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Tullio Carere_Paura
Tullio Carere
Paura
I . Introduzione
II . Cherchez la peur
III . Sogno o son desto?
IV . Polli metropolitani
V . Il sigaro di Freud
VI . Piccoli mostri
VII . Il monito di Apollo
VIII . Della madre e del padre
IX . Dello scienziato e del mistico
X . Platone versus Freud
XI . La casa-base
XII . Se il grano non muore
XIII . Un gallo ad Asclepio
XIV . Ubi maior
Paura
I . Introduzione
Che cosa avete pensato leggendo il titolo e il sottotitolo di questo
libro? Forse qualcosa del tipo: il solito manuale similamerikano per il
fai da te? (La kappa sta per il fastidio che l’intellettuale europeo medio
prova per quello che identifica come il peggio dell’american way of life:
faciloneria, pensiero ingenuamente positivo e soprattutto l’esecrabile
do-it-yourself. Perché, se fosse veramente possibile fare da sé, nella
fattispecie pensare con la propria testa, a che cosa servirebbero allora
gli intellettuali?
No, sono sicuro che non avete pensato niente del genere. Lo so perché in
tal caso non avreste nemmeno aperto il libro e ora non stareste leggendo
queste righe. Visto che invece le state leggendo, sono autorizzato a
presumere che: primo, non fate un uso smodato di difese intellettuali per
proteggervi dalle vostre paure; secondo, ne avete ancora un pacchetto che
la vostra analisi pluriennale non è riuscita a smaltire; terzo (riservato
a coloro che non hanno alle spalle diversi anni di analisi), ritenete che
non sia un’eresia pensare di fare qualcosa per le vostre paure senza
passare per una lunga analisi e forse nemmeno per una psicoterapia breve.
Adesso che so qualcosa di voi, mi sembra giusto che anche voi sappiate
qualcosa di me. Vi dirò dunque che sono uno psichiatra e uno
psicoterapeuta. Sapete certamente che il primo titolo compete a un medico
specializzato in malattie mentali. Quanto al secondo, credo che la
definizione più prudente sia questa: qualifica spettante a medici e
psicologi provvisti dei requisiti di legge necessari per entrare negli
elenchi degli psicoterapeuti istituiti presso i rispettivi ordini
provinciali. Questo non vi dice niente? Avete ragione, infatti non dice
niente. Ma è un niente che ha uno scopo: quello di non sfiorare neanche il
vespaio di questioni - terapeuta doc o selvaggio? e di che indirizzo? e
che differenza c’è con un analista? - che in questa fase della nostra
conoscenza rischierebbero di concluderla prematuramente.
Sono tempi frenetici, la vostra attenzione è sollecitata da ogni parte. Se
sono stato così fortunato da ottenerla per qualche attimo, debbo dirvi in
fretta qualcosa che la persuada a restare qui ancora un poco. Ecco,
vedete, ho paura che ve ne andiate. La paura più terribile per un autore,
quella di essere abbandonato, o peggio, nemmeno preso in considerazione
dai suoi potenziali lettori. Ma converrete che questo sentimento non è
privo di utilità: infatti, avvisandomi del pericolo che corro di non
essere letto, mi invoglia a non perdermi in chiacchiere e a cercare di
produrre uno scritto meritevole dell’attenzione che vuole ottenere.
D’altra parte, l’idea di essere ignorato da voi potrebbe spaventarmi al
punto di spingermi al tentativo di sedurvi con la promessa di risultati
rapidi e spettacolari, e magari anche a intrattenervi raccontandovi
qualche storiella. In tal modo disgusterei e mi alienerei i lettori più
seri, mentre conquisterei - se mai riuscissi a conquistare qualcuno - quel
tipo di pubblico che si entusiasma facilmente per qualsiasi novità, purché
non impegnativa.
Come vedete bene dal mio caso personale, la paura è un sentimento che può
essere molto utile, quando avverte di un pericolo e aiuta a prevenirlo, ma
anche superfluo o francamente dannoso, quando induce a comportamenti
impropri e irrazionali. E allora permettetemi di farvi una domanda
diretta: siete sicuri di saper distinguere bene le due condizioni? E, nel
caso abbiate risposto affermativamente: disponete di strategie adatte a
far fronte ai due tipi di circostanze?
Se la vostra risposta è nuovamente affermativa, voi non avete bisogno di
leggere questo libro, sono io che avrei piacere di conoscervi. Se invece
avete risposto di no ad almeno una delle due domande, quanto segue
potrebbe fare al caso vostro.
Supponiamo, per un momento, che avesse ragione Tolstoj, quando diceva che
lo scopo della vita è la gioia: se la gioia si affievolisce, vuol dire che
in qualche punto abbiamo commesso un errore. Cioè ci siamo fatti prendere
da qualche paura. So di potervi sottoporre questa ipotesi. Gli
intellettuali infastiditi dall’ottimismo amerikano non lo sono di meno da
quello russo, ancora più sfrenato: ma non debbo preoccuparmene perché,
come ho già appurato, la loro eventuale presenza tra i miei lettori
sarebbe casuale e non significativa.
Alla base di questa ipotesi c’è la constatazione che la gioia è
apparentata con uno stile di vita rilassato, mentre chi ha paura è teso e
dunque non si gode la vita. D’accordo, non mi avete prestato la vostra
preziosa attenzione per farvi propinare simili banalità. So che cosa
volete dire: come si fa a essere rilassati in un mondo come questo? Con
l’incertezza del posto di lavoro, la microcriminalità diffusa, i conflitti
tribali dal Congo alla Padania, la pressione fiscale e il debito pubblico
in costante aumento.
Permettetemi di rispondervi con un’altra domanda: siete sicuri che la
vostra tensione nervosa e muscolare sia un valido contributo alla
soluzione dei mali del mondo, e dei vostri in particolare? Non credo.
Combattere a volte serve, a volte no. E allora perché pompare adrenalina
in continuazione nel vostro sistema circolatorio? Senza contare che si può
essere rilassati anche quando si combatte, anzi si combatte meglio.
Ma torniamo all’ipotesi. Se ho deciso di scrivere un libro sulla paura,
non è stato per angosciare voi, e ancor meno me stesso; come potreste
giustamente sospettare, visto ciò che correntemente si pubblica, si
proietta e si manda in onda. Il motivo principale per cui sto scrivendo è
che mi piace scrivere. E siccome mi piacerebbe anche essere letto, ho
scelto un tema che spero vi interessi. Se riesco a unire l’utile al
dilettevole, è fatta, non chiedo altro.
Dunque, per quanto mi riguarda io adotto l’ipotesi di Tolstoj.
La scrittura - come qualsiasi altra cosa - in linea di principio dovrebbe
essere (anche) un piacere. Se per me cessasse di esserlo, mi riprometto di
fermarmi e di stanare la paura che in quel momento mi starà sabotando.
Sarà quella di scontentare il lettore? O di non arrivarci nemmeno al
lettore, se non trovo un editore? O piuttosto di non trasmettere un
messaggio abbastanza epocale? (In quest’ultimo caso scontenterei il
superio). Basta, una paura che paralizza l’azione e il godimento è
soltanto un parassita che va schiacciato senza pietà.
A patto, naturalmente, di non confondere il peccato (la paura) con il
peccatore (il pauroso). Se il primo merita disprezzo, il secondo va
aiutato. Qualche esperienza di aiuto del pauroso che sono stato e sono io
stesso e di pochi altri ce l’ho, quanto basta per sentirmi autorizzato a
scriverne. Cosa che sicuramente aiuta me. Se possa essere di aiuto anche
ad altri per il momento è solo un’idea temeraria, perché so per esperienza
quotidiana con quanta tenacia e passione, con quale impegno e vigore sia
rifiutato anche l’aiuto espressamente richiesto e ben pagato. Figurarsi
quello non richiesto e pagato le poche lire del prezzo di copertina. Ma
tant’è. Io scrivo per il mio piacere, il resto - se c’è - è in più.
Vi sembra eccessivo il mio sfoggio di edonismo? Forse avete ragione. Sto
cercando di allontanare il sospetto di voler salire in cattedra o sul
pulpito? E’ un dubbio che non mi turba più che tanto, per la verità. Se mi
va di predicare, predico. Se qualcuno ha voglia di ascoltarmi, sono affari suoi.
Io ci salirei anche volentieri in cattedra, se questo volesse dire - cosa
che normalmente non vuol dire affatto - che ho una perfetta padronanza
teorica e pratica della mia materia. Nel caso specifico, che so
perfettamente come trattare le paure mie e altrui. Sarebbe come dire che
sono completamente guarito e ho raggiunto la pace della mente. Anche se mi
conoscete solo da dieci minuti, avete già l’impressione che questo non sia
il mio caso. Quindi, tanto vale parlar chiaro: questo libro è un work in
progress, un cantiere aperto, in cui ho un progetto di massima ma nessuna
idea di quello che dirò nel prossimo paragrafo.
Del resto, la ricerca del godimento nella scrittura è un’operazione
intrinsecamente contraddittoria. Infatti, se voglio divertirmi non posso
darmi un piano di lavoro e obbligarmi a seguirlo in modo metodico e
pedante, ma debbo permettermi di scrivere quello che mi passa per la
mente. Salvo che questo procedimento, come tutti sanno nel secolo della
psicoanalisi, è atto a scompaginare il fragile e ingannevole ordine della
mente, aprendo varchi perturbanti nel suo tessuto delicato. Dalle
smagliature così prodotte occhieggia temibile l’inconscio, con le sue
figure inquietanti e impresentabili. Come vedete, la ricerca del piacere è
una pratica che ha effetti secondari tali da scoraggiare chi la
intraprende, consigliando piuttosto percorsi di più basso profilo.
Insomma, che vi piaccia o no, la gioia e la paura sono unite da un comune
destino: per trovare l’una dovete liberarvi dell’altra, eppure questa
stessa ricerca vi espone a un rigurgito di paure ancestrali che sono lì
proprio perché voi stessi le avete evocate, allentando le difese che le
tenevano a bada.
Non sapete di che cosa sto parlando, perché per voi la scrittura non è
particolarmente associata al godimento? Ma allora andiamo al prototipo, al
modello originale, alla fonte stessa del piacere: il sesso. Avete
imparato, a vostre spese, che la capacità di godere è direttamente
proporzionale a quella di lasciarvi andare, di mollare gli ormeggi e
sciogliere le vele al vento. E se la seconda, come spesso accade, è
scarsina, anche la prima purtroppo non è un granché.
Lo so, potete abbandonarvi senza remore al flusso del desiderio se
l’oggetto del medesimo è stampato a colori su carta patinata. Oppure, se
l’oggetto è in carne e ossa, bisogna che sia severamente proibito o che
comunque sussista un serio ostacolo al suo raggiungimento. O, in
alternativa, può bastare che esso sia definibile come preda, o sia così
debole e indifeso da scatenare i vostri peggiori istinti di protezione. In
breve: occorre che l’oggetto non vi faccia paura.
Ma lo sapete, poi, di aver paura? Forse no. Forse vi limitate a prendere
atto di un’incomprensibile caduta del desiderio. Non riuscite a capire
come mai la vostra donna, che era così desiderabile quando ancora vi
teneva sulla corda, adesso che è la vostra legittima consorte vi eccita
molto, ma molto meno. Forse non vi ponete nemmeno il problema: pensate che
sia normale, visto che succede più o meno a tutti. Così come è normale
adempiere sempre più stancamente al vostro dovere coniugale; e come è
legittimo prendervi qualche risarcimento fuori delle mura domestiche.
Perché, in fin dei conti, l’uomo è cacciatore (come la donna del resto, da
quando si è emancipata).
Se invece sapete che il sesso vi fa paura, anche senza sapere perché, il
vostro livello di consapevolezza è già superiore alla media. Il sesso come
la scrittura, la pittura come la danza: qualsiasi attività che presuppone
apertura e abbandono rende vulnerabili e espone al pericolo. Ci
aggrappiamo all’idea che il nemico sia esterno, e solo a malincuore
rinunciamo a questa consolazione e ci avviciniamo all’orribile verità: il
nemico principale è dentro di noi.
Ma per queste cose ci sarà tempo più avanti, se avrete la bontà di
seguirmi. Per adesso mi preme solo chiarire il nesso tra godimento e
paura. Renderlo chiaro a voi, ma anche a me stesso: altro buon motivo per
scrivere. Spesso le cose mi si chiariscono nel momento in cui cerco di
chiarirle a qualcun altro, e per questo ho bisogno che qualcuno abbia
bisogno di me (avevate ragione, la mia motivazione non è puramente
edonistica).
Potrei esprimere così il nesso in questione: inizio a scrivere per il
piacere di scrivere; il piacere mi deriva dall’abbandonarmi al flusso
associativo, nella libertà da ogni schema; l’abbandono al fluire delle
idee, degli eventi e delle cose avvicina al cuore pulsante della vita, ma
fa spavento, perché spazza via ogni ordine stabilito e ogni certezza; la
paura stimola reazioni di difesa; le difese fanno argine al flusso vitale,
lo normalizzano e possono anche arrestarlo del tutto; con il ritorno alla
normalità finisce il piacere di scrivere e di fare qualsiasi altra cosa;
rimane solo il funereo e illusorio piacere di avere tutto sotto controllo.
Va bene, siete riusciti a incasellarmi, finalmente: sono un vitalista. Non
lo avete pensato? Se no, ve ne sono grato. Se sì, vi prego di non avere
troppa fretta. Lo riconosco, il paragrafo precedente è percorso da uno
slancio vitalistico. Posso arrivare ad ammettere che c’è un vitalista in
me (come c’è uno psichiatra e uno psicoterapeuta). Ma che io lo sia,
questo non dovete pensarlo.
E allora chi sono io veramente? Non vi aspetterete che ve lo dica. Non per
giocare a nascondino, ma per l’ottima ragione che non lo so. Questo mi dà
una buona lunghezza di vantaggio su di voi, se credete di saperlo: di
sapere chi siete, intendo dire. Se invece non lo credete, sono contento di
avervi incontrato, come lo sono tutte le volte che trovo un compagno di
viaggio. Perché è chiaro, una volta capito che non sappiamo chi siamo, il
nostro destino è segnato: l’unica cosa sensata da fare è cercare di
scoprirlo.
Infatti, se pensate di essere un padre di famiglia, dedicherete tutte le
vostre energie alla sicurezza e al benessere dei vostri cari. Se credete
di essere un insegnante, metterete l’anima nell’insegnamento, e sarete di
conseguenza amaramente delusi dai vostri allievi come il padre lo sarà dai
suoi figli ingrati. Lo stesso se credete di essere un prete, uno
psichiatra o qualsiasi altra cosa.
Ma c’è di peggio. Se credete di essere un dirigente d’azienda
cinquantenne, e la vostra azienda vi manda a spasso, che fate? E se
credete di essere un commerciante o un libero professionista e restate
senza clienti? Siamo vicini al terrore puro, non è vero? Così torniamo al
nostro tema. Non pensiate che lo perdo di vista, anche se divago un poco.
Non possiamo capire la paura senza affrontare il tema dell’identità,
perché quando questa è minacciata si scatenano i terrori più devastanti.
Un credente può lasciarsi scannare per il suo credo, e con la stessa
serenità può scannare i credenti di chiese concorrenti che mettono in
dubbio le verità della sua fede. La vita, propria e purtroppo anche
altrui, conta poco, di fronte all’imperativo di difendere l’identità
individuale o di gruppo.
Angoscia è il nome che spesso si dà alla paura, quando la minaccia
riguarda il nostro stesso io. Distinzione sottile e poco significativa, a
mio parere, perché la paura segnala sempre una minaccia, reale o presunta,
a qualcosa con cui siamo identificati: il nostro corpo, la nostra
immagine, i nostri legami, le nostre idee, il nostro portafogli. E quanto
più noi siamo il nostro corpo, la nostra immagine, eccetera, tanto più
diventiamo cibo per l’angoscia, che si installa stabilmente dentro di noi
e si dedica con solerzia al suo lavoro, che è quello di roderci le viscere.
Vecchia storia, direte voi. Già Seneca scriveva a Lucilio: non confidare
in nulla di ciò che può esserti tolto. Peccato che le cose che ci possono
essere tolte siano di gran lunga le più desiderabili. Tolte queste, che
cosa rimane per cui valga la pena vivere? Anzi, siamo sicuri che rimanga
ancora qualcosa, se togliamo quelle sopraelencate: il corpo, l’immagine, i
legami, le idee, il portafogli?
Ribadisco, se per caso ce ne fosse bisogno, che io non sono sicuro di
niente. Ma, voi mi chiedete, il sottotitolo di questo libro non recita
Istruzioni per l’uso? E dunque, dopo aver evocato la precarietà e caducità
della nostra vita, non sono tenuto a istruirvi sul da farsi?
Giusto. Visto che mi sono preso questo impegno, desidero ora precisarne il
senso e i limiti in modo che voi, una volta terminato di leggere il
capitolo introduttivo, possiate procedere nella lettura con una minima
cognizione di causa o, per la stessa cognizione, abbandonarla.
In sintesi vi ho detto: a) che è possibile distinguere tra paure utili,
che orientano l’azione all’evitamento e alla prevenzione dei pericoli, e
paure superflue o dannose, che paralizzano o inducono a comportamenti
abnormi; ed è pertanto possibile, ma oserei dire necessario, cercare di
fare buon uso delle prime e di sbarazzarsi delle seconde. E b): che con
questo scritto vi invito a partecipare a un’avventura carica di incognite
tanto per voi quanto per me.
Nel punto a) mi presento come un esperto, vale a dire come uno che ha
accumulato una certa esperienza in un certo campo e desidera comunicarla a
suoi simili (istinto tipico dell’Homo sapiens). Converrete con me, spero,
che noi ci distinguiamo dagli altri primati per la facoltà di giovarci -
grazie al linguaggio - dell’esperienza altrui, oltre che per la
straordinaria riluttanza a servirci di questa e in generale delle nostre
specifiche attitudini, in quanto basate sull’uso del raziocinio.
