quanto essere animato, animale parlante solo un po’ più complesso degli altri, l’uomo naturalmente non è libero. L’essere provvisto di anima è dotato di un dispositivo sensoriale e di un apparato di locomozione. L’anima è il luogo in cui si raccolgono le rappresentazioni, corredate di affetti piacevoli e spiacevoli, che questo essere si fa di sé e del mondo e si elaborano strategie di soddisfacimento di bisogni e desideri, di sopravvivenza e di riproduzione. Non c’è altro nell’anima. Il cervello umano si differenzia da quello di tutti gli altri animali per il notevole sviluppo dei lobi frontali. I neuropsicologi hanno confermato quello che è già intuitivamente ovvio dal confronto tra il volto umano e il muso degli altri primati: nei lobi frontali si trova la base neurale della facoltà di pensiero umano. In che cosa consista questo pensiero si può dire solo in parte da un punto di vista psicologico, perché per un’altra la sua caratteristica è precisamente quella di superarlo. Di questa si può parlare solo da un punto di vista filosofico. L’amore per la sapienza - la ricerca di ciò che è vero e giusto, non di ciò che è utile per il conseguimento di determinati scopi o per salvarsi l’anima - non è una caratteristica degli esseri animati, ma solo degli esseri spirituali, categoria della quale l’uomo è l’unico esponente noto e alla quale appartiene di diritto, pur essendo assai restio a rivendicare tale appartenenza. La scoperta che l’uomo è un soggetto capace di intendere e di volere - una formula che esprime l’essenza dello spirito occidentale - si deve nella nostra cultura a Socrate, il primo uomo che ha saputo di non sapere. Tutti gli esseri animati sanno, solo l’essere spirituale sa di non sapere - cioè neutralizza tutte le pretese di sapere che provengono dalla sua anima e da quelle di chi gli sta intorno. Questa sospensione gli permette di intendere, cioè di avvicinarsi a una comprensione imparziale e globale delle cose, superando l’ignoranza dei saperi particolari legati a interessi e punti di vista specifici; e di volere, cioè di esercitare una volontà fondata su una libera valutazione della situazione presente, non condizionata da valori codificati e canonizzati. Tutto ciò dà sui nervi all’uomo psichico, che ribatte: “E’ solo un segno di arroganza intellettuale credere che l’individuo possa elevarsi al di sopra delle condizioni della sua esistenza e dei valori della sua cultura. L’uomo non è una tabularasa, ma percepisce e sente solo ciò che è biologicamente e culturalmente predisposto a percepire e sentire. Noi non possiamo fare di meglio che cercare di riconoscere e soddisfare i nostri bisogni, mediando con i bisogni altrui e rispettando i valori della società, opportunamente introiettati nel nostro superio”. L’uomo della riflessione risponde chiedendo: “Visto che non sei in grado di metterti al di sopra delle parti, su che cosa si basano le tue mediazioni, se non su rapporti di forza? E che valore hanno i tuoi valori, se non sei capace di valutare autonomamente? Chi lo ha fatto per te aveva questa capacità? Come fai a saperlo, se per valutare chi ti fornisce i valori devi usare i valori del tuo fornitore?”. Ribatte ancora l’uomo dell’anima: “Dove ti portano tutte le tue domande? I filosofi sanno solo seminare dubbi, non hanno mai prodotto una sola conoscenza universalmente valida. Se sappiamo qualcosa lo dobbiamo alle rivelazioni dei profeti e al paziente lavoro degli scienziati, non alle speculazioni dei filosofi”. Risponde l’uomo dello spirito (cui do l’ultima parola): “E’ vero che la filosofia non ha mai prodotto alcuna conoscenza certa, ma questo è precisamente il suo merito. Chi riflette, proprio perché riflette e a differenza di chi non riflette, sa di non sapere nulla di certo. Come potrei mai sapere di avere riflettuto abbastanza? Ho neutralizzato alcuni condizionamenti, ma come posso pensare di averlo fatto con tutti? La riflessione non mi dà la verità, però mi mette