L’esistenza stessa dei libri attesta la fiducia, molto spesso ma non
necessariamente mal riposta, nella trasmissibilità dell’esperienza
mediante carta stampata. Per quanto mi riguarda, ho già detto che non mi
faccio soverchie illusioni. Mi riterrei molto soddisfatto se andasse a
segno, in un piccolo numero di casi, la provocazione che intenzionalmente
lancio e che potrei esprimere così: caro lettore, forse tu possiedi la
rara capacità di guardare in faccia le tue paure con il solo aiuto di chi
ti è vicino e di un manualetto come questo. Se così non fosse, mi auguro
che questo libro ti serva almeno a prenderne atto e ti persuada a cercare
l’assistenza di cui hai bisogno. Nel qual caso avrei da darti qualche
consiglio su come muoverti nella giungla delle psicoterapie senza farti
catturare da qualche predatore e su come negoziare la relazione col tuo
terapeuta, quando ne avrai trovato uno.
Nel punto b) io scendo dalla posizione dell’esperto a quella di colui che
sta facendo un’esperienza, nella fattispecie quella di scrivere. Ho già
chiarito che per me il punto b) è più importante del punto a). Infatti, se
privilegiassi quest’ultimo, il mio obiettivo primario dovrebbe essere
quello di trasmettervi l’esperienza che ho già fatto, e che ho accumulato
e stipato sotto forma di nozioni e concetti. Un’operazione che annoierebbe
anche me, posso immaginare l’effetto che avrebbe su di voi. Se viceversa
antepongo l’esperienza in fieri a quella già avvenuta e cristallizzata, ho
almeno qualche speranza di risvegliare il vostro interesse per un tema che
rispetto al piacere è esattamente agli antipodi.
Bene, credo che questo possa bastare come introduzione. Adesso sapete
pressappoco che cosa potete aspettarvi. Se decidete di andare avanti, lo
fate a vostro rischio. Se invece siete ancora indecisi, niente paura. Vuol
dire che gli elementi che vi ho fornito fin qui non vi bastano e ve ne
servono altri. In questo caso non vi resta che passare al prossimo
capitolo, ma non preoccupatevi: potrete sempre scendere alla seconda
fermata.
II . Cherchez la peur
Congratulazioni, non vi siete fatti scoraggiare nemmeno dal mio richiamo
alla responsabilità. Ci sarà rimasto male chi si aspettava un bagno
vitalista. Il fatto è che la scelta di abbandonarsi al flusso dei pensieri
e delle emozioni, lasciandosi sorprendere a ogni svolta (come suggeriva il
padre Freud) è per l’appunto una scelta, e per di più gravida come poche
di conseguenze.
La conseguenza più importante è che la corrente vitale che in tal modo
avete lasciata libera di fluire assomiglia di più a un fiume limaccioso e
gonfio di detriti che al ruscello ridente e cristallino da voi sognato. Se
ora, spaventati dalla fogna a cielo aperto che avete intravisto, decidete
di ricoprirla pudicamente e di rafforzare la copertura con un doppio
strato di calcestruzzo, avete sì tutta la mia comprensione, ma nessuna
garanzia di una soluzione stabile e soddisfacente del vostro problema
(posto che vogliate ammettere di averne uno).
Infatti la cementificazione dei corsi d’acqua, come dimostrano le
ricorrenti e ingravescenti alluvioni nel bacino dell’Olona, crea più
problemi di quanti ne risolva. Il mio sommesso suggerimento è di prendere
in considerazione l’alternativa più costosa nel breve e medio periodo, ma
più gratificante nel lungo: una bonifica radicale dei vostri fluidi
mentali.
Ora, da che cosa dobbiamo ripulirci, voi e io, se vogliamo ritrovare il
piacere della scrittura, della lettura, del sesso, del lavoro, della
solitudine, della compagnia e di quant’altro faccia parte della nostra
vita?
Volete una risposta classica? Eccola: dobbiamo liberarci dalla nostra
malvagità e perversità originaria, oppure - nella versione psicoanalitica
- dobbiamo addomesticare e civilizzare le pulsioni perverso-polimorfe che
sin dall’inizio intorbidavano la mente del fanciullo tutt’altro che
innocente che siamo stati e che ancora si acquatta impunito dentro di noi.
Se questa risposta vi soddisfa, non vi resta che scegliere il luogo della
vostra penitenza. Non c’è problema, la scelta è ampia e articolata. Potete
scegliere penitenziari antichi, moderni e postmoderni. In questo,
purtroppo, non posso esservi di aiuto, ma non preoccupatevi, troverete sul
mercato tutto quello che vi serve.
Se invece, come spero, la risposta non vi soddisfa, siete pronti per
considerare senza pregiudizi l’ipotesi che segue: alla radice di ciò che
inquina, distorce e corrompe la vostra vita non c’è altro che paura.
E’ un’ipotesi che accogliete con sollievo, perché allontana la prospettiva
penitenziale. Ma anche con sospetto, perché vi sembra di sentire in essa
l’eco della vecchia e sorpassata utopia che assolve con formula piena
l’uomo naturale, accollando tutti i mali all’educazione che lo guasta
terrorizzandolo e reprimendolo.
Tranquilli. Non vorremo certo scartare le cupe ideologie del perverso
congenito solo per cadere nell’opposta melensaggine del buon selvaggio.
Siamo giusti: se rifiutiamo le ideologie, facciamolo fino in fondo e
imparzialmente.
Senza sbilanciarci sulla nostra essenza originaria, ci limitiamo a
prendere atto dell’impasto di inclinazioni buone e cattive che ci
costituisce dall’infanzia in avanti. Ipotizziamo semplicemente nella paura
il fattore cruciale che porta il peggio di noi a prevalere sul meglio.
Questa ipotesi si fonda su un’evidenza: chi è in pace con sé stesso e col
mondo non attacca brighe, non si abbuffa, non affumica sé e il prossimo,
non molesta donne e bambini, non cerca di persuadervi che Gesù è meglio di
Maometto o viceversa.
Comportamenti aberranti di ogni sorta sono comprensibili come sfoghi di
anime tormentate, lo ammetterete senz’altro. Ma come portare un po’ di
sollievo a quel tormento (al vostro, al mio): questo è il problema.
Ecco dunque il filo di Arianna che propongo alla vostra cortese attenzione
perché possiate orientarvi nella labirintica esistenza: cherchez la peur!
Ma, mi affretto a precisare, non in prima istanza. Mi sembra difficile non
condividere il suggerimento di Tolstoj, di cercare prima di tutto la
gioia. Se però questa, come troppo spesso accade, non si fa trovare,
allora cercate la paura.
Insisto sul cercare perché tutti abbiamo paura, ma non tutti sappiamo di
averla. Penso per esempio a Giovanna, che ha con il suo cagnolino un
rapporto di gran lunga migliore che con qualsiasi umano. Un giorno le
dico: “Immagini che ora io mi alzo, vengo a sedermi vicino a lei e le
tocco un braccio. Che cosa prova?”. “Disagio, fastidio”, risponde lei con
una smorfia di disgusto. “Non mi piace il contatto umano”.
Rifiuta il contatto perché l’umanità è inaffidabile. Solo i cani sanno
amare in modo onesto e disinteressato. E’ triste ma è così. Ormai si è
messa l’anima in pace. Ma io in pace non la lascio, e le ripropongo
crudelmente la mia vicinanza immaginaria. “Da che cosa si sente
minacciata?”, le chiedo. “Dalla sua falsità, risponde. Lei è falso, come
tutti. Se si avvicina vuol dire che vuole qualcosa da me. Forse vuole
sesso, oppure è una tecnica che sta sperimentando per vedere come
reagisco”.
Si direbbe che Giovanna sappia bene di che cosa ha paura. Ha paura degli
esseri umani, che sono falsi, rapaci e manipolativi. “Inclusa me stessa”,
aggiunge, perché ha troppa terapia alle spalle per continuare a pensare di
essere l’unica giusta, ma non abbastanza per mettere veramente in dubbio
le sue convinzioni.
“Forse è vero che io sono rapace e manipolativo come tutti gli altri“, le
dico. “Ma non vuole darmi una piccola possibilità?”. “Perché lei dovrebbe
essere diverso? Ne ho viste troppe, da quegli esseri che erano i miei
genitori, a quegli altri che sono stati i miei uomini. Basta così, grazie”.
Giovanna compie un’operazione esemplare. Giustificando la sua paura, la fa
sparire. Come dire: certo che ho paura dei serpenti velenosi, è ovvio.
Basta stare alla larga. Dov’è il problema? Sparito.
Voi direte: ma se questa persona è in terapia, un problema deve pur
averlo. Non crediate che la Giovanna si confonda per così poco. Se a lei
va di farsi due chiacchierate alla settimana con un uomo intelligente come
me, deve inventarsi per questo qualche stupido problema?
Quando dicevo che la gente spesso non sa di aver paura, intendevo questo:
sembra che lo sappia, ma avendola ben incapsulata in qualche difesa a
tenuta stagna è come se non lo sapesse. E’ un sapere solo razionale, più
esattamente razionalizzato, quindi privato di ogni efficacia.
Dunque, in primo luogo la paura deve essere sentita, non solo pensata. Per
questo motivo sottopongo Giovanna al maltrattamento immaginario che vi ho
descritto, e per il quale spero di non essere giudicato troppo male. Anche
perché posso essere ancora più crudele. Infatti, se la mia vicinanza in
immagine non bastasse a scalfire il muro di ragionamenti vuoti dietro il
quale ella è rimasta prigioniera e a produrre una vera esperienza, sarei
capace persino di avvicinarmi a lei in carne e ossa. A patto, beninteso,
che tale movimento sia da me sentito, e non solo pensato: senza di che
sarei prima di tutto in contraddizione con me stesso, e poi non farei che
rafforzare la convinzione di Giovanna di essere sottoposta a una
manipolazione tecnica.
Bene, così vi ho dato un primo assaggio del mio stile di lavoro e nello
stesso tempo la possibilità di affibbiarmi l’etichetta infamante di
terapeuta selvaggio. Infatti, lo sa anche la vostra portinaia (che è molto
ben aggiornata grazie alla posta dello psicologo di quattro riviste
femminili) che le difese si interpretano, e non si aggrediscono
direttamente. Se permettete, vorrei suggerire alla custode del vostro
stabile la lettura di un libro molto istruttivo: Forty-two lives in
treatment, di Wallerstein. Non avrà che da immergersi nelle ottocento
pagine fitte dell’opera, e verrà a conoscenza dei risultati della più
ampia e imponente ricerca che sia mai stata fatta in campo psicoanalitico,
dei quali voglio comunque anticiparle il più saliente: tra ciò che gli
psicoanalisti dicono e scrivono di fare e ciò che realmente fanno c’è un
fossato, una voragine, un abisso.
E’ un dato che può aiutare a non ingoiare troppo passivamente i miti
circolanti. A parte questo, debbo rinunciare a difendermi dal giudizio al
quale da me stesso mi sono esposto, perché per farlo dovrei addentrarmi
dottamente nel campo dell’integrazione tra i diversi metodi di
psicoterapia. Dirò solo che il movimento che mira ad abbattere gli
steccati tra le scuole avanza oggi impetuosamente, ed è tanto fortemente
sostenuto da una parte quanto fieramente avversato dall’altra, con dovizia
di argomenti scientifici da entrambe le parti. Infatti la nostra
disciplina si distingue da altre, più sobrie, perché qui si dimostra
scientificamente tutto e il contrario di tutto.
Ma torniamo a noi: non mi sono allontanato troppo dall’impegno che ho
preso con voi? Spero di no. Io non so ancora che cosa scriverò nelle
prossime pagine, però credo che attingerò spesso e volentieri al mio
archivio professionale perché mi preme trasmettervi questo messaggio:
vedete che cosa vi aspetta, se non vi date una mossa. Se non vi date da
fare per distillare un’esperienza significativa dalla vostra vita di tutti
i giorni, non vi resterà che andare a farvi strizzare il cervello da
qualcuno dei miei colleghi, e che Dio ve la mandi buona. A meno che,
naturalmente, non preferiate continuare a dormire della grossa. Spero che
mi permetterete di parlarvi un po’ più rudemente, adesso che ci conosciamo
meglio.
Siete capaci di mettervi da voi stessi di fronte alle vostre paure, senza
farle sparire dietro difese impenetrabili? Se no, vi consiglio di
utilizzare il modesto aiuto che vi offro. Con Giovanna ho usato un
approccio diretto dopo aver constatato l’assoluta impenetrabilità di
quello interpretativo. In altri casi scelgo la via diretta da subito,
senza farla precedere da cinque anni di interpretazioni. Dipende. Ma
entrambi i modi non sono che varianti professionali di modalità di
rapporto ordinarie, ed è soprattutto per questo che ve ne parlo.
Quando vostra moglie vi dice: “non ti sembra che te la stai prendendo un
po’ troppo?”, dopo un vostro attacco di furore perché gli spaghetti sono
stati scolati con un minuto di ritardo, vi sta trasmettendo un messaggio
che altri chiamerebbero pomposamente “interpretazione di transfert”. Una
formulazione più articolata, ma meno elegante, di esso suonerebbe: “il tuo
bambino onnipotente è fuori dalla grazia di Dio perché la sua mamma, che
dovrebbe essere anche lei onnipotente, lo ha amaramente deluso con una
prestazione ben al di sotto della perfezione”.
Quelli tra voi che hanno alle spalle un’analisi decennale non possono
trattenere un sorriso di commiserazione. “Ma si capisce, dottore. Nella
vita di tutti i giorni si sparano di continuo interpretazioni che possono
anche essere giustissime, e ciò nondimeno restano inefficaci se non
dannose in quanto fornite al di fuori di un corretto setting analitico”.
A quei pochi che non sanno che cosa è il setting, dirò che è quella
particolare situazione che si crea tra un analizzando e un analista, e che
è definita dal luogo, dall’orario, dalla posizione distesa, e in generale
da tutte le regole del gioco che vengono più o meno esplicitamente
concordate.
Obiezione accolta, miei cari. Sapete quello che dite, perché avete
sicuramente assistito a delle liti tra analizzati, se non ne siete stati
voi stessi i protagonisti. Ad esempio: “E’ possibile che dopo vent’anni di
matrimonio, buona parte dei quali in analisi, tu debba continuare a
scambiarmi per tua madre?”, attacca lei. “Non c’è nulla da fare, una donna
non rinuncia mai al suo sogno fallico. E’ la roccia basilare”,
contrattacca lui. Lei: “Lo vedi? Povero bambino, è sempre colpa della
mamma se non cresci mai.” Lui: “Con le mamme che mi sono ritrovato è già
un successo essermi salvato dalla psicosi. Sono orgoglioso di me”.
Obiezione respinta, d’altra parte. Le interpretazioni che il signor Rossi
e signora si tirano addosso l’un l’altra come pietre sono propriamente e
in primo luogo oggetti contundenti. Se vi arriva un sasso sulla testa il
vostro primo impulso non è di vedere se per caso vi è attaccato un
biglietto con un messaggio. E’ verissimo che la comunicazione è difficile
al di fuori di un setting, se con questo termine si intende uno spazio
definito da regole negoziate e accettate dai partecipanti al gioco, e da
un clima che quelle regole permettono di produrre e mantenere. Ma non è
vero che la creazione di tali spazi sia una prerogativa esclusiva degli
analisti o di altri professionisti.
E’ mia convinzione che con un po’ di buon senso e di buona volontà anche
nelle normali relazioni affettive si possano aprire e attrezzare spazi
adatti alla comunicazione trasformativa. Il guaio è che tanto l’uno quanto
l’altra sono beni piuttosto scarsi, in ogni tempo e ad ogni latitudine.
Non mi riferisco a voi, che siete di certo provvisti a sufficienza di
entrambi i beni, come è vero che mi state leggendo.
Ora siete soddisfatti perché ho riconosciuto il vostro buon senso e la
vostra buona volontà, ma vi preoccupate perché non siete sicuri di
disporre di relazioni adatte al lavoro che vi propongo. Mi chiedete se non
può bastare la nostra, di relazione, che è recente ma promette bene. Vi
rispondo che per il momento sì, può bastare, ma è mio dovere avvertirvi
che se la cosa dovesse restare strettamente tra di noi non andremmo molto
lontano. Il fatto è che per quanto buono sia il rapporto empatico che si è
stabilito tra noi, la sua base resta insuperabilmente cartacea. Anche su
questa molto può avvenire, e qualcosa sta già avvenendo, ma non chiedetele
troppo.
Con buona pace di guru e profeti antichi e massmediatici, nulla può
sostituire la relazione diretta tra due individui. Quando siete spaventati
o arrabbiati, il vostro compagno o la vostra compagna, non Buddha o Mosé,
né i libri che narrano le loro imprese, possono sentire e capire quello
che vi sta succedendo e riflettervelo più o meno fedelmente. Conoscersi
senza specchiarsi negli altri è un’impresa quasi proibitiva: la fatica è
doppia, la possibilità di errore dieci volte tanto.
Non avete una compagna? Il vostro compagno legge solo la Gazzetta dello
sport? Mi dispiace, ma se siete interessati al viaggio di cui vi parlo,
avete bisogno di qualcuno che ne condivida il rischio, la fatica e il
piacere. La carta stampata che è sotto i vostri occhi può servirvi come
mappa o carta nautica. Ma la compagnia dovete trovarvela voi.
Non sapete come fare? Va bene, vi darò una mano. Per cominciare,
esaminiamo la vostra motivazione. Che cosa state cercando, esattamente?