nella sua direzione. Non sarà molto, ma a me basta”. Vi esorto dunque, carissimi, a usare la parte migliore dei vostri lobi frontali per liberarvi dalla paura ingiustificata che ancora vi trattiene a un livello psichico di esistenza. Come faccio a sapere che è ingiustificata? Immagino che lo sia, perché se non lo fosse avreste già chiuso questo libro da un pezzo per proteggere le modeste certezze su cui si regge il vostro fragile equilibrio mentale. Dal fatto che avete invece continuato la lettura deduco che il vostro equilibrio non è poi così fragile, e potete quindi avventurarvi nei territori inesplorati della riflessione senza rischiare un tracollo psicotico. Coraggio, dunque, osate mettere in dubbio i capisaldi della vostra concezione del mondo: a) siete sfortunati; b) non avete trovato la donna giusta; c) non riuscirete mai a fare il lavoro che vi piace; d) non potete mettervi in proprio perché rischiereste di non riuscire a pagare i contributi per la pensione, e non ci dormireste la notte; e) non siete capaci di farvi amare (o di amare); f) la verità di quanto precede, e di molte altre analoghe opinioni, è provata da inconfutabili dati di fatto. Quale che sia il contenuto delle vostre convinzioni, che esso derivi dall’esperienza o dal ragionamento o vi sia stato rivelato da fonti umane o divine assolutamente degne di fede, se avete scelto di farne l’indiscutibile verità su cui si sostiene l’edificio ideologico al riparo del quale trascorre bene o male la vostra vita, la vostra scelta vi pone al livello psichico dell’esistenza. Nel momento in cui i vostri piedi non poggiano più su quella solida roccia, vi sentite seriamente in pericolo. Per esempio, a) se non è vero che siete sfortunati, vuol dire che è venuto il momento, a lungo rimandato, di assumervi le vostre responsabilità; b) se non è vero che non avete trovato la donna giusta, ne potete dedurre che è ora di darvi da fare per far funzionare il rapporto con quella che avete; c) se non è vero che non riuscirete mai a fare il lavoro che vi piace, potreste scoprire che qualche possibilità invece esiste, purché siate disposti a rinunciare a uno stipendio garantito a fine mese, alle vacanze pagate e alla TV tutte le sere (“ma io tengo famiglia”, protesta qualcuno; e con questo? Freud aveva sei figli e cognata-amante a carico nel momento in cui la professione privata gli si stava liquefacendo, ma non ci pensò nemmeno di abbandonare l’attività che lo appassionava per cercare un’entrata sicura e nessuno morì di fame); d) se non è vero che non riuscirete a dormire perché la vostra pensione è a rischio, potreste trovarvi a considerare che all’investimento sul futuro esiste l’alternativa del vivere il presente, che peraltro vi dà le vertigini; e) se non è vero che siete incapaci di amare o farvi amare, potreste intuire di avere in voi stessi entrambe le capacità, ma in questo caso vi spaventerebbe il lavoro ciclopico che vi aspetta per andare a recuperarle sotto la corazza di puro granito che le protegge, per poi riattivarle e rimetterle in funzione; f) se vedete le vostre verità per quello che sono, nient’altro che semplici ipotesi e per di più invalidanti rispetto alle vostre vere possibilità, vi sentirete deprivati dei punti fermi intorno ai quali avete organizzato il vostro quotidiano tran-tran, confusi, smarriti ed esposti alle peggiori intemperie. L’essere psichico cerca di costruire per sé e la prole un ambiente in cui l’imprevedibilità sia ridotta al minimo, il bene e il male siano definiti nei minimi dettagli in ponderosi volumi ben provvisti di imprimatur, e persino la morte fisica sia esorcizzata grazie all’esistenza di apposite località ultraterrene dove le anime potranno godere o soffrire per l’eternità, a seconda di come si saranno comportate quaggiù. Ma voi, amici, che avete imparato a dare la giusta importanza ai bisogni dell’anima, non permettete più a questi di debordare dall’area di loro competenza e invadere