Qualcuno che vi protegga, vi rassicuri, vi accudisca, vi rammendi i
calzini? Un uomo che vi faccia sentire amata come Giulietta, una donna
capace di eccitarvi come una geisha? Una ragazza di buona famiglia, un
uomo con una solida posizione? Tutte queste cose assieme? Benissimo, non
c’è niente di male. Ma non accontentatevi di così poco. Cercate anche e
soprattutto un vero compagno o una vera compagna, e pazienza se alcune
delle cose prima elencate mancheranno: sono cosucce, rispetto alla cosa
principale.
Forse non avete ancora trovato la persona adatta perché vi siete persi nei
dettagli. Dovete concentrarvi sull’essenziale: se volete lanciarvi
nell’affascinante e rischiosa avventura della conoscenza di voi stessi,
dovete persuadere qualcuno a venire con voi.
Se invece trascurate l’essenziale e privilegiate i dettagli, potrete
trovare o no quello che cercate, ma, se è vero che fatti non foste per
viver come bruti, sentirete che alla vostra vita manca qualcosa. Vi
aggrapperete alle cose che avete e temerete di perderle. Avrete paura di
non ottenere quello che desiderate o di subire quello che non desiderate.
Vi angoscerà il pensiero di arrivare al momento cui nessuno sfugge senza
aver capito come funziona questo dannato gioco.
Vedete che la paura, se la cacciate dalla porta, rientra dalla finestra.
E’ un soggetto ineludibile. Tanto vale aprirle la porta principale e
invitarla ad accomodarsi. Un elemento così è meglio averlo di fronte che
trovarselo alle spalle.
La paura è ubiquitaria, ma si nasconde molto bene. Si maschera da rabbia,
da noia, da ingordigia, da voglia di trasgressione. E’ così abile nei suoi
travestimenti che da soli difficilmente riuscireste a smascherarla. E
ancor meno a sopportarla.
Vi rinnovo pertanto il mio consiglio: cercatevi un compagno di viaggio. Se
proprio non trovate di meglio, potrete sempre ripiegare su un terapeuta.
Sarà comunque, dovete saperlo, una soluzione temporanea, a meno che non
vogliate restare in terapia a vita. (Certo non siete così ingenui da
pensare che una terapia vi conduca alla meta finale).
Beninteso, la terapia rimane la prima scelta, se le vostre paure sono così
grandi o così ben camuffate da sintomi nevrotici da non poter essere
contenute né trattate all’interno di un rapporto affettivo normale.
Ugualmente, se non potete tollerare uno scambio alla pari e volete tutta
l’attenzione per voi stessi, se non riuscite a trovare una persona alla
vostra altezza (quelle che lo sono, sono già occupate), o se non vi basta
un partner al vostro livello e volete un esperto, in tutti questi casi
probabilmente avete bisogno di un terapeuta professionista.
Spero che nessuno mi faccia questa domanda imbarazzante: conosci molti
rapporti come quello che ci inviti a cercare? In ogni modo, visto che me
la sono fatta da solo, risponderò: pochissimi, in verità. Dopodiché
sospetto che mi domanderete: ma perché ci consigli una cosa così rara e
improbabile?
In primo luogo perché nel mio orizzonte la terapia è l’unica alternativa a
ciò che vi propongo, e non voglio essere accusato di non aver fatto il
possibile per risparmiarvela. Esistono naturalmente altri orizzonti, e
molto più radiosi: vie di salvezza millenarie, promesse di illuminazione e
di nuove età acquariane. Lì non si cammina a tentoni, ma si segue qualcuno
che ha già trovato la luce su un percorso ben tracciato e collaudato. Se
decideste di imboccare una di quelle vie, la vostra scelta avrebbe diritto
a tutto il mio rispetto, ma non potete chiedermi oltre a questo di
consigliarvela: c’è già chi lo fa, il compito che nel grande gioco è
toccato a me è un altro e molto più modesto.
Io mi rivolgo soprattutto a chi, come me, essendo del tutto inabile, per
motivi congeniti o acquisiti, al ruolo di seguace, è obbligato a muoversi
in proprio con il solo aiuto di compagni di strada che di solito non
vedono molto più lontano di lui. Questi compagni possono essere per un
certo tratto dei terapeuti, ma se, come ho detto, non volete restare
pazienti a vita, e non volete nemmeno indulgere, dopo i vostri dieci anni
e passa di analisi, nella pericolosa illusione di essere guariti, la
questione del compagno-non-terapeuta si ripropone inevitabilmente.
A chi non è interessato alla materia, invio i miei più cordiali saluti. Le
nostre strade si separano, ma non si sa mai: potrebbero incrociarsi di
nuovo. Ai pochi rimasti, un arrivederci al prossimo capitolo, dove
cercheremo di avvicinarci al cuore del problema.
III . Sogno o son desto?
Cari amici, permettetemi ormai di considerarvi tali. So bene che un
sentimento amichevole non esclude il suo contrario, anzi. Le cose che vi
ho detto fino a questo momento non possono non aver incontrato la vostra
ostilità. Ma se questa non ha avuto il sopravvento e non vi ha costretto
ad allontanarvi, lo debbo evidentemente a un impulso più forte di segno
contrario. Del quale non abuserò, siatene certi, perché so come è
prezioso, e quanto ne ho bisogno. Non avrei di sicuro la forza di
continuare a scrivere, particolarmente su un tema così sgradevole com’è
quello che ho scelto, se non mi sentissi sostenuto da voi.
D’altra parte, il bisogno che ho del vostro sostegno potrebbe indurmi a
eliminare o ammorbidire quelle parti del mio discorso che rischierebbero
di farmelo perdere. E’ una situazione assolutamente tipica, pronta a
trasformarsi in una trappola micidiale: cosa che quasi ineluttabilmente
accade nell’infanzia, cioè quel periodo della vita che va dalla nascita in
avanti, spesso senza un termine preciso, non di rado senza termine del
tutto.
Eccoci al cuore del problema, come vi avevo promesso. Siamo creature
fragili e bisognose. La paura di perdere il favore delle persone da cui
dipendiamo ci spinge a fare il possibile per accontentarle; o, al
contrario, se odiamo dipendere, per scontentarle. Le conseguenze più
comuni saranno: inibizione, rancore, senso di colpa per i pensieri di
vendetta, paura per le probabili rappresaglie.
Questo è il terribile dilemma che i bambini di ogni età cercano
inutilmente di risolvere: se non li accontento mi rifiutano e io muoio; se
li accontento mi spengo e muoio lo stesso. Non si esce vivi dall’infanzia,
quasi mai.
In realtà le parti amputate non sono estinte del tutto. Giacciono in
uno stato di morte apparente dal quale potrebbero anche risvegliarsi, in
condizioni molto favorevoli. Sono, effettivamente, morte di paura. Perché
di paura si muore, quando non si rimane storpi e sciancati.
In un modo o nell’altro ce l’avete fatta, siete diventati adulti: lo
deduco dal fatto che non state leggendo Topolino. Quella parte di voi che
è sopravvissuta alle traversie dell’infanzia ha conquistato una relativa
autonomia. Avete fatto il vostro ingresso trionfale nel ciclo della
produzione e del consumo, avete un reddito da spendere e da difendere. Ma
soprattutto avete imparato a parlare.
Anche i bambini parlano? Lasciatemi chiarire. L’infante, come sapete, e se
non lo sapete vuol dire che il vostro latino ha bisogno di una
rispolverata, è colui che non parla. Ma attenzione, ci sono diversi gradi
di afasia. Per il principio che noi siamo, in linea di massima, ciò che
mangiamo, chi si nutre solo di fumetti e della pagina dello sport sembra
che parli ma, indipendentemente dall’età, è psicologicamente afasico o
infante. Vale a dire, dispone di un linguaggio rudimentale che gli
permette di distinguere i buoni dai cattivi e di fare il tifo per gli uni
o per gli altri. Se ha paura, sa descrivere il malintenzionato che lo
minaccia o, se il malintenzionato è lui, la polizia che gli è alle
calcagna. Fine. Quello che manca completamente è il linguaggio
dell’esperienza.
Voi lo sapete, che cosa è l’esperienza, ma forse così, su due piedi, non
sapreste definirla. E’ più facile capire che cosa non è. Quando vostro
marito vi dice, per la centesima volta: “Quei bastardi continuano a
mettermi i bastoni tra le ruote”, voi sospirate, perché sentite che qui
non parla l’esperienza, ma un programma cerebrale computerizzato che
elabora gli accadimenti nei termini di un piccolo numero di schemi
stereotipati. Se invece dice: “Sono preoccupato perché non riesco a
intendermi col responsabile degli acquisti”, voi sapete che vi sta
parlando della sua esperienza, e si accende almeno un barlume di interesse.
Forse non ci avete mai pensato, ma intuitivamente siete capaci di
distinguere due tipi di linguaggio: quello del Bene e del Male, e quello
dell’esperienza. Nel primo il parlante è in effetti parlato da un
programma in cui i Valori sono precodificati. Non importa da chi sia stato
scritto (di solito è una congerie di istruzioni che il soggetto ha
assorbito passivamente o si è dato lui stesso), il risultato avrà sempre
la forma di un comando, rivolto a sé o ad altri, la cui trasgressione
configura automaticamente una colpa. Esempi tipici: devo amare i miei
genitori (se non li amo, sono cattivo); devo amare tutti (idem); ho
diritto di essere amato dai miei genitori (se non lo fanno, sono cattivi);
tutti mi devono amare (idem).
Il secondo tipo di linguaggio è utilizzato da chi è in grado di esprimere
un disagio - negli esempi precedenti, il dolore per la mancanza di amore -
senza attribuirlo ipso facto a un colpevole (me stesso o qualcun altro, il
destino o un difetto di serotonina nelle mie sinapsi). E’ di gran lunga
meno popolare del primo, a tutti i livelli. Mentre il linguaggio dei
Valori conosce a priori la causa di ogni sofferenza, e quindi non ha mai
bisogno di cercarla, il secondo è detto (da me) dell’esperienza perché è
l’unico a consentirla, non dando nulla per scontato.
L’esperienza è ciò che percepite, sentite, volete e pensate in questo
momento. Sembrerebbe semplice: tutti hanno un’esperienza, direte voi, a
meno che non stiano dormendo profondamente o non siano in coma. Invece no.
Nella semplice definizione che vi ho appena proposto c’è una clausola cui
forse non avete dato troppa importanza: in questo momento. Credete che sia
facile essere qui e ora? La gran parte di noi, per la gran parte del
tempo, non lo è: siamo altrove, là dove per noi il tempo si è fermato.
Questo altrove può essere detto infanzia, il che spesso è vero alla
lettera, nel senso che vediamo le cose e reagiamo ad esse come abbiamo
imparato a fare da piccoli. Se poi il programma stereotipato che a nostra
insaputa ci governa non lo abbiamo appreso quarant’anni fa dai nostri
genitori, ma quattro mesi fa da Pippo Baudo, capite bene che non fa molta
differenza.
Con queste premesse siamo meglio attrezzati per addentrarci nel nostro
tema. Supponiamo che vostra moglie, dopo la vostra ennesima scenata per
gli spaghetti scotti, non vi fornisca la risposta pacata cui siete
abituati, ma vi comunichi la sua decisione di fare le valigie. Questa
volta avete proprio esagerato. Un leggero capogiro, e la sensazione che il
sangue abbia smesso di irrorare i vostri territori cutanei, vi avvertono
che state prendendo sul serio la minaccia. In altre parole, avete paura.
Che cosa fate? a) Sopraffatti dal senso di catastrofe, implorate vostra
moglie di non lasciarvi, le giurate che la sua cucina è eccellente e
invocate il suo perdono. Lo ottenete e vi trasferite in camera da letto
per celebrare la riconciliazione. b) Superate il momentaneo smarrimento,
rialzate la testa e rilanciate: ma sì, vai pure, non sarà così difficile
trovare una donna che sappia cucinare gli spaghetti. c) Riconoscete di
aver paura, ma riuscite a tenere i piedi per terra. Ragionate: se un
rapporto è sano, non si rompe per un banale litigio; che dunque è la spia
di un malessere più profondo, su cui è urgente indagare.
Non avete avuto la minima difficoltà ad attribuire le prime due risposte
all’universo dei comportamenti infantili e la terza al registro adulto. Lì
la paura è immediatamente decodificata da un programma che in men che non
si dica vi porta all’identificazione del colpevole (voi o vostra moglie).
Qui è utilizzata per iniziare e sostenere una ricerca sui motivi di un
dissidio che pur essendo banale è realmente minaccioso, finché non ne sarà
scoperto il significato.
Vedete dunque che per imboccare l’unica strada che non vi riporta nella
palude infantile non avete che da installarvi nella vostra parte già
cresciuta, per piccola che sia, e di lì osservare con estrema attenzione
le manovre dell’altra parte, purtroppo molto più estesa. Ma non
preoccupatevi: se avete seguito il mio consiglio, e avete stipulato con
vostra moglie un’alleanza di lavoro finalizzata alla bonifica delle
rispettive paludi, avete già quasi tutto quello che vi serve. Il resto lo
troverete nel prosieguo.
Come dite? Non sapete come fare per installarvi nei vostri territori
adulti (della cui esistenza, per quanto ridotta, comunque non dubitate)?
Eppure la vostra stessa domanda mostra che siete sulla strada giusta. Vi è
mai capitato, nel bel mezzo di un sogno, di essere colti dal sospetto che
si tratti proprio di un sogno, e di porvi di conseguenza la fatidica
domanda: sogno o son desto? Se vi è capitato, saprete che è sufficiente
osservare con attenzione la qualità dell’esperienza per capire se state
sognando o siete svegli. Normalmente scambiamo per realtà i nostri sogni
solo perché il dubbio non ci sfiora.
Se, nel momento in cui vi rendete conto di sognare, non vi svegliate,
entrate in uno stato di coscienza particolare che si chiama sogno lucido.
Se l’avete provata, sapete che è un’esperienza affascinante, e forse vi
siete chiesti se è possibile riprodurla a volontà. Ebbene sì, è possibile.
Per ottenerla sono state escogitate diverse tecniche, una delle quali
consiste nel praticare la lucidità anche nella vita di veglia.
Perché, naturalmente, essere svegli non equivale a essere lucidi, cioè
consapevoli o presenti a sé stessi. Di solito non lo siamo da svegli più
di quanto lo siamo dormendo. Nella vita cosiddetta di veglia noi
brancoliamo per lo più in uno stato semiipnotico o sonnambolico, guidati,
se di guida si può parlare, dal pilota automatico di turno. Come già
qualche secolo fa un poeta ha cercato di farci vedere, la nostra vita è
composta dello stesso tenue materiale di cui son fatti i sogni. Pertanto
la stessa domanda - sogno o son desto? - che apre l’accesso alla lucidità
notturna è molto appropriata anche nella nostra esistenza diurna, di
veglia apparente.
Come di notte, nemmeno di giorno ci viene il sospetto che stiamo dormendo
in piedi, cullati dai nostri sogni o perseguitati dai nostri incubi. Ma la
domanda ci scuote dal letargo, insinuando il dubbio nella nostra mente
impigrita. E’ proprio vero che non posso vivere senza questa donna e
quindi sono in balia dei suoi capricci? O, all’opposto: sarà vero che
questa vita di single mi va a pennello, perché sono uno spirito libero e
il bisogno di una relazione stabile me lo sono lasciato alle spalle?
Ecco un piccolo elenco di sogni e incubi molto comuni. Non devo lasciarmi
avvicinare, altrimenti penseranno che non sono una donna seria. Tutti gli
uomini vogliono solo quello. Tutte le donne ci stanno, se hai gli
argomenti giusti (io purtroppo non li ho). Se fallisco nel mio lavoro,
sono un uomo finito. La vita deve essere sempre frizzante. Prendo in
considerazione solo gli uomini di cui sono innamorata (e mi innamoro solo
di uomini sbagliati). Devo salvare la mia immagine, perché dietro non c’è niente.
D’accordo, non è così facile. Quando il sonno è profondo, i sogni sono
terribilmente convincenti. Lo avete constatato più volte con i sogni degli
altri, se avete provato a svegliarli. Per quanto angoscioso sia un incubo,
chi ne è afflitto sembra straordinariamente riluttante a liberarsene.
Provate a contraddire un depresso: vi dimostrerà che la sua indegnità non
è un’opinione, ma un dato di fatto comprovato e assodato. In realtà la sua
stessa certezza dimostra precisamente che sta dormendo: se cominciasse a
dubitarne, sarebbe il primo segno di risveglio.
Molte persone, è vero, sembrano del tutto incapaci di mettere in
discussione le loro verità. Ma sono certo che voi non siete tra queste:
dovete essere almeno un po’ svegli, per capire che per la maggior parte
del tempo non lo siete. Certo, anche voi avete le vostre convinzioni. Però
non siete così timorosi da tapparvi le orecchie per non rischiare
smentite. Anzi, siete forse disposti a mettere alla prova questo criterio
che vi suggerisco: quanto più indiscutibile vi sembra il vostro punto di
vista, tanto più profondo è il sonno in cui siete immersi.
Questo vi ricorda qualcosa? Forse vi viene in mente la sentenza
dell’oracolo in cui Socrate è dichiarato l’unico sapiente, poiché è
l’unico a sapere di non sapere. Basta sostituire il sonno con l’ignoranza
e la sovrapposizione è perfetta. Se l’avete pensato, vi prego, non ditemi
che adesso voglio atteggiarmi a sapiente. Al massimo potete accusarmi di
voler fare il filosofo, cioè di vestire i panni di colui che sapiente non
è, ma amando la sapienza si permette di fare tutte le domande che per la
buona educazione e le convenzioni stabilite non si dovrebbero fare. Da
questa imputazione non mi difenderei, anzi ammetterei senz’altro la mia
colpa; ma aggiungerei che se mi do all’esercizio abusivo dell’arte
filosofica non è perché mi attribuisco meriti o capacità speciali, ma solo
perché ogni terapeuta, che lo sappia e lo voglia o meno, fa della
filosofia pratica, e non può non farla.
Sapete tutti che la psicoterapia moderna è nata con Freud, e forse sapete
anche che non è stata una nascita facile. Una difficoltà che la neonata si
è trovata subito di fronte, o più esattamente addosso, è stata l’abitino
analitico che suo padre le ha amorevolmente confezionato e ha voluto a
tutti i costi che indossasse come unico indumento, anche se le stava
evidentemente un po’ stretto. Certo il babbo premuroso si rendeva conto
che la piccola mostrava inclinazioni e tendenze che quel vestitino non
poteva coprire né favorire, ma questo non bastava a suggerirgli
l’opportunità di modificarlo. Al contrario, era profonda convinzione del
genitore che tutto ciò che si poneva in contrasto con il canone analitico
non potesse derivare che da cattive abitudini che la bimba aveva purtroppo
ereditato dai suoi antenati, e che una ferma e rigorosa educazione avrebbe
dovuto proporsi di estirpare. La parola suggestione, che nessun analista
ben formato può sentire senza provare un moto di disgusto, è stata
adottata per indicare sbrigativamente l’insieme di tutte quelle
inclinazioni viziose delle quali non vale la pena di occuparsi in dettaglio.
Il padre della psicoanalisi era, ideologicamente, un progressista: una di
quelle persone che identificano il male con l’originario (il bambino è un
perverso polimorfo) e il bene con il progresso ottenuto addomesticando e
civilizzando la sostanza primitiva e animalesca che alla base ci
costituisce (l’ideologia opposta, tradizionalista, colloca il bene
all’inizio e il male in tutto ciò che ha smarrito la connessione con la
radice originaria). Chi scrive ha con le ideologie, di qualsiasi tipo, un
rapporto difficile. Nel corso della sua esistenza ha provato più volte a
sposarne una, essendo questa la condizione richiesta per essere ammessi
nelle scuole e nei circoli culturali nei quali gli sarebbe piaciuto
accasarsi. Una idiosincrasia invincibile lo ha costretto tuttavia alla
separazione e al divorzio in tutti i casi. Impossibilitato ad aderire a un
sistema di pensiero che gli avrebbe garantito a priori una minima
conoscenza del bene e del male, è obbligato, nell’esercizio della sua
professione, a chiedersi a ogni passo: che cosa andrà bene in questo
momento? di che cosa ha bisogno questa persona in questa seduta? che tipo
di risposte posso e debbo cercare di dare?
E’ vero, non tutti i terapeuti soffrono di questa idiosincrasia. Coloro
che, più fortunati di me, possono basarsi sul sicuro fondamento di una
dottrina, non debbono farsi troppe domande. Sanno, già in partenza, che il
paziente non ha bisogno d’altro che di buone interpretazioni di transfert;
o di una sana risonanza empatica; o di un nuovo apprendimento che corregga
il mal’apprendimento precedente; o di un’altra cosa, scelta in un elenco di
alcune decine, a seconda della scuola di appartenenza (del terapeuta
ovviamente, non del paziente; ma si intende che i bisogni di questo
debbono coincidere con quanto previsto dalla scuola di quello).
Poiché tuttavia i pazienti, pur facendo del loro meglio, non riescono
quasi mai a trasformarsi completamente nel tipo di paziente che il modello
del loro terapeuta esige, si produce di regola uno scarto più o meno ampio
tra la teoria e la pratica. In questa terra di nessuno ha luogo
immancabilmente un braccio di ferro o una sorda e a volte vivace contesa
in cui il terapeuta cerca di persuadere il paziente che il suo rifiuto di
sottomettersi ai canoni del metodo non è altro che una volgare resistenza,
mentre il paziente cerca di emancipare il terapeuta dalla devozione codina
al modello dei suoi padri.
L’esito della lotta è incerto e aperto a molte soluzioni, dalla
capitolazione di uno dei due alla rottura traumatica. Quale che esso sia,
in questa zona marginale sottratta alla legislazione vigente avviene un
confronto che può essere la cosa più importante dell’intero trattamento e
che, nei casi in cui porta a uno sviluppo del processo, ha una sicura
qualità filosofica, per quanto i partecipanti al colloquio possano
ignorarlo, come quel borghese gentiluomo che ignorava di parlare in prosa.
Infatti, in quello spazio della relazione che si apre grazie al fatto che
entrambi gli opponenti rinunciano a far valere le loro pretese affettive o
ideologiche, si può finalmente instaurare un dialogo tra due persone che
hanno messo da parte la loro convinzione di sapere, e quindi sono disposte
ad ascoltare e a interrogarsi. Qui si pongono le domande che contano: che
senso ha il nostro incontro? che cosa chiediamo, l’uno all’altro? dove
vogliamo andare? che rischi siamo disposti a correre, quali prezzi
possiamo pagare?
Sull’onda delle domande precedenti ne faccio ancora una: non credi, caro
lettore, che le stesse questioni si pongono anche, e a maggior ragione,
nella tua vita di tutti i giorni, nei tuoi rapporti, e specialmente in
quello di coppia? Lo so, è una domanda retorica. Tu e io lo sappiamo
benissimo che quelle domande si pongono e anzi s’impongono, se solo gli
diamo lo spazio necessario. Il fatto è, naturalmente, che troppo spesso
glielo lesiniamo, oppure lo chiudiamo del tutto con risposte stereotipate.
Del resto è comprensibile: se permettiamo a quelle domande di sprigionare
tutto il loro potenziale eversivo, dove andremo a finire? Che ne sarà dei
nostri precari equilibri, di quelle poche certezze su cui abbiamo basato
la nostra capacità di sopravvivere in questo mondo in cui siamo stati
inesplicabilmente gettati? Non per niente Socrate, che faceva troppe
domande, fu messo definitivamente a tacere dai concittadini allarmati.
Ricapitoliamo. Siamo partiti dall’identificazione dell’infanzia come luogo
proprio della paura. Infanzia come debolezza, fragilità, dipendenza. Ma
anche, e soprattutto, come incapacità di dire l’esperienza essenziale (ho
fame, ho paura, mi piace, fa male) al netto della distorsione prodotta dai
giudizi che creano vittime e carnefici, colpevoli e innocenti, sventure e
destini. Infanzia, quindi, come sonno della ragione, come permanenza
prolungata in un mondo oniroide popolato dai fantasmi generati e nutriti
dall’immaturità.
Il cammino di liberazione dalla paura sembra dunque segnato: non può che
coincidere con quello che porta alla crescita e al risveglio. E allora
perché non lo imbocchiamo con decisione, grati a chi ce lo mostra e
anteponendolo a ogni altra meta? Al contrario, qualsiasi altro obiettivo
ci sembra più urgente e desiderabile, perché la strada che abbiamo davanti
a noi fa più paura delle paure dalle quali ci dovrebbe liberare. Dovendo
scegliere tra spaventi vecchi e nuovi, preferiamo tenerci quelli cui siamo
almeno abituati.
Ma che cosa c’è di così temibile nella crescita e nel risveglio? Una prima
risposta è questa: il prezzo da pagare è l’abbandono dei sogni che, se da
un lato ci spaventano, dall’altro sono tutto quello che abbiamo, fintanto
che perdura il nostro soggiorno in quel mondo. Se volete liberarvi dalla
paura che vostra moglie vi tradisca o vi lasci, dovete rinunciare all’idea
di avere vincolato, con regolare contratto matrimoniale, una fonte di
rassicurazione materna in servizio permanente. Non potete conservare una
faccia della medaglia e buttare via l’altra.
Una seconda risposta considera la condizione di anestesia e di morte
apparente con cui siamo emersi dall’infanzia. Lo scioglimento delle
emozioni congelate ci riporta direttamente sulla scena delle tragedie
infantili dalle quali pensavamo di essere usciti una volta per tutte.
Invece no: ci ritroviamo piccoli, bisognosi, impotenti e furiosi. E’
qualcosa che non avevamo messo in preventivo: per crescere non si può fare
a meno di tornare al momento in cui la crescita si è malauguratamente
interrotta. Cosa che ci può apparire così incresciosa, e così umiliante,
che preferiamo lasciar perdere.
Da quanto precede si può ricavare la seguente legge generale: è molto
improbabile che qualcuno decida di abbandonare i propri sogni a meno che
questi non si siano già trasformati in incubi. O, in altre parole: è ben
difficile che qualcuno decida di svegliarsi fintanto che i suoi sonni non
sono troppo disturbati. L’individuo cui questo non è ancora accaduto è
detto, nel nostro gergo, normopatico. Una persona che può anche essere
relativamente innocua, a meno che non si metta in testa di diventare
terapeuta, non l’abbiate sposata, o non pretendiate di instaurare con lei
un dialogo qualsivoglia.
Ma tra voi, miei cari, la quota di normopatici non può che essere
irrisoria (non arrivo a dire nulla, per lasciarvi almeno un piccolo
dubbio). Infatti per il normopatico la paura non è un problema. Lui ha
solo paure reali e legittime, come quelle dei ladri, della crisi economica
o di una visita della finanza. Delle sue paure profonde non sa nulla,
perché le ha ibernate nel reparto a tre stelle del suo frigo molto tempo
fa, e poi se ne è completamente dimenticato.
Poiché non è questo il vostro caso procediamo, amici, affratellati dalla
comune condizione di semi-svegli, nel nostro viaggio.
IV . Polli metropolitani
Non sono sordo né insensibile alle vostre proteste. Avevate apprezzato la
mia libertà di pensiero e indipendenza di giudizio, e ora vi deludo perché
parlo come uno psicoanalista qualsiasi che riduce tutto all’infanzia, come
se non esistesse una realtà attuale, come se una persona adulta non avesse
diritto ad avere dei problemi senza sentirsi dire che il vero problema è
che non è cresciuta.
Vi viene il sospetto che io viva in un mondo a parte, che non sia in
contatto con la realtà quotidiana in cui vivete voi, che non sappia che
cosa vuol dire far quadrare il bilancio per arrivare alla fine del mese.
Gli incubi immaginari di cui mi occupo io sono altra cosa rispetto
all’incubo molto reale di perdere il posto di lavoro. Lo so, io, che cosa
significa questo?
Cercherò di riconquistarmi la vostra fiducia sottoponendovi un altro
frammento della mia biografia, cosa che un vero psicoanalista non farebbe
mai. Vi ho già parlato della mia incapacità di appartenere che mi ha
impedito di diventare un seguace di qualsiasi scuola o setta, benché ci
abbia provato più volte. Il desiderio del tepore del gregge combinato con
il rifiuto di farne parte ha prodotto un destino di spaesamenti e
peregrinazioni che ha richiesto diversi anni per consumarsi. Mi ci è
voluto un bel po’ di tempo per riconciliarmi con la condizione che è
sempre stata mia: quella del viaggiatore che non ha guide né maestri, a
parte il suo demone, ma solo compagni di viaggio.
Se la mia sia una modalità di esperienza in sé valida e legittima, o
piuttosto una scelta luciferina, o magari un disturbo narcisistico della
personalità, non posso essere io a dirlo. Io la mia idea me la sono fatta,
voi fatevi la vostra. Ma vengo al punto. Avendo avuto cura di sciogliere i
legami con tutti i maestri e le scuole che ho incontrato sulla mia strada,
mi ritrovo oggi molto libero, cosa di cui sono felice, e piuttosto
isolato, cosa di cui lo sono meno. Anche perché questo mi colloca, secondo
gli studi prospettici di settore, in un gruppo a rischio.
Dovete sapere che in tutto il mondo civilizzato il rapporto tra domanda e
offerta di psicoterapia si sta abbassando continuamente e inesorabilmente.
La previsione è che nel prossimo decennio una frazione non irrilevante di
coloro che oggi esercitano questa professione dovrà trovarsi qualcos’altro
da fare; essendo gli atipici come me, fuoriusciti dai circuiti
istituzionali, ovviamente i più esposti a tale evenienza.
Ebbene, amici, la triste realtà è che la mia occupazione è a rischio
quanto e più della vostra. Con l’aggravante che io ho passato i cinquanta
e non so fare altro. Se pensate che la cosa mi inquieti, avete
perfettamente ragione. Debbo fronteggiare, come voi, una minaccia non
immaginaria. Che posso fare? Rientrare in qualche ovile, non se ne parla
nemmeno: anche se volessi, non ho più l’età. Se d’altronde potessi, non
vorrei, perché non sono minimamente pentito: rifarei tutto quello che ho
fatto e ridisferei tutto quello che ho disfatto.
E allora? “L’importante, amico mio, è scavarsi una nicchia e resistere”, è
scritto su un biglietto di auguri che ho ricevuto per il mio compleanno. E
come si fa a scavarsi una nicchia? Come fanno tutti, in questi frangenti:
si fonda una scuola. Si scrive un libro in cui si dimostra che il proprio
modello è superiore a tutti gli altri, si raccolgono e si organizzano i
seguaci. Così, dopo aver passato la vita a scontrarmi con i seguaci di
tutte le scuole, dovrei fondare la mia e indurre qualcuno a seguirmi. Mi
attira di più l’idea di passare il resto dei miei giorni in un monastero
del Ladakh (regione himalayana).
Ma c’est la vie, obiettate voi. La vita sociale è organizzata in
parrocchie, partiti, clan, logge, associazioni pubbliche e private. Se non
sopporti di essere un gregario devi fare il leader, è la legge del branco.
Lo capisco, e fino a un certo punto persino lo apprezzo. Tuttavia, abbiate
pazienza: anche tra i lupi si trovano esemplari che preferiscono starsene
fuori.
In ogni modo, un libro lo sto scrivendo lo stesso: quello che voi state
leggendo. Mentre colgo l’occasione per ringraziarvi della fiducia che mi
avete accordato fino a questo momento, mi viene un dubbio. Se vi invito,
come ho fatto, a seguirmi nell’esplorazione delle vostre e delle mie
paure, non sto per caso cercando subdolamente di procurarmi anch’io dei
seguaci, nonostante abbia appena affermato il contrario? Spero di no;
comunque è meglio che stiamo tutti in guardia, non si sa mai.
Anche se non è rivolta a fini così riprovevoli, la stesura di questo testo
è ugualmente collegata al tema: nel senso che la paura non ne è solo
l’oggetto dichiarato, ma anche il movente. Infatti, che cosa fareste voi
al mio posto? Data l’incertezza che grava sul vostro futuro professionale
non tentereste di riciclarvi in qualche modo? Ebbene, è proprio quello che
cerco di fare. Tra i fattori che mi hanno spinto a scrivere c’è anche, lo
ammetto, la fantasia di prepararmi un’alternativa come biblioterapeuta,
nel caso la professione di psicoterapeuta un giorno non tanto lontano non
mi desse più abbastanza da vivere.
Lo so, è una fantasia che andrebbe tenuta nascosta, perché appena portata
alla luce si rivela in tutta la sua miserevole inconsistenza. Il fatto è
che nella mia situazione (e forse anche nella vostra) le alternative sono
tutte un po’ evanescenti, e in qualche modo bisogna pur darsi da fare. La
paura ci segnala un pericolo reale, anche se non immediato, e ci induce a
prendere i provvedimenti idonei a scongiurarlo. Tutto ciò che possiamo
fare sul piano di realtà, lo facciamo. Ma se, come nel mio caso, su questo
piano non c’è molto da fare, ci conviene considerare la questione da
un’altra angolatura.
Adesso siete perplessi. Esiste un altro piano, oltre a quello di realtà? A
parte l’immaginario, naturalmente. Cerchiamo di intenderci. Fino a questo
momento abbiamo considerato un universo bidimensionale. C’è la realtà, in
cui le cose sono quello che sono, e c’è l’immaginario, in cui le cose sono
quello che ci piacerebbe oppure temiamo che siano. Il mondo in cui siamo
sobri, e il mondo dei sogni e degli incubi. L’esperienza adulta e quella
infantile. Che altro può esserci?
Un’altra dimensione dobbiamo presupporla. Io sono uno psichiatra, ma sarei
potuto essere un cardiologo, un omeopata o un idraulico. Tra tutte le
possibilità che erano ancora aperte prima che facessi una scelta, una si è
realizzata. Tutto ciò che è reale, lo è in quanto tra infinite possibilità
se ne è realizzata una. Ne consegue che è opportuno considerare tre mondi:
Le due frecce tra il cerchio centrale e quello di sinistra stanno a
indicare i due flussi di un traffico regolato dalla legge già esaminata:
il dominio del desiderio e della sua ombra inseparabile, la paura, ci
proietta veloce come il lampo nell’immaginario, mentre la sospensione dei
giudizi condizionati da queste e altre emozioni ci riporta, ma ahinoi più
lentamente, nella realtà.
Quando il nostro piede poggia ragionevolmente fermo e stabile nel
territorio di mezzo, la paura diventa un segnale utile. Ci avverte dei
mille pericoli che insidiano la nostra vita in questo mondo e ci aiuta a
neutralizzarli. Ma se in questa lotta quotidiana pensiamo di avvalerci dei
mezzi e delle risorse che troviamo intorno a noi, e solo di quelli,
arriviamo ben presto a scoprirne l’insufficienza. Il controllo che
possiamo esercitare sugli avvenimenti da cui dipendono il nostro benessere
e la nostra stessa sopravvivenza è penosamente al di sotto del livello che
ci farebbe sentire al sicuro.