lo spazio propriamente umano. Rinunciando ad abitare stabilmente le costruzioni psichiche in cui la vita può entrare solo a patto di non contraddire le leggi e i regolamenti vigenti, uscite all’aria aperta senza più farvi intimidire dalle minacce che incombono su chi si sottrae alla tutela di cui l’animale uomo non può fare a meno per vivere. E se l’animale uomo muore, che ne è dell’uomo? Tranquilli, non l’anima, solo l’uomo identificato con l’anima ha da togliersi di mezzo perché l’uomo possa venire al mondo. E’ stato detto che Socrate è il primo individuo nella storia del pensiero occidentale. Il che equivale a dire che solo con la riflessione l’uomo si individua, e dunque diviene propriamente uomo, uscendo dall’indistinzione della vita del branco. Con la riflessione si supera il livello subumano, ma perché questo non basta ancora? Il fatto che l’uomo della riflessione sia un passaggio - un cavo sospeso nel vuoto - e non un punto d’arrivo, è per voi (e per me) un motivo di sollievo misto a inquietudine. Sollievo, perché non vi sorride affatto l’idea di passare la vita a riflettere, magari incalzati da qualche epigono di Socrate che vi metta implacabilmente di fronte alle vostre contraddizioni, riducendovi alla fine a balbettare “e come no?”, o “dici il vero”, al pari dei costernati interlocutori del figlio della levatrice. Inquietudine, perché vi chiedete: che cosa dovremo abbandonare, ancora? Ve lo dico subito, carissimi, non voglio tenervi sulle spine: una volta imparato a riflettere, cosa non facile, bisogna imparare a smettere di riflettere, cosa ancora più difficile. La ragione è un bene preziosissimo, non siamo veramente uomini se non sappiamo usarla fino in fondo, lo abbiamo appena visto. E tuttavia, come tutti i farmaci, in dosi eccessive fa male. In effetti è molto facile abusarne, una volta scoperto il suo potere. I sintomi di sovradosaggio sono: il bisogno ossessivo di contestare a chiunque qualsiasi certezza, con particolare predilezione per quelle di ordine scientifico, politico o religioso; la tendenza a lanciarsi in ragionamenti a oltranza (a spaccare il capello in quattro) su ogni cosa; una certa mancanza di spontaneità, accompagnata da qualche difficoltà a relazionarsi con il prossimo in modo più disteso. Sono sintomi che conosco bene perché purtroppo io stesso non ne sono esente, come forse non vi è sfuggito. Che cosa voleva dire Socrate con le sue ultime parole: dobbiamo un gallo ad Asclepio? Era un dono rituale, offerto al dio da chi guariva da una malattia. Ma da quale malattia guariva Socrate, morendo? La vita stessa era per lui una malattia? O piuttosto una vita oppressa da un eccesso di razionalità, come ha ipotizzato, a mio avviso giustamente, Nietzsche? Di certo c’è qualcosa che non va, se un uomo bevendo la cicuta ringrazia gli dei come se gli facessero un favore: è evidente che troppa riflessione non aiuta a vivere bene. Io non vi ho promesso una ricetta per vivere felici, ma solo qualche suggerimento per riconoscere e gestire meglio le vostre paure. E tuttavia, come avete potuto constatare, è impossibile trattare il tema della paura senza collegarlo a quello più vasto dei bisogni e desideri, delle scelte e dei fini. E allora andiamo fino in fondo, e in un capitolo conclusivo cerchiamo di vedere perché, se vogliamo liberarci dalle paure irrazionali, ragionare è necessario, ma in ultima analisi insufficiente. XIV . Ubi maior Cadono le barriere materiali, crollano quelle morali alla soddisfazione di un gran numero di desideri per una grande moltitudine di persone in gran parte del mondo, in quest’ultimo scorcio di millennio. Ma ora che abbondano gli oggetti del desiderio e le occasioni per soddisfarlo, il desiderio stesso sembra ritrarsi, come contrariato da tanta abbondanza. Si moltiplicano allora gli sforzi per risvegliarlo e rianimarlo, si affollano gli studi dei sessuologi di persone che portano sempre lo stesso problema: non riesco a desiderare. La