Se con un lavoro lungo, paziente e mai del tutto compiuto ci siamo
conquistati una relativa autonomia dalle paure infantili e abbiamo preso
un domicilio non troppo aleatorio nella realtà adulta, è solo per scoprire
che anche qui la paura imperversa. E come nel mondo immaginario non si
trovava la chiave per venire a capo dei problemi che colà si presentavano,
tanto che per cercarla abbiamo dovuto uscirne e trasferirci nel mondo che
ora abitiamo; così di nuovo ci sembra di affannarci inutilmente nel
tentativo di risolvere problemi che nella nostra nuova casa non hanno
soluzione alcuna. Uno stato di cose che Freud sintetizzò da genio qual
era, quando osservò che il compito della psicoanalisi è quello di
trasformare una infelicità nevrotica in una infelicità ordinaria.
Siamo usciti dalla trappola dell’immaginario, siamo approdati al reale, ma
non ci stiamo tanto bene. Non possiamo credere che sia questa, così
angusta e inospitale, la nostra dimora definitiva. Ci chiediamo se esista
una via di uscita che non coincida con una regressione all’immaginario.
Tentiamo di riconnetterci alla sfera delle infinite possibilità.
Bion, uno psicoanalista inglese ma nato in India, ha felicemente indicato
con la lettera O quel mondo: O come origine, O come infinito e come zero,
come generatività senza limiti e come ignoto. Noi possiamo conoscere solo
ciò che si è realizzato, e quindi appartiene alla realtà. Di ciò che è
ancora nella mente degli dei non sappiamo nulla.
Ancora più felicemente Bion ha escogitato la formula “F in O” per
designare l’atteggiamento mentale che apre l’accesso a quel mondo. F sta
per fede, e questo spiega l’irritazione dei suoi colleghi di scuola
kleiniana (una delle tante sette psicoanalitiche), cui anche Bion
apparteneva, che lo accusarono di aver voluto restaurare la religione,
un’illusione senza avvenire. Ma ai suoi critici l’anglo-indiano faceva
giustamente osservare che ciò che è essenziale, per lo psicoanalista, è
l’affidamento a un vuoto di sapere che gli consenta di udire l’inaudito
senza bisogno di ridurlo al già noto. Se questo spazio di ascolto viene
riempito da un credo, scientifico o religioso che sia, la sua funzione è
perduta.
Una fede senza credo, ecco una chiave che sarebbe assai utile agli
psicoanalisti (molti di loro non la conoscono o non sanno usarla), ma
soprattutto a noi, se impareremo a servircene. Permettetemi quindi di
anticipare la vostra obiezione. Per potersi fidare dell’ignoto bisogna
presupporre che l’ignoto sia affidabile: e come si fa a considerare tale
un quid che non si conosce? Certo, la conoscenza può essere surrogata da
un credo, per chi si accontenta. Ma forse voi siete più esigenti, mentre
io, come già sapete, non ne sono capace.
E allora? Io parto da quello che ho: l’esperienza. Quella professionale,
per cominciare. Una persona viene da me e mi chiede di liberarla da questo
o quel sintomo o di risolverle questo o quel problema o di darle tutto
l’amore che nessuno le ha mai dato. Nel più breve tempo possibile e senza
toccare i suoi equilibri né mettere in discussione le sue scelte. In un
periodo variabile da poche settimane a diversi anni questa persona scopre
che non può ottenere da me quello che mi chiede. A questo punto mi lascia
e va a cercare qualcun altro più competente di me. Oppure si arrende e
inizia a collaborare, inaugurando in tal modo la terapia vera e propria.
In effetti la resa del paziente è necessaria, ma non sufficiente. Perché
la terapia inizi davvero occorre, oltre a questa, anche quella del
terapeuta. L’aveva già capito nostro padre Freud, che immaginava di poter
arrivare un giorno a comprendere ogni cosa nei termini di una psicologia
scientifica da lui chiamata metapsicologia, ma che, va detto a suo onore,
non era affatto schiavo di questa sua fantasia. Infatti era capace di
riconoscere che
“la riuscita migliore si ha nei casi in cui si procede senza intenzione
alcuna, lasciandosi sorprendere ad ogni svolta, affrontando ciò che accade
via via con mente sgombra e senza preconcetti”.
Quando paziente e terapeuta sono pronti a rinunciare alle rispettive idee
fisse, soprattutto quelle scientifiche o religiose o altrimenti
metafisiche, che sono le più insidiose, può prendere l’avvio un corso di
eventi orientato al risanamento e alla crescita: un processo che, una
volta neutralizzati i desideri e le teorie dell’una e dell’altra parte,
può essere guidato dalla sua logica interna. Occorre, in altri termini, un
capovolgimento di prospettiva, che non è più: che cosa noi chiediamo alla
terapia, ma: che cosa la terapia chiede a noi. Si può osservare lo stesso
passaggio anche in altri ambiti. Per esempio si potrebbe dire che con la
transizione da: che cosa noi chiediamo al matrimonio, a: che cosa il
matrimonio chiede a noi, finalmente comincia, le rare volte che comincia,
il vero matrimonio.
Lo spostamento di accento dal terapeuta alla terapia, dal marito al
matrimonio, e in generale dall’individuo alla relazione, implica il
riconoscimento di una priorità del tutto rispetto alla parte. E’ un
riconoscimento cui il nostro ego (la parte) resiste con tutte le sue
forze. Come, domanda incredulo: non sono io la cosa più importante, la
cosa originaria, il centro intorno a cui tutto deve girare? Con tutta la
fatica che ho fatto per ridimensionare i miei sogni e trasformarli in
progetti realistici, che cosa si vuole ancora da me? Mi dite che dovrei
subordinarmi alla logica di un processo che non ho prodotto, non determino
e non controllo. Insomma, mi volete morto?
Una morte simbolica, una mortificazione della pretesa di sovranità e
centralità dell’ego è il prezzo da pagare per riattivare il processo
generativo. Ma precisiamo subito: perché l’io decida il suicidio
(simbolico), bisogna che in primo luogo esista. Vale a dire, che non sia
un’ipotesi vaga e vagante, un ectoplasma gelatinoso e camaleontico pronto
a identificarsi con qualsiasi oggetto o comando; e nemmeno
un’immedesimazione fissa e tenace con uno o più personaggi della galleria
infantile.
L’io che può decidere di farsi da parte è un io abbastanza adulto,
compatto e ragionevole da capire che gli conviene farlo. Un io che ha
abbandonato le illusioni grandiose, come anche i sensi di colpa
catastrofici dell’esistenza infantile. Che ha messo i piedi a terra e ha
lottato e lavorato sodo per realizzare i suoi progetti. Tanto sodo e tanto
seriamente da arrivare alla triste, per quanto tardiva, scoperta che la
sua vita non è nelle sue mani. Qui l’ottimismo della volontà alla fine
s’infrange (dopo che già da un pezzo il pessimismo si era impadronito
della ragione).
Non voglio dire che un uomo non possa realizzare alcuni progetti:
certamente può, se è sufficientemente determinato e se le condizioni non
sono troppo avverse. Dico solo che la determinazione e la fortuna non sono
mai così grandi da rendere credibile, altro che occasionalmente, la
rappresentazione di un mondo che si lascia governare dalla sana ragione e
dalla buona volontà (per lo meno dalla ragione mediamente sana e dalla
volontà mediamente buona della persona mediamente adulta, quale voi e io
siamo).
A questo punto siamo di fronte a un’alternativa secca: se i nostri sforzi
da soli non ci forniscono un controllo apprezzabile sul corso della nostra
vita, o ci rassegniamo alla sua sconfortante mancanza di senso, o troviamo
un senso in qualcosa che non dipende (unicamente) dai nostri sforzi. La
seconda ipotesi corrisponde all’idea che la vita abbia una sua logica
propria, e che con questa logica sia possibile in misura maggiore o minore
sintonizzarsi, abbandonando il tentativo di imporre agli eventi la nostra.
Se, per esempio, Giacomina si lamenta di non riuscire mai a trovare l’uomo
giusto, nessuno di noi è disposto a credere che sia sfortunata. Siamo
tutti convinti che in realtà lei sta cercando l’uomo sbagliato. Pensiamo
che le occasioni giuste non mancherebbero, se solo il suo sguardo non si
posasse sprezzante su tutti i candidati che non corrispondono al modello
che lei ha in mente.
Nessuno di noi avallerebbe la sua tesi sulla penuria di veri uomini.
Mancano di sicuro i veri uomini, per come lei li intende: forti, sicuri e
appassionatamente innamorati di lei. Ma non scarseggiano i partner
potenzialmente adatti a lei: ecco una prima intuizione del mondo delle
(virtualmente) infinite possibilità. Siamo anche convinti che la nostra
amica non dovrebbe andare a cercarsi il suo uomo con il lanternino.
L’incontro avverrebbe più o meno per forza propria, non appena lei se ne
rendesse disponibile.
Ora, mettiamo che questo sia già accaduto. Giacomina si è arresa, ha
abbassato le pretese e tirato su la claire, e ha trovato subito il suo
Peppino, che era lì che la stava aspettando. Un bravo ragazzo,
intelligenza, aspetto e posizione nella media, giustamente insicuro e
problematico come lei. Si sono messi assieme.
Sono due ragazzi modesti, il loro rapporto è modesto come loro. Si
sposano, mettono al mondo dei figli, tirano avanti. Ma non sono contenti.
Sentono che manca qualcosa, non è quello che si aspettavano. Giacomina
ricomincia a pensare che in fin dei conti Peppino non era l’uomo giusto.
Peppino si prende qualche scappatella. Il loro rapporto diventa ancora più
modesto, con puntate verso lo squallido. Stanno insieme per i figli, la
prole è il loro unico progetto.
E’ possibile che vada a finire così: abbastanza spesso va a finire così.
Ma non è detto. Infatti noi sappiamo, lo sappiamo con certezza, che
Giacomina e Peppino sono due persone potenzialmente molto più ricche di
quanto sembri. Sono entrambi, secondo la felice metafora di un gesuita
(anche lui indiano, come lo psicoanalista), aquile addormentate che
sognano di essere polli. Ecco una seconda intuizione del mondo delle
infinite possibilità.
Supponiamo adesso che per un evento fortunato - per esempio hanno letto un
libro del gesuita, oppure questo - avvenga in uno dei due un principio di
risveglio: non dal mondo immaginario (questo, bene o male, è già
avvenuto), ma da quello della realtà ordinaria, in cui vivono la loro vita
senza scosse di polli metropolitani.
Giacomina, che è stata la prima a svegliarsi, comincia a borbottare,
parafrasando senza saperlo un saggio cinese: ho sognato che ero un’aquila,
e ora non so più se sono un pollo che sogna di essere un’aquila o
un’aquila che sogna di essere un pollo. Così ragionando tra sé e sé,
scuote Peppino e gli comunica il suo dubbio. Dopo un po’ sono in due a
porsi la fatidica domanda: chi sono io veramente?
Cari amici, vi avverto che questo dubbio va praticato con prudenza, perché
il vostro senso abituale di identità potrebbe esserne danneggiato.
Tuttavia dalle incrinature così prodotte potrebbe filtrare qualcosa di un
mondo più vasto e più ricco di quello in cui attualmente vivete.
Come insegnava anche uno sciamano ebreo che ha avuto molto successo
(postumo) in Occidente, dobbiamo perdere qualcosa della nostra identità
ordinaria per ritrovarci in un senso più essenziale. Il passaggio fa
paura, perché sappiamo quello che lasciamo, non quello che troviamo (se
mai troveremo qualcosa). E’ meglio affrontare questa paura nel tentativo
di liberarci da quelle che ci affliggono nel mondo reale, o piuttosto
tenerci queste per evitare guai peggiori? E se i saggi indiani, cinesi ed
ebrei si fossero tutti sbagliati, e il mondo delle aquile di cui ci
parlano non fosse altro che un settore dell’immaginario infantile
refrattario a qualsiasi riduzione?
Amici, io sono un povero terapeuta, non un profeta. Non ho verità da
annunciare, ho solo domande da porre, a voi e a me stesso. Ma ho anche
un’esperienza, e siccome anche voi ne avete una (perché, come me, avete
cominciato a farvi delle domande), le possiamo confrontare. Se pensate che
ne valga la pena, andiamo avanti.
V . Il sigaro di Freud
“Io vivo nella Possibilità/una casa più bella della Prosa” ha scritto una
poetessa. Anche i poeti, oltre ai profeti, ci parlano del e dal mondo
possibile, in cui abitano molto più volentieri che in quello reale, troppo
scontato e prosaico. E noialtri, che non siamo né poeti né profeti,
dobbiamo restarcene confinati qui a vita? Forse sì, a meno che non si
risvegli anche in noi l’ispirazione che sonnecchia in qualche piega del
nostro cervello destro.
Sempre più difficile (mi pare di sentire nuovamente la vostra protesta).
Non stiamo andando un po’ fuori tema? Non so. Consideriamo le cose da
questo punto di vista: siamo stati gettati in questo mondo senza che
nessuno, per quanto ne sappiamo, abbia chiesto il nostro parere. Siamo
nati in un certo posto, in un dato anno, da certi genitori, che
appartengono a una data classe sociale. Da queste premesse è derivata la
posizione che occupiamo e che possiamo fare ben poco per cambiare. E che
ci sta indubbiamente stretta.
Claustrofobia, come sapete, significa paura dei luoghi chiusi. Eccoci
rientrati nel tema. La realtà in cui viviamo non è un luogo decisamente
chiuso? Non ci sentiamo un po’ tutti soffocare, qui dentro? E
l’evasione-regressione nell’immaginario infantile non è la reazione,
scritta nel nostro codice genetico, a questa paura? Oserei dire che
l’angoscia da intrappolamento nella realtà è la paura centrale, la pietra
angolare dell’edificio dei nostri terrori quotidiani. Occupiamoci pure dei
vari mattoni e mattoncini, ma non dimentichiamo la pietra che sorregge
tutte le altre. Anzi, sarà meglio dedicarle un’attenzione speciale.
Nelle condizioni in cui viviamo c’è troppo poco di quello che ci
servirebbe per star bene. Non c’è abbastanza tempo, spazio, denaro,
salute, giustizia, amore. Non ci sono risposte soddisfacenti ai nostri
bisogni. Perché anche i nostri bisogni sono reali, non meno della realtà
che ci sta attorno. Non è così?
In giardino miagola infelice e infreddolito il gatto dei vicini, che sono
andati a passare le feste in montagna. C’è stato un gran gelo, alcune
piante sono morte. Al semaforo un albanese chiede l’elemosina. In centro
si è fermati in continuazione da benintenzionati che chiedono contributi
per la lotta alla leucemia o all’AIDS. La cassetta delle lettere trabocca
di richieste di aiuto per le missioni, l’infanzia maltrattata, rifugiati e
bisognosi di ogni specie e paese.
Si può negare la realtà di questi bisogni? E i disoccupati, i
cassintegrati, gli alluvionati, gli sfrattati, non hanno diritto anche
loro alla nostra attenzione? Quanto basta per chiarire una volta per tutte
che nel mondo reale la produzione dei bisogni è enormemente superiore alla
capacità di soddisfarli.
Questo significa che l’equazione: io ho fame, dunque tu devi sfamarmi;
ovvero: ho bisogno di affetto, tu mi devi amare, non funziona. Serve solo
a colpevolizzare il destinatario della richiesta il quale, se permetterà
alla colpa di impadronirsi di lui, potrà solo aggravare i problemi che
immagina di risolvere.
Se mi chiedete che cosa fare, vi rispondo ancora una volta con una
domanda: credete davvero di poter fare qualcosa per i bisogni degli altri
se non conoscete i vostri? E credete di conoscerli, i vostri? E di saper
distinguere i veri dai falsi? Penso di no, perché in caso contrario non
stareste a perder tempo con un terapeuta pieno di dubbi come me.
Su una cosa possiamo concordare senza difficoltà: non sempre abbiamo
bisogno delle cose di cui crediamo di aver bisogno. Prendiamo ad esempio
un impulso tra i più misteriosi, com’è quello di grattarsi. A me succede,
non so a voi, di avvertire a volte dei pruriti improvvisi, soprattutto
alla punta del naso. Sono pruriti perentori, quasi irresistibili. Infatti
di regola cedo, fingendo di soffiarmi il naso se qualcuno è presente. Più
raramente decido di oppormi, se non altro per riaffermare la mia autorità
sull’organo olfattivo che tenta, per lo più riuscendoci, di prendermi la
mano. Dopo un minuto di vera agonia il prurito cede e se ne va com’era
arrivato e senza apparenti conseguenze.
Forse qualcuno di voi non si sarà lasciato sfuggire l’occasione per farmi
accomodare sul divano e offrirmi la seguente interpretazione: il naso che
tenta di prendermi la mano ha semplicemente sostituito un altro organo che
da tempo non ha più questo potere. Un mio diniego varrebbe come sicura
conferma, quindi me ne astengo. Mi limito a questa ammissione: è chiaro
che una qualche tensione psicofisica, probabilmente la stessa che mi fa
tamburellare le dita o dondolare un piede, cerca una via di scarico
attraverso il grattamento.
Allo scarico corrisponde una sensazione di sollievo; ma da questo non è
lecito dedurre che, data una tensione, la cosa migliore da fare sia
scaricarla. Dipende, naturalmente, dalla natura di questa tensione. Un
freudiano o un reichiano di stretta osservanza non esiterebbero ad
attribuirla a un ingorgo libidico. Potrebbero avere ragione, ma non
trascurerei altre ipotesi, anche più verosimili. La tensione segnala di
solito un conflitto o uno stato di allarme, mentre l’impulso a evacuarla
tradisce l’incapacità di trattenerla e di utilizzarla per affrontare la
situazione (reale o immaginaria) temuta. Come nella condizione a tutti
nota in cui lo spavento non conduce a comportamenti appropriati alle
circostanze, ma solo all’urgenza apparentemente illogica di svuotare
l’alvo.