bestia nera del desiderio, ormai lo sapete bene, è la sua stessa ombra: la paura. Di non essere all’altezza delle aspettative - nostre, del partner, della società - in primo luogo: non c’è come dover fornire una prestazione che lo uccide. Oppure dei nostri desideri ci spaventa l’abituale disordine e l’ordinaria distruttività. Desideriamo cose che sicuramente fanno male - alla salute, al matrimonio, alla reputazione - e non sappiamo desiderare quelle giuste. Senza contare che non siamo affatto certi di saper distinguere le une dalle altre. Come facciamo a separare il bene dal male, in presenza di una pluralità di codici e in assenza di una centrale etica universalmente riconosciuta? Possiamo fidarci della nostra coscienza? Ma ce l’abbiamo poi una coscienza capace di valutare rettamente, o abbiamo solo un misero superio - un impasto di narcisismo infantile e di norme assorbite qua e là? Siamo confusi, intimoriti dalla nostra confusione, incapaci di orientarci e colpevoli della nostra incapacità. Facciamo un passo indietro. Ritorniamo al cogito, unico punto fermo quando ogni altra cosa è in dubbio, alla coscienza di non saper nulla che è l’inizio di ogni riflessione. Prendendo le distanze da tutti i saperi particolari e da tutti i codici di valori, riguadagniamo quella visione che è tanto imparziale e obiettiva, dunque tanto vera - e su questa visione basiamo un’azione che è tanto giusta - quanto è possibile a un essere umano. Recuperiamo insomma quella capacità di intendere e di volere che avevamo momentaneamente messo da parte, allarmati non dalla morte, ma dal desiderio di morte di colui che ce l’ha insegnata. Ora sappiamo che la riflessione non basta, e tuttavia dobbiamo tenerla ben ferma, e anzi svilupparla e rafforzarla, se vogliamo sperare in un approdo postriflessivo ed evitare di cadere in qualche buco preriflessivo, come è capitato a tanti in questo secolo. Non mi riferisco solo a gente comune come voi e me, ma anche a grandi pensatori come uno di cui vi ho già parlato, che nella sua veste di rettore di un’università tedesca esortò i giovani ad affidarsi al Führer. Tanta era la sua ansia di superare il soggetto, nella pur lodevole intenzione di ritrovare l’essere da questi smarrito, che rovinò assieme a milioni di altri ben al di sotto della capacità di critica e di giudizio etico che l’Occidente aveva faticosamente conquistato nel corso della sua storia. Tanto più, dunque, occorre riflettere bene, quanto più ci si inoltra nel territorio in cui la riflessione deve essere abbandonata. Cerchiamo di chiarire il paradosso. Abbiamo bisogno di allenare il pensiero, contro la sua naturale tendenza ad appisolarsi, alla vigilanza, di modo che sia pronto a entrare in azione quando serve e altrimenti a restarsene in silenzio; ma sempre attivo quanto basta per distinguere i due casi. La riflessione, come certo ricordate, è necessaria in primo luogo per stanare i punti di arresto della corrente vitale - attaccamenti, avversioni, aspettative - che sono per lo più ben camuffati o giustificati o ignoti all’interessato. Quando siete in presenza di un blocco, una viscosità, un’incapacità o un’inerzia del desiderio e del piacere di vivere, dovete sempre sospettare l’azione inibitoria di qualcosa che potete variamente intendere come conflitto, fantasia inconscia, idea irrazionale o condizionamento, a seconda delle vostre preferenze; ma che in tutti i casi vi conviene riconoscere e neutralizzare. E se non ci riuscite? In tal caso, mi dispiace: non vi resta che ricorrere all’aiuto di uno di noi. Questa prospettiva vi indurrà di certo a moltiplicare gli sforzi e a scoprire in voi stessi risorse analitiche inaspettate che dispiegherete nel vostro ormai ben collaudato laboratorio domestico. Ma consideriamo la possibilità opposta: la corrente vitale non è bloccata, anzi fluisce gonfia e impetuosa. Vi insospettisce tuttavia la sua scarsa trasparenza o il suo aspetto francamente limaccioso, che vi sconsiglia di abbandonarvi fiduciosamente al suo corso. Mentre nel caso precedente vi impensieriva la presenza di un freno inibitorio, qui vi preoccupa la sua assenza o debolezza. Se lì occorreva indagare sulla natura dell’impedimento, qui è urgente affermare il principio che è il cavaliere, e non il cavallo, a decidere la strada da prendere. E se il cavaliere non sa dove andare, dev’essere almeno in grado di tirare le redini e fermarsi sotto il primo albero a riflettere. Qui comincia il difficile. Imporsi una condotta razionale richiede uno sforzo di volontà notevole, che non sempre basta; e anche se basta, non è detto che il risultato sia desiderabile, se è proprio il desiderio ad andarci di mezzo. Già il vescovo di Ippona ammoniva, in polemica con gli stoici, che l’esercizio di un rigido controllo razionale tutt’al più conduce a un’apatica adesione all’ordine dato delle cose, senza che al desiderio sia offerta alcuna possibilità di riscatto. Mentre proprio di questo si tratta, carissimi. Più nessuno, alla fine del ventesimo secolo, vuole barattare i suoi desideri, per quanto bassi, e le sue passioni, per quanto torbide, con una vita ordinata e ragionevole, nel fondato timore che ciò voglia dire inamidata. Pochi ormai in Occidente, e di certo nessuno tra i miei pochissimi lettori, sono ancora disposti a rinunciare al desiderio di un appagamento terreno in vista di uno ultraterreno, o magari anche su questa terra, ma da rinviarsi a dopo la realizzazione dell’ennesimo sogno di società ideale. Non voglio sostenere che la nostra generazione sia più egocentrica di quelle che ci hanno preceduto. Al contrario, dato che nell’ultimo mezzo secolo della nostra storia, grazie a un periodo di pace e benessere mai visto prima, abbiamo potuto saziare il nostro ego più di quanto sia mai stato possibile sperare, siamo ora sinceramente interessati a cercare al di fuori dei suoi confini ciò che al loro interno non si è potuto trovare. Non è prudente smettere di riflettere prima che sia entrato in scena quel desiderio in presenza del quale possa valere la massima ubi maior minor cessat. Le piccole e mediocri ma tenacissime passioni, infatti, non saranno mai estinte dal più ragionevole dei pensieri, ma solo da una passione più grande. Ora, qual è la passione più grande, la passione originaria che mette in fila tutte le altre? Che sia la passione dell’origine è ben chiaro; ma che cosa si debba intendere con questo lo è molto meno. Tanto è vero che sembra scontato, a una moltitudine di persone che hanno passato anni della loro vita distese su un divano a confabulare, o sedute ad ascoltare le confabulazioni di altre distese, che per passione originaria si debba intendere quella del bambino per la madre, altrimenti detta desiderio edipico (con le varianti canoniche: desiderio della bambina per il padre e desiderio invertito di entrambi per il genitore dello stesso sesso). Se così fosse, che si potrà mai fare con una passione tanto malsana quanto inestirpabile? Si cercherà di risanarla, sapendo che è insanabile, o di sublimarla, sapendo che ciò vuol dire rivestire di nobili forme l’ignobile desiderio infantile. Non sarà pertanto improbabile che l’interesse per l’impossibile compito di crescere, guarire o educare lasci alla fine il posto al più gratificante, se pure a sua volta un po’ insano, piacere di inseguire gli intrighi e i maneggi della libido perversa al di sotto di quanto di più elevato gli uomini si sono inventati per distogliere lo sguardo dalla loro triste condizione. Intendiamoci: non mi sogno di negare l’esistenza del conflitto edipico, piaga non meno reale e ubiquitaria della carie dentale. Nego solo l’appartenenza di entrambi i malanni all’essenza dell’uomo per evitare di trovarmi, come terapeuta e come uomo, in un vicolo cieco. Ho bisogno, invece, di un quid originario che non sia solo il fondamento della vis medicatrix naturae, cui debbo fare appello come medico, ma soprattutto sappia attirare