Il principio è quello della valvola di sicurezza: la tensione all’interno
di un sistema dovrebbe essere utilizzata per svolgere un lavoro utile, ma
se questo non è possibile e la tensione sale troppo, è meglio scaricarla
per evitare di danneggiarlo. Per questo motivo io cedo alla tentazione di
grattarmi quando il prurito è imperioso, visto che l’atto non sembra avere
controindicazioni di rilievo, e penso che continuerò a farlo finché non
avrò trovato di meglio.
Siete delusi perché non ci sono ancora riuscito? Vi avevo avvertito che
sono ancora ben lontano dal nirvana. Sperando nella vostra comprensione,
procedo nell’indagine: fino a che punto è lecito soddisfare il bisogno di
scaricare una tensione? E’ una questione di non poco conto, perché una
quantità enorme di comportamenti, inclusi i più aberranti, non sono che
modi più o meno mascherati di evacuare una tensione spiacevole.
Freud, per esempio, fumava sigari, cosa dannosissima per la sua salute. Ma
il fumo lo rilassava e gli permetteva di lavorare. Avremmo oggi una
psicoanalisi senza quei sigari? Possiamo apprezzare la sua scelta:
sacrificando la sua salute, ha donato al mondo il frutto prezioso del suo
lavoro. Che tuttavia di quel fumo conserva il sentore: l’apparato psichico
della teoria freudiana è regolato dal principio dello scarico della
tensione, proprio come l’apparato psichico personale del suo creatore.
Oggi il tabagismo non è più di moda come un tempo. Nello stesso periodo
anche il paradigma pulsionale ha perso terreno tra gli addetti ai lavori a
favore di quello interpersonale: la vita affettiva si è emancipata, non è
più un semplice riflesso di quella istintuale. Chi sa che non ci sia una
connessione tra i due fatti.
Permettetemi ora di presentarvi Antonio e Maurizia. Il primo è
perennemente arrabbiato col mondo intero. Vorrebbe un’altra moglie, un
altro lavoro, un’altra macchina, un altro terapeuta. Non potendo avere
quello che vuole, scarica il suo malumore su quello che ha.
La seconda, una donna giovane e di bell’aspetto, entra in agitazione e vi
rimane in permanenza quando è in compagnia del fidanzato, il quale la
sopporta - ma non credo che lo farà ancora per molto - per le belle
qualità che in parte bilanciano quel difetto. Temendo di non poter essere
amata, ella esige rassicurazioni a getto continuo. Il brav’uomo resiste
fin che può, ma alla fine cede e consegna all’amata la dose richiesta di
calmante, avendo imparato che è l’unico modo per avere anche lui un po’ di
requie.
C’è chi scarica la propria tensione tirando sassi dai cavalcavia; Antonio
si limita a lanciare sassolini a chi gli capita a tiro. Non fa molto male,
ma non si rende simpatico. Maurizia invece lancia continui e martellanti
SOS, si tranquillizza quando ottiene una risposta che la soddisfa e dopo
una breve tregua ricomincia come prima. L’uno scarica il suo risentimento,
l’altra la sua insicurezza. La maggior parte di noi trasforma l’ambiente
in cui vive in una discarica per materiali consimili.
Naturalmente Antonio, Maurizia e noi stessi, quando ci comportiamo come
loro, riveliamo di non soggiornare nel mondo reale, ma in quello
immaginario. Il primo passo per il trasferimento da questo a quello
consiste nel riconoscere la natura arcaica dei bisogni che in questo
premono per il soddisfacimento. Il secondo nel comprendere che questo non
può mai aver luogo nel mondo reale. Il terzo nella decisione di rinunciare
ai comportamenti evacuativi per dare inizio al confronto con la mancanza e
la contraddizione che segnano l’esperienza nel triste mondo di mezzo.
Procediamo con ordine. Antonio e Maurizia hanno atteggiamenti
apparentemente opposti: l’uno è aggressivo quanto l’altra è implorante. Ma
la sostanza è la stessa. Si collocano entrambi al centro dei rispettivi
mondi, dai quali pretendono attenzioni continue e conformità ai loro
desideri. Se ciò non accade, vanno in ansia o si arrabbiano. Le loro
aspettative sono d’altra parte comprensibili se rapportate all’età emotiva
che dimostrano in questi frangenti.
Dalla circostanza ovvia che un adulto non gode più dei diritti di cui
invece legittimamente gode un infante discende l’improponibilità attuale
di richieste fondate su diritti non più in vigore. Quanto prima il
richiedente ne prende atto, meglio è per lui e per chi gli sta vicino.
Poiché la capacità logica di Maurizia e Antonio è rimasta relativamente
indenne, essi giungono senza eccessive difficoltà a riconoscere
l’infondatezza delle loro pretese. Tuttavia questo riconoscimento rimane
puramente formale e senza conseguenze pratiche: al primo e al secondo
passaggio sopra enunciati non segue il terzo di una rinuncia effettiva a
comportamenti di cui pure è stata vista l’irrazionalità. Cosa che non vi
sorprende affatto: ogni fumatore o bevitore sa bene che il fumo e l’alcol
fanno male, ma questa conoscenza è notoriamente priva di effetti sui
rispettivi stili di vita.
Che cosa, dunque, ci può persuadere ad abbandonare le pretese
anacronistiche, e generalmente dannose per noi e per gli altri, che ci
trattengono all’interno dei nostri mondi immaginari? Maurizia e Antonio ci
dicono in coro: è più forte di me, il panico (o la rabbia) mi travolge,
non posso fare a meno di comportarmi come mi comporto. La tensione che li
domina è sostanzialmente paura incontenibile: di essere abbandonati,
deprivati, manipolati o costretti a sopportare cose per loro
insopportabili.
Se volete aiutare Antonio e Maurizia che cosa fate? Permettete all’uno di
sfogare su di voi la sua rabbia, all’altra di succhiarvi rassicurazioni
come fossero gocce di Valium? Di sicuro hanno bisogno di essere calmati,
ma non in quel modo. Potete calmare un bambino rifilandogli la tettarella
o piazzandolo davanti al televisore o sbarazzandovi di lui in qualche
altra maniera. Forse si calmerà, ma prima o poi ve la farà pagare.
Che cosa occorre fare dunque con un bambino spaventato di qualsiasi età?
Primo: mantenere la calma. Se vi agitate anche voi, non c’è speranza.
Secondo, capire di che cosa ha paura. Terzo, capire di che cosa ha
bisogno.
Antonio teme di essere in balia di persone e circostanze che in tanto gli
sono ostili in quanto non sono orientate primariamente a lui e al suo
benessere. Ha bisogno di farsi una ragione della catastrofe in seguito
alla quale il mondo ha smesso di ruotare intorno a lui e di ritrovare un
senso in questo universo crudelmente copernicano. Maurizia ha paura di non
essere amata. Ha bisogno di capire il paradosso per cui in questo ordine
di cose chi più vuole meno stringe.
Entrambi cercano confusamente un’esperienza che contraddica e corregga
quella cui sono rimasti fissati; purtroppo le risposte che inducono non
fanno che confermarla. Potete aiutarli se in primo luogo evitate di cadere
nei loro giochi (ma non è facile); e poi se sapete offrirgli qualcosa che,
a differenza di quello che apparentemente chiedono, corrisponda al loro
bisogno effettivo (ma dovete capire qual è).
Se volete i sogni di una persona dovete darle in cambio qualcosa che
compensi la perdita. Lo schema generale dell’affare potrebbe essere: tu mi
dai le tue fissazioni e io ti aiuto a crescere. Ma fate attenzione, perché
nel linguaggio corrente questa parola vale quasi come un insulto (io
crescere? vuoi dire che sono un bambino?). Dovete riuscire nell’impresa di
persuadere il vostro interlocutore che la crescita è non solo possibile,
ma persino conveniente.
E’ difficile capire che la rinuncia a qualcosa di illimitato a favore di
qualcos’altro di limitato possa essere una scelta vantaggiosa. Perché
dovrei accontentarmi di una sola donna se posso averne tante?, protesta
Antonio. Perché non dovrei sentirmi amata in ogni momento e più di ogni
altra cosa dal mio fidanzato?, gli fa eco Maurizia. In effetti Antonio può
volare di fiore in fiore, provando a posarsi sui più belli o almeno sui
più abbordabili; e Maurizia può strappare al fidanzato rassicurazioni a
raffica. Una riduzione di tali aspettative, per quanto già riconosciute
irrealistiche, è respinta da entrambi come una perdita secca e quindi
inaccettabile.
Cari Antonio e Maurizia, quello che ottenete scaricando i vostri umori a
destra e a manca e succhiando e rubacchiando qua e là, lo vedete bene e
non vi basta. Giustamente volete di più dalla vita. Ma ho buone notizie
per voi. Se vi date una mossa, vi rimboccate le maniche e vi mettete a
coltivare il vostro orticello, in un tempo tutto sommato ragionevole
comincerete a raccogliere i frutti del vostro onesto lavoro.
La difficoltà, nel capire e far capire che la rinuncia ai giochi e ai
sogni paga, sta nel fatto che il pagamento non è mai in contanti e a
pronta cassa. Si tratta di scambiare un vantaggio attuale, scadente e
tossico quanto si vuole, ma attuale e sicuro, con uno futuro e non
garantito. Non solo: il primo è un diritto, quindi praticamente gratis, il
secondo bisogna guadagnarselo. E’ dura da mandar giù.
In ogni caso non va giù con esortazioni e prediche. Smascherare le
illusioni (o portare l’inconscio alla coscienza, se preferite) è
necessario, ma non sufficiente. Insomma, che cosa occorre dare in cambio?,
mi chiedete ora con una certa impazienza, perché vi sembra che io stia
girando intorno alla questione senza venire al punto. Vi ho parlato della
crescita, ma non vi ho detto che cosa può farla apparire possibile e tanto
meno conveniente, al punto da indurre qualcuno ad assumerla come progetto
di vita al posto dei piaceri evacuativi tanto più a portata di mano.
La mia risposta non vi può sorprendere, essendo in linea con quelle che vi
ho dato finora: il fattore decisivo è l’esperienza. Credo che possiamo
tranquillamente fare a meno delle ideologie che descrivono l’uomo come
basilarmente orientato al piacere e adattato alla realtà solo per il
desiderio opportunistico di evitare dispiaceri maggiori; oppure
primariamente teso alla propria realizzazione, e caduto in preda a impulsi
regressivi solo a causa di ostacoli insormontabili incontrati sul cammino.
Io credo che voi non siete diversi da me: in voi, come in me, coabitano
tendenze sia alla crescita sia allo scarico, combinate e intrecciate nelle
proporzioni e nei modi più diversi.
Quale delle due sia più antica o più essenziale, nessuno è mai riuscito a
stabilirlo con certezza. Non vi aspetterete che ci riesca io. Ma, come vi
dicevo, non credo che ne abbiamo bisogno. Ci basta osservare che
nell’ambiente in cui viviamo si trovano fattori che favoriscono tanto
l’una quanto l’altra. Esempi ovvi: la violenza e il moralismo da un lato,
l’affetto e il dialogo dall’altro.
Se dunque desideriamo che una persona riduca i comportamenti evacuativi e
si impegni in un processo di crescita, non abbiamo che da offrirle una
relazione in cui i fattori favorenti il secondo siano prevalenti. Questo
in generale. Nel caso particolare la cosa è complicata dal fatto che i
fattori in questione sono diversi, e noi non sappiamo a priori di quali il
nostro interlocutore abbia bisogno (a meno che non apparteniamo a una
delle tante sette religiose o psicoanalitiche che, disponendo di tale
conoscenza, possono sottoporre i loro adepti a trattamenti standard. Ad
esempio: tutti sul lettino ad associare liberamente e inesorabilmente, dal
principio alla fine della cura).
Voi, per fortuna, non appartenete a nessuna setta; per mia fortuna,
intendo dire, perché altrimenti vi avrei già persi. Se sia anche la
vostra, non posso dirlo. In ogni modo, visto che ci troviamo nella stessa
condizione, a questo punto avvertiamo la stessa esigenza. Vorremmo sapere
quali sono in generale i fattori che favoriscono la crescita, per poter
riconoscere più agevolmente quelli che di volta in volta sono richiesti
nelle situazioni in cui ci troviamo. Ma ce ne occuperemo nel prossimo
capitolo, adesso tiriamo il fiato.
Prima di chiudere questo, ancora una cosa. Provate a invertire le parti:
voi non siete la persona che offre l’aiuto, ma quella che ne ha bisogno.
Lo so, voi siete messi un po’ meglio di Antonio e Maurizia. Ma non fatevi
troppe illusioni, qualche zona erronea, più o meno ampia, ce l’avete anche
voi; così come avete anche una parte giusta, evoluta e matura. E’ grazie a
questi due territori che potete entrare in rapporto con un partner che è
messo un po’ bene e un po’ male, proprio come voi. Se riuscite a restare
calmi quando lui si agita, e lui resta calmo quando vi agitate voi, è
fatta. Se invece entrate in agitazione contemporaneamente, sono guai, ma
anche in questo caso non disperate: più avanti vi suggerirò un metodo per
stabilire dei turni, in modo che possiate andare fuori di testa uno alla
volta.
VI . Piccoli mostri
Un momento, ho bisogno di una pausa. Lavorando alle ultime pagine ho
avvertito una stanchezza che forse è trapelata fino a voi. Mi ero preso un
impegno all’inizio: se la fatica avesse superato il piacere di scrivere mi
sarei fermato per stanare il sabotatore. In effetti non devo stanare
nessuno, perché ho a che fare con un nemico che opera tranquillamente alla
luce del sole. Ma è molto insidioso, e mi seduce con argomenti cui non
riesco a oppormi che troppo debolmente. L’avete riconosciuto? E’ il
desiderio di comunicare - e la sua ombra necessaria, la paura di non
riuscire a farlo.
Per cominciare, questo desiderio pretende di non essere affatto un
desiderio, ma nientemeno che un dovere. Tu sei un ricercatore, mi
sussurra; hai l’obbligo morale di comunicare al mondo i risultati delle
tue ricerche. Già fatto, rispondo io; e poiché l’ambiente degli addetti ai
lavori li ha accolti con un interesse vicinissimo allo zero, mi considero
esentato dal continuare a farlo. Al contrario, ribatte il nemico; devi
solo individuare il tuo target. Ah sì? e come?, mi informo. Devi scrivere
un libro per il grande pubblico, insinua lui; qualcosa che si possa
vendere, tipo “Come vincere la paura in quattordici lezioni”; e al riparo
di questa copertura esporre discretamente le tue idee scientifiche e
filosofiche.
Ma è una copertura troppo esile, obietto io; non basterebbe affatto a
coprire un’operazione di pura vanità intellettuale. Lui: quale vanità?
vuoi dire che tutta questa storia del libero ricercatore, emancipato da
scuole e parrocchie, non è altro che un bluff? No, non dico questo; ma dal
fatto che nessuno mette in discussione la mia buona fede, e tanto meno lo
faccio io, non discende la conseguenza che le mie idee valgano qualcosa e
meritino di essere divulgate.
Considerate ad esempio la cronaca di un breve incontro di qualche anno fa
con un collega coetaneo che a differenza di me è rimasto in università e
ha fatto tutti i passi giusti fino ad arrivare in cattedra. Che cosa fai?,
mi chiede distrattamente. Ho costruito un modello integrato di
psicoterapia, gli dico. Minchia, il settecentounesimo, commenta senza
cambiare espressione. Incasso e rifletto: che cosa faccio? gli illustro i
vantaggi del mio? E’ inutile perché mi anticipa: nessuno ha bisogno di
nuovi modelli; oggi il discorso è un altro: registrazione audio e video
della seduta, microanalisi dell’interazione, oggettivazione dei fattori
terapeutici.
Mi duole ammetterlo, ma il collega cattedratico ha ragione. C’è stata una
proliferazione di metodi psicoterapeutici oltre ogni ragionevole
necessità, uno più scientifico ed efficace dell’altro. Secondo i
rispettivi autori, naturalmente; ma i controlli rigorosi su meccanismi
d’azione e risultati sono pressocché inesistenti. La situazione è
paragonabile a quella della medicina omeopatica, anzi è un po’ peggiore.
Sembra che la frequentazione regolare dello studio di uno psicoterapeuta
qualcosa faccia. Ma, come ha osservato un valente analista, anche la
decisione di recarsi due o tre volte alla settimana, a orari stabiliti e
per tempi prefissati, sempre sotto lo stesso lampione, qualcosa farebbe.
Non sappiamo se di meglio o di peggio, nessuno lo ha mai verificato.
Tuttavia psicoterapeuti e omeopati continuano a lavorare, bene o male.
Segno che ai loro (ai nostri) clienti la dimostrazione oggettiva della
validità delle nostre discipline non interessa granché. Come mai? Ovvio,
perché il banco di prova per noi è del tutto soggettivo. I clienti
ritornano perché si sentono meglio, o perché la loro vita ha più senso. A
loro, come a noi, piace pensare che il miglioramento sia un prodotto delle
nostre pratiche e dei nostri rimedi. Nessuno desidera farsi troppe
domande. Stando così le cose, a che pro darsi da fare per inventare nuovi
metodi o modelli? I vecchi bastano e avanzano.
Credete che a questo punto il nemico si dia per vinto? Nemmeno per sogno.
Sentite la sua replica: nessun filosofo è mai riuscito a dimostrare che le
sue teorie sono più vere di quelle di qualsiasi altro, né che sono
efficaci per risolvere i mali del mondo; dobbiamo dunque concludere che la
filosofia è un’attività superflua? Di fronte a questo attacco non mi posso
schermire con l’argomento che io sono solo un terapeuta e non un filosofo,
perché ho già riconosciuto che ogni terapeuta, volente o nolente, fa della
filosofia pratica. L’avversario mi vede in difficoltà e incalza: da anni
tu e le persone che ti onorano della loro presenza indagate
quotidianamente sul senso del dolore, dell’angoscia, della vita e della
morte; se tutta questa indagine è servita a svecchiare alcuni miti e a
produrre alcuni strumenti per orientarsi meglio nel mare magnum
dell’esistenza, non vale la pena, anzi non è un tuo preciso dovere farlo
sapere a una cerchia più larga dei quattro gatti che frequenti?