il mio desiderio sottraendolo alla fascinazione degli oggetti infantili: cosa di cui non può fare a meno chi da essi voglia mai sperare di affrancarsi. L’errore che rende il tempo perduto introvabile consiste nel cercarlo nel posto sbagliato: nel passato, storico o mitico, o nel futuro, in questa o un’altra vita. Poiché sapete bene che non sono un profeta della Nuove Era, non vi aspettate che ora vi dica che cosa dovete fare per ritrovarlo. Ma come sia possibile attivare e coltivare un desiderio che non sia vano e illusorio già in partenza, questo avete il diritto di chiedermelo. Siete d’accordo che rimpiangere il passato e aspettare il suo ritorno è un passatempo da nevrotici? Benissimo. Ma se la dimensione da cui siete usciti - per diventare un soggetto che sta di fronte a un oggetto - è ancora qui, intatta, nulla vieta che il tragitto sia ripercorso in senso inverso. Io posso essere qualcuno che sta davanti a qualcosa in quanto quel qualcuno che io sono e quel qualcosa che ho davanti a me non sono che parti momentaneamente distinte di un tutto che comprende entrambe. Con questo tutto la parte non cessa mai di desiderare un ricongiungimento che nello stesso tempo teme, perché ne potrebbe derivare il suo annullamento come entità separata. Da qui la tendenziale distruttività del desiderio e il suo legame essenziale con la paura, che ben conoscete. Questo significa che il cammino a ritroso, dall’ente separato all’essere, è equivalente alla morte del primo, o implica comunque un passaggio mortifero, come un atto perverso o l’assunzione di una droga? Così è in effetti, quando le due parti di noi - quella che vuole persistere nella sua separatezza e quella che vuole ricongiungersi al tutto - sono l’una contro l’altra armate in una lacerante guerra intestina. L’esistenza di queste due anime era ben nota agli antichi che distinguevano il tipo di pensiero proprio di ciascuna, detto rispettivamente dianoetico o discorsivo, e noetico o intuitivo; ed è confermata dalla moderna neuropsicologia, che ha riconosciuto nell’emisfero sinistro - sede del linguaggio e delle funzioni analitiche in genere - la base cerebrale della prima, e in quello destro - sintetico-olistico - la sede della seconda. L’emisfero sinistro era detto fino a poco tempo fa dominante, a testimonianza del fatto che l’Occidente ha sempre privilegiato la logica rispetto all’intuizione e la parola rispetto al silenzio, al contrario dell’Oriente. L’espressione tende oggi a essere abbandonata, essendo stato riconosciuto che ciascuno dei due emisferi ha le sue proprie aree di influenza. Come nel matrimonio ordinario, in cui il marito ha il potere economico e la moglie quello domestico e ciascuno dei due usa quello che ha nel trattamento delle vertenze quotidiane. La collaborazione che invece voi, carissimi, avete iniziato con vostra moglie, è assolutamente fuori dell’ordinario e me ne congratulo vivamente. Incoraggiati dai primi risultati che avete ottenuto, sarete ora sicuramente interessati ad avviare una collaborazione analogamente fruttuosa tra le due metà del vostro cervello. Ma per questo occorre che in primo luogo le rispettive sfere di competenza siano ben definite. Il pensiero dell’anima dianoetica è razionale, cioè mediato dalla parola, dal discorso, dal ragionamento; mentre l’anima noetica ha una presa intuitiva, immediata e diretta sull’esperienza. Se riuscite a mettere a tacere il chiacchericcio che viene ininterrotto dalla parte sinistra e a restarvene almeno per qualche attimo in silenzio nella vostra anima di destra, potete ritrovare quell’esperienza indivisa in cui non ci siete più voi che vedete qualcosa e mentalmente dite “questo è un albero”, ma c’è la visione dell’albero, senza alcuna distinzione tra qualcuno che vede e qualcosa che è visto. In questi momenti si ricompone l’unità e la totalità del mondo. Dobbiamo cercare di non cadere nella trappola - o meglio: dobbiamo cercare di uscire dalla trappola in cui