Questo è un colpo basso. Se nego che tutto questo lavoro sia servito a
qualcosa, per coerenza dovrei chiudere bottega. Se lo ammetto, sembra che
io abbia il dovere di comunicare al mondo le mie scoperte. Ci deve essere
una via di uscita da questa trappola. Ecco, per esempio: Socrate non ha
mai scritto una riga, eppure il suo insegnamento ha avuto una diffusione
immensa. Controreplica fulminea: ma tu non sei Socrate, scordati che ci
sia un Platone tra i tuoi allievi.
Va bene, basta così, mi arrendo. Vi ho dato un piccolo saggio dello stile
di lavoro del mio nemico interno. Ve l’avevo detto che è molto insidioso.
Qualsiasi cosa dica, me la demolisce in un attimo e riprende a martellare
la sua tesi. Questo desiderio di comunicare, o bisogno o dovere che sia, è
davvero irresistibile. Quindi, ripeto, mi arrendo; purché sia chiaro che
non è una resa incondizionata.
Vorrei trovare un equilibrio tra due esigenze contrapposte. Una è quella
di cui avete appena constatato la potenza. L’altra è sicuramente più
debole, ed è per questo che sono tutto dalla sua parte. E’ un desiderio di
essere semplicemente aperto a qualsiasi pensiero o emozione entri in
questo momento nel mio campo percettivo, libero dal bisogno di dimostrare
o testimoniare alcunché. Tanto la prima mi appesantisce, quanto la seconda
mi fa sentire leggero.
La verità è che ho bisogno di tutte e due. Se ho trattato come un nemico
il desiderio di comunicare, è perché troppo spesso ne sono stato dominato
e tiranneggiato. Ma so anche che se mi venisse a mancare diventerei troppo
leggero, come certe persone che conosco e altre che certamente conoscete
voi. Non mi piacciono i libri o i film troppo impegnati o troppo
disimpegnati, né le persone troppo serie o troppo scherzose. Ma devo
aggiungere e ribadire che il nemico principale per quanto mi riguarda
resta la serietà. L’eredità e l’ambiente hanno congiurato per assegnarmene
una dose esagerata, ed è sempre lei che tenta di prendere il sopravvento,
se non sto più che in guardia.
Ora mi sento meglio e posso riprendere il filo. Ci eravamo lasciati, alla
fine dell’ultimo capitolo, con una domanda: quali sono i fattori che in
una relazione favoriscono la crescita? E’ una domanda pesante. Direi di
più: è il vero baricentro del mio lavoro, e anche del vostro, se mai vi
verrà voglia di iniziarne uno.
Supponiamo che non siate soddisfatti della vostra vita e cerchiate
qualcuno che vi aiuti a capire che cosa c’è che non va. Secondo voi, sarà
più probabile che troviate quello che vi serve se il vostro interlocutore
è cristiano, buddista, freudiano o junghiano? Oppure se non è nessuna di
queste cose, o anche una qualsiasi di queste, ma non costringe il vostro
problema ad accomodarsi tra le maglie più o meno strette della sua teoria?
Spero che abbiate risposto affermativamente alla seconda domanda, perché
vorrebbe dire che siete interessati a quella che segue: potrete mai capire
di che cosa una persona ha bisogno se non disponete di una adeguata teoria
dell’uomo, come quelle di cui sono ben forniti i cristiani, i freudiani,
eccetera?
In prima battuta io direi di no, dal momento che di regola noi vediamo
solo quello che siamo predisposti a vedere. Abbiamo tutti le nostre teorie
del mondo, della vita e dell’uomo e le utilizziamo a ogni passo per
interpretare quello che ci succede e prendere le decisioni del caso. Il
rovescio della medaglia è l’impossibilità di comunicare con chi utilizza
teorie diverse dalle nostre, cioè la quasi totalità del resto del mondo;
cosa che spiega lo stato di incomunicabilità che regna sovrano tra gli
uomini di ogni razza, ceto e livello culturale.
Qualche anno fa un bravo psicoanalista uruguayano si prese la briga di
studiare il modo in cui lo stesso materiale (il caso dell’Uomo dei lupi)
era stato trattato dai suoi colleghi di diverse scuole analitiche. Giunse
alla conclusione che le teorie di Freud, Klein, Lacan e degli altri
capiscuola debbono essere considerate dei paradigmi (nel senso in cui
questo termine è stato impiegato dal filosofo Kuhn: costruzioni che
includono elementi non soltanto cognitivi ma anche affettivi, come valori
e fantasie); e che questi paradigmi sono reciprocamente incompatibili e
conducono a costruzioni non confrontabili.
L’inconsapevolezza di quei grandi nei confronti di tali entità è tale da
indurre l’uruguayano a paragonarle a piccoli mostri annidati nella mente
dell’analista, capaci di fargli vedere solo quello che loro vogliono che
veda e di lasciarlo nella convinzione che ciò che vedono corrisponda alla
realtà delle cose. La situazione nel campo psicoanalitico, secondo lo
studioso, è seria ma non disperata: bisognerebbe restituire agli strumenti
di conoscenza il posto che loro compete, percorrendo a ritroso il cammino
che li ha trasformati in mezzi di identificazione e di potere. Per far
questo suggerisce di sviluppare un’analisi comparata delle diverse teorie
e un linguaggio descrittivo che ci permetterebbe, più di quanto facciano
le teorie, di parlare di ciò che non comprendiamo.
Come potete facilmente immaginare, l’eccellente suggerimento è caduto nel
vuoto. Gli analisti, con rare eccezioni, si guardano bene dal disfarsi dei
loro mezzi di identificazione e di potere. Si richiamano tutti a Freud e
usano le stesse parole chiave, ma con significati differenti e divergenti.
Che la loro associazione sia ormai una torre di Babele lo sanno benissimo
e tuttavia non possono farci niente. O meglio, potrebbero se volessero
sottoporsi all’unica terapia che può guarirli, al prezzo però di essere
privati di quanto hanno di più prezioso: l’identificazione con il
paradigma e il potere che ne deriva.
Ebbene, amici, noi siamo più fortunati. Lo sono io, per cominciare, che
sono un piccolo terapeuta di provincia, con una modesta clientela e
nessuna identità culturale da difendere. Quanto a voi, il fatto che mi
avete seguito fino a qui dimostra chiaramente che non siete testimoni di
Geova né ciellini. E allora, che cosa abbiamo da perdere? I nostri
paradigmi privati, naturalmente. Ma è gia qualcosa, se abbiamo solo
quelli. E dunque proviamo a raccogliere noi il suggerimento dell’amico
uruguayano che altri hanno lasciato cadere. (Sì, è un amico anche lui,
anche se non lo conosco. Lo so perché parla come me e come voi).
Primo punto: un’analisi comparata delle teorie. Che cos’è una buona
teoria? E’ uno schema in cui raccogliamo e organizziamo l’esperienza
passata, buono per fare previsioni non vincolanti su quella a venire,
cattivo se usato per costringerla a correre su binari prefissati. Se voi e
io ci incontriamo portiamo con noi un patrimonio di esperienze che possono
arricchire voi quanto me. A patto di volerle confrontare e non di
tirarcele addosso come mattoni: quelli con cui abbiamo edificato le dimore
concettuali in cui viviamo più o meno confortevolmente e da cui abbiamo
una paura terribile di uscire.
Quando la trasformazione dei nostri schemi in paradigmi è compiuta,
chiamiamo verità e valori i piccoli mostri che si sono in tal modo
installati nella nostra mente. Sono conclusioni e valutazioni che
dovrebbero restare sempre provvisorie per essere modificate, confermate o
abbandonate nel confronto con le esperienze successive e con quelle degli
altri. Se questa fluidità viene mantenuta, un dialogo è possibile. Se è
perduta, sostituita da un credo privato o collettivo, quello che rimane è
l’ordinaria incomunicabilità in cui siamo tutti tristemente immersi.
Punto secondo: utilizzare un linguaggio descrittivo. Considerate quello
che va per la maggiore nelle scuole psicoanalitiche, psicoterapeutiche e
filosofiche: nella quasi totalità dei casi è infarcito di espressioni
gergali. Chi parla presuppone nei suoi ascoltatori la confidenza con una
teoria che non si trova nelle cose di cui si parla, ma è la chiave che
permette di decifrarle. In tal modo i fatti non sono descritti, ma
spiegati, e sono dunque accessibili solo a chi dispone della griglia
teorica indispensabile per comprendere quelle spiegazioni.
Tutti i giorni vengono da me delle persone che spiegano, argomentano,
dimostrano, e non si stancano mai di discorrere in questo modo. Io ascolto
e aspetto il momento in cui mi è possibile intervenire per stabilire un
contatto. Sei qui con me in questa stanza, gli dico quando l’occasione è
propizia. Sei rilassato o teso, a tuo agio oppure no; hai delle
sensazioni, ti aspetti qualcosa; in ogni caso hai un’esperienza. Puoi
sentirla se chiudi gli occhi e descrivi quello che ti succede adesso,
lasciando da parte spiegazioni e giudizi.
Faccio così non perché io pensi che la situazione terapeutica meriti più
attenzione di altre, ma semplicemente perché è quella in cui mi trovo a
lavorare. Chi impara a fermarsi in un posto, può farlo in qualsiasi altro.
Cerco di stipulare un’alleanza con il mio paziente, in cui ciascuno si
impegna a sottoporsi a una disciplina che i fenomenologi chiamano epoché,
e che consiste nell’osservazione di ciò che accade sospendendo ogni
preconcezione e aspettativa. Ascoltare senza memoria e senza desiderio,
diceva Bion. Molti terapeuti di diverse scuole fanno le stesse cose ma
pensano di fare cose diverse perché le chiamano con nomi differenti.
Con l’esercizio di questa disciplina si fanno osservazioni interessanti.
Mentre cerchiamo di astenerci da ciò che facciamo abitualmente, cioè dal
tentativo di costringere le cose a corrispondere alle nostre attese
affettive e cognitive, permettiamo alle cose di mostrarsi per quello che
sono. Almeno per quel tanto che la nostra capacità di neutralizzare le
aspettative, che non è mai perfetta, lo consente.
In questo modo possiamo farci un’idea dei bisogni fondamentali in gioco in
una relazione il cui obiettivo è la crescita personale di chi vi è
coinvolto: in primo luogo nella relazione di terapia, ma anche in tutte le
altre - specialmente in quella di coppia - che condividono
quell’obiettivo. Così torniamo alla questione che abbiamo lasciato in
sospeso.
Di che cosa ha dunque bisogno un essere umano per la propria crescita
psicologica? Qualsiasi bambino potrebbe rispondere: di una madre e di un
padre. E se le cure materne o paterne sono state insufficienti, con la
conseguenza di uno sviluppo disturbato? Si può sempre sperare di
correggerlo fornendo in seguito almeno una parte di quanto è mancato
prima. E dove troviamo delle madri e dei padri sostitutivi? In nessun
luogo. Però alcune funzioni genitoriali possono essere assunte da figure
significative della vita adulta.
Lo psicoterapeuta è una di queste figure? Certo che lo è. Quasi tutti i
pazienti gli chiedono in modo esplicito o implicito di essere per loro il
padre o la madre che non hanno avuto. E lui come risponde? Come sa e come
può; spesso destreggiandosi, o anche trasgredendo apertamente le regole
del suo metodo, che non prevede nulla del genere. Infatti in quasi tutte
le scuole si insegna che lo psicoterapeuta deve essere prima di tutto uno
scienziato che produce conoscenza; la quale, in quanto è direttamente
somministrata al paziente, può di per sé coincidere con la cura, come nei
metodi analitici; oppure è utilizzata per costruire pratiche o esercizi
che porteranno alla guarigione, come nelle scuole comportamentali e
cognitive.
Fino a non molti decenni fa un terapeuta poteva ancora credere di
assomigliare a uno schermo bianco o a uno specchio riflettente. Oggi
questa fantasia sopravvive in pochi nostalgici, mentre tutti gli altri
ammettono che la terapia è un’interazione tra due persone e che il
terapeuta si trova di fatto e necessariamente a svolgere alcune mansioni
genitoriali. In particolare riveste un ruolo materno quando offre una base
sicura, un contenitore protetto e un accoglimento incondizionato. E uno
paterno in quanto spinge e incoraggia alla separazione, alla
responsabilità e al confronto con il mondo esterno.
L’ormai lunga conoscenza che ho dei miei colleghi psichiatri e psicologi
mi permette di affermare, cari amici, che la loro (la nostra) dotazione di
qualità genitoriali non è mediamente superiore alla vostra. Sappiate
dunque che in questo campo noi non possiamo niente di più di quanto
possiate voi. Debbo avvertirvi tuttavia che il vostro compito è più
difficile. Contrariamente a quanto comunemente si ritiene per un
pregiudizio diffuso, la relazione di terapia è più facile di quella di
coppia. Il pregiudizio in questione è che per quest’ultima bastino due
cuori e una capanna. Non è assolutamente vero. Oltre ai due cuori servono
anche due cervelli ben funzionanti per regolare un traffico che è molto
complesso, se si vuole che la capanna, oltre a offrire un riparo alle
intemperie, sia anche un luogo di crescita. Per i componenti della coppia,
intendo dire: perché la grande maggioranza delle coppie pensano di
semplificare la questione decidendo che chi deve crescere sono i figli,
essendo i genitori già cresciuti.
Il fatto che i figli di genitori già cresciuti quasi sempre crescono male
potrebbe far riflettere sulla premessa. Ma non è certo il vostro caso,
perché voi avete già superato questa dannosa illusione. Siete quindi nella
condizione di capire perché il vostro lavoro (mi limito per ora al punto
della crescita psicologica) è più difficile di quello del terapeuta, che
già non è facile. Si tratta di questo: mentre nel teatrino della terapia
il paziente assume di regola il ruolo del figlio e il terapeuta quello del
genitore (i tentativi del paziente di invertire le parti raramente hanno
successo), nella coppia passabilmente sana i ruoli si scambiano
ripetutamente: in un momento lui è un padre o una madre per lei, in un
altro è lei una madre o un padre per lui.
Una faccenda non semplice, come potete capire. Può funzionare se c’è un
buon livello di percezione dei bisogni propri e del partner, una
sufficiente disponibilità a svolgere per quanto si può le funzioni
richieste, e soprattutto una capacità di mediazione superiore alla norma,
dato che tra domanda e offerta c’è spesso una distanza deprimente.
Basterebbe questo per inserire anche la relazione di coppia nella lista
dei compiti impossibili. Ma non è finita, perché quanto precede presuppone
un lavoro non indifferente di conoscenza, proprio come nella relazione di
terapia. Tuttavia vi prego, prima di decidere che sto esagerando e che la
cosa non fa per voi, permettetemi di aggiungere, nel prossimo capitolo,
alcuni elementi che potranno riaccendere il vostro interesse, oppure
dargli il colpo di grazia.
VII . Il monito di Apollo
Nell’anno 869 dell’era volgare i padri della Chiesa si riunirono a
Costantinopoli e stabilirono che l’uomo non era composto di tre parti -
corpo, anima e spirito - come si era ritenuto fino a quel momento, ma di
due soltanto. Lo spirito venne abrogato come parte autonoma, e ridotto a
facoltà dell’anima.
Il nostro tempo ha perfezionato quell’operazione abrogando anche l’anima,
che è stata ridotta a facoltà del corpo. Si possono nutrire dei dubbi
sull’utilità di questa semplificazione. Conosco persone sanissime nel
corpo, ma deperite nell’anima e quasi cachettiche nello spirito. Oppure
vivacissime nello spirito e malandate negli altri settori. Vi propongo
pertanto, amici, di restaurare l’antica tripartizione: sono convinto che
ne ricaveremo una migliore comprensione dei bisogni umani.
Se la paura, punto di partenza di tutte le nostre riflessioni, è in gran
parte di origine infantile, per liberarcene temo non vi sia altra strada
che diventare grandi. Compito non facile e per di più insufficiente,
perché anche sulla nostra vita adulta grava ogni sorta di minacce. Per
una cura radicale dovremmo diventare più che grandi, addirittura saggi. Se
è così, possiamo metterci il cuore in pace: la paura resterà sempre la
nostra compagna inseparabile. Eppure al tentativo di diventare adulti e
persino saggi è difficile sottrarsi. Se non proviamo a diventarlo almeno
in parte che cosa ci rimane, a parte i nostri sogni? La cui trasformazione
in incubi è peraltro in fase avanzata, per voi e per me: altrimenti non
saremmo qui a cercare di svegliarci.
Questa strada su cui faticosamente arranchiamo era ben nota agli antichi,
che il dio Apollo incoraggiava con la celebre esortazione: conosci te
stesso. Un invito così sintetico fu inteso principalmente in due modi.
Nel primo, prevalente tra i presocratici, Apollo è un dio che dall’alto del
tempio di Delfi abbassa il suo sguardo severo sull’uomo e lo ammonisce:
conosci i tuoi limiti, e in primo luogo quello temporale della tua
esistenza. Ricordati che sei mortale, le prerogative degli dei non ti appartengono.
Se l’uomo di quel tempo aveva bisogno di un richiamo del genere, vuol dire
che non era affatto diverso da quello contemporaneo. Il sogno di
immortalità e onnipotenza lo affliggeva allora come oggi. La differenza
sta nel fatto che nella ricerca di un aiuto che lo riportasse a sé stesso
il greco andava a Delfi, mentre l’uomo del ventesimo secolo va
dall’analista. Non ci sono state tramandate percentuali di rinsavimento,
ma non ho motivo di pensare che fossero lontane da quelle odierne.