siamo già caduti - di ritenere che il ragionamento sia più vero e affidabile dell’intuizione o viceversa. In realtà i nostri ragionamenti possono essere non meno capziosi di quanto siano fantastiche le nostre intuizioni, dal momento che il pensiero prodotto da entrambi gli emisferi risente delle influenze provenienti dalle pulsioni dell’organismo e dalle pressioni del mondo esterno. Già sappiamo che il nostro io, come entità psicologica, è al servizio di due o tre padroni; cosa che vale per entrambe le sue funzioni, l’analitica e la sintetica. Il primo uomo libero e il primo individuo dell’Occidente è stato colui che, sapendo prendere le distanze e revocare in dubbio ogni sapere, ha potuto affrancarsi dagli interessi sottesi a ognuno di essi. Questo soggetto capace di intendere e di volere, che viene al mondo con la riflessione, è libero tuttavia solo a metà. Il soggetto socratico-platonico, infatti, non vive bene nella sua pelle, un involucro di passioni terrene che lo trattiene quaggiù come in una prigione. Da questo bozzolo egli aspira a liberarsi con un’ascesi razionale che di gradino in gradino lo porti fino al puro e incontaminato mondo delle idee. L’ideale freudiano - dov’era l’es deve venire l’io - riproduce lo stesso movimento di dominio delle passioni corporee mediante lo strumento analitico-razionale, ed è quindi perfettamente in linea con il motivo dominante della metafisica occidentale. Ma voi, che in questo secolo avete assistito alla grandiosa parabola della psicoanalisi, dall’irresistibile ascesa al lento declino fino al colpo di grazia - l’abiura di Woody Allen - non potete più accontentarvi di una mezza libertà, e giustamente la volete tutta. Ora che avete imparato a riflettere rettamente, volete anche rettamente intuire e sentire. Avete capito che a questo fine il metodo discorsivo-analitico serve fino a un certo punto, oltre il quale è di ostacolo. Siete pronti quindi, dopo aver utilizzato la riflessione per sospendere ogni giudizio e aspettativa, a sospendere anche questa. Nella lotta di liberazione della sezione di destra della vostra anima avete di fronte due nemici. Il primo è il pensiero razionale-analitico che, indispensabile finché si tratta di analizzare e ragionare, diventa un impedimento se non si fa da parte quando è venuto il momento di tacere. Il secondo è interno alla facoltà noetica, e consiste in un’oggettivazione ingenua dell’esperienza intuitiva: che si verifica quando, invece di riconoscere nella singolarità della vostra intuizione la vostra verità, cioè il modo in cui l’essere si rivela a voi personalmente, vi immaginate che la vostra verità sia la verità, valida ovunque e per chiunque. Ciò che si mostra alla vostra intuizione è certamente una verità universale, ma solo nel senso che è il modo in cui l’universo si manifesta a voi. Se avete una religione (sono convinto che ne avete una, anche se voi non lo siete), avete perfettamente ragione di considerarla vera e perfettamente torto di considerarla più vera di un’altra. Ogni cosa è finita, vi ricorda un grande teologo tedesco, in quanto i suoi confini sono intagliati nell’infinito. Ogni entità individuale, come singola realizzazione o incarnazione del mondo delle infinite possibilità, è un simbolo dell’infinito. La realtà si apre sotto i vostri occhi, se cominciate a vedere ogni cosa sub specie infinitatis. O, nel caso il linguaggio bioniano incontrasse il vostro gusto più di quello spinoziano, se vedete in ogni oggetto K una trasformazione di O. Eccoci dunque arrivati alla passione originaria, al desiderio di infinito che anima ogni creatura finita, la porta all’entusiasmo o alla disperazione attraverso tutta la gamma dei sentimenti intermedi e si divide in due correnti distinte. Nella prima ha il volto sanguigno dell’eros regressivo e trasgressivo, incestuoso e perverso, altrettanto micidiale nella passione amorosa come in quella politica o religiosa. Nella seconda ha la leggerezza dell’eros vitale, risanativo e rigenerativo. In ciascuno di noi le due correnti formano una mescolanza particolare in cui la prima, quasi sempre più abbondante e impetuosa, per lo più copre fino a obliterare del tutto la seconda. Che la via regressiva-trasgressiva all’infinito, altrimenti detta onnipotenza infantile, sia di gran lunga più popolare dell’altra, è un dato che non ha bisogno di spiegazioni. Sulla prima l’intollerabile senso di separazione può essere cancellato immediatamente, se pure attraverso un’appropriazione indebita, una rottura violenta dei confini individuali propri o altrui, o più semplicemente una fuga nell’immaginario. La seconda richiede invece un lungo apprendistato, che passa per l’esercizio della riflessione e arriva a una pratica di ascolto non discorsivo. Bene o male un certo adattamento alla realtà l’avete raggiunto; ma se ora siete così ambiziosi da puntare alla conversione del desiderio dalla trasgressione all’apertura, dovete prendere in considerazione un investimento su questo obiettivo superiore ai ritagli di tempo e di attenzione che finora gli avete dedicato. Ma questa è un’altra storia. Il compito che mi ero dato, e che qui si conclude, era quello di aiutarvi a distinguere tra paure utili, che vi sollecitano a far fronte a minacce non immaginarie, e paure superflue o dannose, radicate in una percezione inadeguata di voi stessi e del mondo. A questo scopo abbiamo passato in ricognizione le diverse sfere dell’esistenza - reale, immaginaria e possibile - e per non smarrirci abbiamo usato una mappa con quattro punti cardinali che collegano due assi, corrispondenti ai piani psicologico e spirituale dell’esperienza. Siamo infine giunti a considerare il desiderio, che la paura regolarmente accompagna come un’ombra trattenendo il desiderante dal compiere gesti sconsiderati e inducendolo a riflettere sulle conseguenze cui va incontro. Oltre a questa azione buona e lodevole, tuttavia, la paura ha il potere di paralizzare il desiderio quando, assecondandolo, rischieremmo di perdere l’approvazione di coloro senza il cui sostegno pensiamo di non poter sopravvivere, o di turbare in altro modo l’equilibrio su cui si regge l’identificazione di noi stessi, senza la quale non sapremmo più chi siamo. E’ pertanto di cruciale importanza saper distinguere quel desiderio che dev’essere temuto, tanto che se non lo temete abbastanza finirete per cacciarvi in qualche guaio, da quello che non è giusto temere, perché ciò che seguendolo perdereste potete e anzi vi conviene perderlo, se volete trovare qualcosa che vale molto di più di ciò che per trovarlo avrete perduto. Spero, in ogni modo, che almeno in queste pagine abbiate trovato qualcosa che fa al caso vostro. Se così non fosse, mi dispiacerebbe ma non sarei pentito di averle scritte, perché scrivendole intendevo soddisfare in primo luogo il mio desiderio, e non il vostro. Ma, per non sembrarvi fino in fondo troppo cinico, aggiungerò che cammin facendo mi sono affezionato a voi, anche se la vostra esistenza è per il momento soltanto virtuale e non è ancora stata dimostrata. Questo di per sé non è un inconveniente troppo grande, dato che altre entità virtuali, la cui esistenza non è mai stata dimostrata, sono state capaci di ispirare alcuni capolavori immortali. Se quindi voi non avete una collocazione certa nel mondo reale, la vostra esistenza in quello possibile, e non solo in quello immaginario, è sicuramente attestata dal fatto che dialogando con voi ho portato felicemente a termine questo lavoro. Prendo dunque congedo, ringraziandovi per la vostra presenza affettuosa, paziente e giustamente critica. Se avrete messo in pratica qualcuno dei suggerimenti che vi ho dato, fatemelo sapere: sarò molto lieto di apprendere che siete dotati anche di un’esistenza reale, oltre che dell’intelligenza, del buon senso e della buona volontà di cui non ho mai dubitato. Tullio Carere Paura
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