Nessuna civiltà può sopravvivere se non si provvede di momenti e luoghi
culturali dove i suoi figli possano sottoporsi al processo di risveglio
dalle illusioni infantili con il conseguente approdo alla dura realtà.
Meno che mai la nostra, nonostante i progressi della psicofarmacologia.
Senza nulla togliere al farmaco - ausilio importante e a volte indispensabile
- non si è mai vista una sostanza chimica capace di produrre conoscenza.
La via medicamentosa alla pace della mente è il modo che oggi non pochi
scelgono, con l’avallo di chi non può essere biasimato se non ha altro da
proporre, per sottrarsi al monito del dio Apollo.
Un farmaco può mettere un cervello in condizione di lavorare meglio, ma
non può lavorare al posto suo: la conoscenza non si ottiene manipolando
neuroni, ma riflettendo sull’esperienza. Ed è difficile riflettere sulla
piazza del mercato, sulla quale non è nemmeno facile avere le esperienze
che occorrono. Per l’una e per l’altra cosa ogni cultura ha inventato
spazi appositi, come il tempio e lo studio del terapeuta. D’altra parte,
se ciò che accade in questi posti fa leva sulla nostra comune natura
umana, perché non potrebbe accadere anche nel soggiorno di casa vostra,
dopo avere spento il televisore e mandato i bambini a letto?
Per rispondere a questa domanda dobbiamo innanzitutto capire in che modo
procede la conoscenza di sé. Il primo punto al quale gli antichi rivolsero
l’attenzione, dicevamo, fu la necessità di sviluppare la coscienza dei
propri limiti, uscendo dalla condizione di onnipotenza sognante. A rigore
questa prima fase del processo sarebbe di competenza dei genitori. Ma
poiché non si può chiedere a questi di portare i propri figli oltre il
livello che loro stessi hanno raggiunto, raramente la famiglia è stata ed
è all’altezza del compito di consegnare alla società individui autonomi e
pienamente svezzati. Di qui la necessità di luoghi e istituzioni in cui si
tenta di sopperire alle lacune dell’educazione domestica e di correggere
le storture da essa derivate.
Una prima fase del lavoro è dunque di carattere riparativo. Il sacerdote
(o lo sciamano, in culture ancora più antiche) o il terapeuta assume su di
sé alcune funzioni di tipo materno o paterno adottando temporaneamente (a
volte in permanenza, ma questo è un suo problema) e per alcuni aspetti il
fedele o il paziente come figlio. E’ evidente che il rapporto che si viene
a creare non può essere semplicemente sostitutivo, a causa dell’intrinseca
contraddittorietà delle relazioni che su questa base si stabiliscono.
Infatti sullo sciamano o sul terapeuta si riversano aspettative che in
parte sono realistiche, ma in un’altra parte, solitamente più estesa, non
lo sono. Inoltre il portatore di entrambi i tipi di aspettative di regola
se ne difende in molti modi, negandole e rimuovendole, perché a causa di
esse si trova esposto a frustrazioni o a dipendenze umilianti.
Il terapeuta deve pertanto, come i suoi predecessori, creare un rapporto
che faciliti la regressione, cioè l’emergenza dei desideri e dei bisogni
arcaici; per poi discriminare quelli che meritano risposte positive dagli
altri di cui deve essere mostrata l’illusorietà. Questa distinzione non è
semplice e si presta a fraintendimenti e manipolazioni.
Da un lato la stessa esistenza di caste sacerdotali ha comportato
inevitabilmente in ogni tempo l’interesse a mantenere i fedeli in uno
stato di soggezione e dipendenza. Gli stessi sacerdoti del resto sono
tenuti al rispetto delle regole di un sistema dogmatico e gerarchico che
mette ciascuno al suo posto: è il prezzo per la conservazione di una
struttura che offre sicurezze a tutti, dalla base al vertice della piramide.
Che le cose vadano oggi come sono sempre andate lo dimostra il sistema di
selezione e formazione degli psicoanalisti. Se non ci credete, sentite che
cosa ne scrivono loro stessi:
“Ciò che noi consciamente ci proponiamo di conseguire presso i nostri
candidati è lo sviluppo di un io forte e critico. Le caratteristiche del
nostro comportamento come analisti didatti, nonché il nostro sistema di
training, vanno in direzione del tutto contraria a questo traguardo
conscio: le cose funzionano in maniera tale da condurre sicuramente il
candidato a un indebolimento di queste funzioni dell’io” (Balint). “Il
sistema di training dell’istituzione psicoanalitica è espressione di una
politica di potere, come si può rilevare dal processo di selezione, che è
irrazionale e inumano, una barriera che può essere superata solo da chi si
adatta e si sottomette, e dall’analisi didattica, che approfondisce il
processo di infantilizzazione iniziato con la selezione” (Cremerius).
Una prima difficoltà è dunque questa: il sistema sacerdotale può
assecondare e favorire le tendenze regressive non per una finalità
terapeutica, ma per la propria conservazione. Sono lieto di annunciarvi,
cari amici, che voi vi trovate da questo punto di vista in una condizione
più vantaggiosa. Nonostante il fatto che la tentazione di spingere o
mantenere vostra moglie o vostro marito in uno stato di minorità si faccia
sentire anche da voi (appoggiandosi agli stereotipi del “sesso debole” o
del genere “gli uomini sono tutti bambini”, perpetuati con soddisfazione
da una parte e dall’altra della barricata), la vostra è una relazione
sostanzialmente paritaria, perlomeno in questo secolo e in Occidente. In
mancanza di un interesse stabilito a mantenere il dominio culturale di una
parte sull’altra, il gioco relazionale può svilupparsi più liberamente e
riflettere più fedelmente i bisogni reali dei partner.
Dal lato opposto la regressione è meno favorita di quanto potrebbe essere
utile per il timore di produrre situazioni imbarazzanti o difficili da
gestire. A questo si deve, tra l’altro, il permanere del tabù del contatto
fisico: una modalità di rapporto tanto ricca di potenzialità terapeutiche
quanto fortemente avversata o severamente proibita dalla maggior parte
delle scuole. Tuttavia la logica stessa della relazione analitica-terapeutica
sembra richiederlo.
Abbiamo già osservato che quasi tutti i terapeuti hanno abbandonato la
fantasia di essere per il paziente uno schermo bianco e si sono arresi
all’inevitabilità dell’interazione. Il terapeuta non può mai rendersi
totalmente impersonale: lo stesso sforzo prodotto in questo tentativo
mostra qualcosa di lui, delle sue scelte e delle sue paure. Di conseguenza
anche ciò che il paziente fa e dice è almeno in parte una risposta al suo
comportamento. Il mancato riconoscimento di questa componente non può che
avere effetti nefasti, come sempre avviene quando qualcuno si muove senza
avere il polso della situazione in cui si trova (al passo della ben nota
danza dell’elefante nella cristalleria).
Una volta raggiunta, per quanto a fatica e a malincuore, la consapevolezza
di questo stato di cose, i terapeuti si dividono grosso modo in due
gruppi. Quelli del primo cercano comunque di ridurre al minimo la propria
presenza personale: stabilita l’inarrivabilità del modello del puro
specchio riflettente (e respingente), s’ingegnano tuttavia di
avvicinarvisi per quanto possono, nella non scalfita convinzione della sua
bontà. Quelli del secondo si trovano invece di fronte a un passaggio
simile a quello in cui s’imbatté il capostipite di tutti noi quando si
rese conto, con iniziale disappunto, che le sue pazienti tendevano a
sviluppare un interesse per la sua persona che poteva anche sopravanzare
quello per la cura stessa. Gradualmente il fastidio lasciò il posto
all’apprezzamento per un’evenienza che, mettendo in scena una
rappresentazione intensamente vissuta, offre al soggetto una preziosa
opportunità di coglierne il significato.
Il passaggio successivo, che spetta a noi (Freud ha già dato, non
chiediamogli troppo), consiste nel prendere parte attiva alla
rappresentazione del paziente, assumendo uno dei ruoli previsti dal suo
copione. Mentre i terapeuti del primo gruppo rifiutano sdegnosamente di
stare al gioco e non possono fare altro per coerenza con la loro scelta
speculare (salvo poi trovarvisi coinvolti loro malgrado per la logica
ineludibile del processo), quelli del secondo, più pragmatici, si chiedono
caso per caso se una determinata domanda vada semplicemente rispecchiata
perché ne sia visto il carattere immaginario, o meriti una messa in scena
nel teatrino della terapia, in cui anche al terapeuta sarà assegnata una parte.
Va da sé che lo psicodramma sarà tanto più efficace quanto più la
partecipazione di entrambi sarà effettiva e sentita e quanto meno
assomiglierà a una recita senz’anima. Voi capite bene (vi sembrerà strano,
ma non tutti lo capiscono, nemmeno tra gli addetti ai lavori) che la
stessa idea di fare psicoterapia senza metterci l’anima è un controsenso.
Detto questo, aggiungo che l’era postfreudiana ha visto un graduale
spostamento dell’attenzione dalla vicenda edipica, notoriamente
triangolare, alla fase preedipica, cioè alla diade madre-bambino. Ci
troviamo sempre di più a esplorare esperienze decisive che risalgono al
periodo precedente l’acquisizione del linguaggio.
A questo punto sono certo che vi verrà spontanea la domanda: come possiamo
pensare che una relazione puramente verbale sia in grado di riparare dei
guasti originati in una fase preverbale? La risposta standard, da cui non
vi lascerete confondere, è questa: il paziente non ha bisogno d’altro che
di un lettino per regredire fino alla vita intrauterina, e della
partecipazione empatica di un analista per rivestire di parole, e quindi
elaborare e integrare, qualsiasi esperienza muta.
Quando ero più giovane mi faceva infuriare chiunque pretendesse di sapere
di che cosa avevo bisogno senza nemmeno avermi ascoltato. Con il passare
del tempo ho imparato a dosare meglio i miei umori. Benché qualche volta
mi irriti ancora, in generale ho deciso che coloro che sanno le cose a
priori non meritano la mia rabbia, ma solo la mia e la vostra compassione.
Tornando alla questione: se io da piccolo, da piccolissimo, non mi sono
sentito sufficientemente tenuto, contenuto e sostenuto, nel senso
elementare, insieme affettivo e corporeo, dell’esperienza, e di
conseguenza mi sono costruito intorno un guscio protettivo per
sopravvivere; vi sembra logico, o anche soltanto probabile, che io sia
disposto a uscire da quel guscio abbandonando le mie ultrasofisticate
tecniche di autocontrollo, se non trovo qualcosa che abbia una ragionevole
somiglianza con l’ambiente di cui quel piccolo dentro il bozzolo non ha
mai cessato di aver bisogno?
Prendete ad esempio il caso di Pietro, un insegnante sulla trentina
afflitto, oltre che protetto, da una ricca sintomatologia ossessiva.
Alcuni anni di lavoro non sono bastati a persuaderlo a lasciare la presa.
Pietro si stende sul divano. Chiude gli occhi, cerca di rilassarsi e di
abbandonarsi all’esperienza del momento. Immancabilmente nel giro di pochi
minuti sobbalza, annaspa con le braccia nell’aria come se stesse
precipitando nel vuoto. E’ alle prese con qualcosa che non può sostenere.
Se smette di pensare, di tenersi letteralmente assieme con il suo pensiero
ossessivo, sente di andare in pezzi.
Un giorno gli chiedo: “Pietro, posso fare qualcosa per lei?”. “Forse sì,
risponde lui dopo un po’, ma non so se è possibile”. “Lei dica quello che
le serve, poi vediamo”. Lui esita: “Dovrebbe mettermi le mani sul torace e
tenermi giù contro il divano, con forza; non so se si può fare una cosa
del genere in terapia”. “Perché no?”, dico io.
Pietro sente sotto di sé il divano e le mie mani sopra di lui. Smette di
sussultare, è tranquillo: qualcun altro lo tiene, per una volta non ha
bisogno di tenersi da solo.
Nella seduta successiva porta un sogno in cui mi incontra per la strada e
io faccio finta di non vederlo. “Lei è inaffidabile, mi dice; prima mi
tiene, poi mi lascia cadere”. Però chiede di essere tenuto di nuovo.
Intendo dire che: primo, il contatto fisico ha permesso, in questo come in
molti altri casi, un’esperienza di contenimento che nessun holding
empatico-interpretativo riesce di per sé a produrre. Secondo, questo
vissuto risveglia l’ambivalenza originaria relativa alla figura materna.
Terzo, la prosecuzione del lavoro consente sia lo sviluppo di
un’esperienza riparativa rispetto al contenimento difettoso ricevuto in
passato, sia l’elaborazione del conflitto tra bisogno di essere tenuto e
paura di essere lasciato (e/o invaso).
Non dovete pensare, amici, che la cosa riguardi solo Pietro e la terapia
professionale. Non ve ne avrei parlato se non pensassi che la cosa
interessa anche voi. Chi da piccolo non si è sentito abbandonato o
soffocato alzi la mano. A quei pochi tra voi che l’hanno alzata, chiedo
ancora: siete sicuri di ricordare bene i vostri primi due anni di vita? La
vostra mente cosciente non ricorda nulla di quel periodo, ma la vostra
memoria corporea ha registrato tutto l’essenziale. Se volete recuperarla,
non avete che da creare una situazione di intimità fisica con la vostra
compagna o il vostro compagno. Se vi sentite perfettamente a vostro agio,
vuol dire che avevate ragione ad alzare la mano. In caso contrario, siete
già pronti per l’esercizio che vi voglio proporre.
A turno, mettetevi nella posizione dell’infante tenuto in braccio, e
restateci quanto basta per entrare bene nell’esperienza. Potrete sentirvi
bene nella posizione della madre e a disagio in quella del bambino, o
viceversa. Se state male in tutte e due le posizioni mi congratulo con
voi, perché nonostante questo siete riusciti ugualmente a formare una coppia.
La situazione potrebbe evocare delle sensazioni erotiche. In questo caso
forse avrete fretta di uscire da questo stupido esercizio per dare corso a
un sano amplesso; o, al contrario, penserete che questo eccellente
esercizio vi dà finalmente la possibilità di prolungare una condizione di
intimità affettiva senza doverla pagare con un amplesso.
Cercate di essere semplicemente presenti alla situazione. Evitate i
giudizi e le spiegazioni, limitatevi a descrivere quello che sentite e vi
viene in mente. Non è detto che l’esperienza abbia subito un senso, non
abbiate fretta di dargliene uno. Tenete un diario di viaggio, fate
attenzione ai sogni e incontratevi almeno una volta alla settimana per una
seduta di “coterapia”. Gradualmente dalle sensazioni, dai pensieri, dai
ricordi e dai sogni comincerà a emergere un quadro significativo e
prenderà forma un processo.
Prima di partire, però, accertatevi che esistano le condizioni minime
perché la cosa possa funzionare. Dovete essere delle persone relativamente
sane, cioè non troppo nevrotiche, e dovete avere un partner disponibile e
motivato come voi. Siccome mi rendo conto che sto parlando dello zero
virgola zero qualcosa per cento della popolazione, per non restare con
quattro o cinque lettori vi esorto a continuare la lettura anche se
purtroppo per il momento non rientrate nelle condizioni dette sopra.
Ecco, in ogni modo, una variante meno impegnativa. In alternativa al
setting madre-con-bambino vi invito a considerare il meno inquietante
paziente-terapeuta. Le modalità sono le stesse, con la differenza che non
c’è contatto fisico. La chiave del gioco sta nel fatto che chi fa la parte
del paziente usa un linguaggio descrittivo dell’esperienza del momento, e
non discorsivo (aiuta molto tenere gli occhi chiusi). Chi fa la parte del
terapeuta ascolta in silenzio e interviene solo se è necessario per
incoraggiare o stimolare o comunicare la propria esperienza in risposta a
ciò che ascolta, mai per fornire spiegazioni o interpretazioni (non di
rado gratuite e fastidiose quelle dei professionisti, figuratevi le
vostre), meno che mai per emettere giudizi e sentenze. Terminata la seduta
(tempo medio da trenta a sessanta minuti), si invertono i ruoli: il
terapeuta diventa paziente e viceversa.
Molti di voi che si sono sentiti respinti dal primo esercizio potrebbero
non essere del tutto sfavorevoli alla variante. Forse arriviamo allo zero
virgola qualcosa per cento, corrispondente a una quota un po’ più elevata
di voi, che solo per arrivare fin qui avete già superato una selezione
abbastanza severa.
Ho iniziato il capitolo proponendovi di tornare all’antica distinzione tra
anima e spirito, che ritengo fruttuosa dal nostro punto di vista. In
effetti poi ho parlato solo dell’anima, cioè della dimensione psicologica
del lavoro di autoconoscenza, rinviando ai prossimi il discorso sullo
spirito, termine ancora più demodé con cui in altri tempi si indicava la
parte più propriamente filosofica del medesimo lavoro.
Ho già accennato alla guerra che i gruppi e sottogruppi della galassia
delle psicoterapie si fanno tra di loro. Non molto diversamente vanno le
cose in campo filosofico, dove si creano vasti schieramenti quasi
sovrapponibili a quelli dell’altro campo: filosofie analitiche contro
filosofie continentali da una parte, scuole scientifiche contro scuole
ermeneutiche dall’altra. La contrapposizione più generale, in questa
guerra di tutti contro tutti, vede gli psicologi schierati contro i
filosofi, in competizione per l’egemonia sullo stesso territorio, che è la
conoscenza dell’uomo.
Tutto questo è un prodotto della tendenza straordinariamente tenace a
stabilire con le teorie legami impropri di identificazione, caratteristica
dell’animale teoretico che noi siamo. Ma non è un destino ineluttabile.
Nulla ci obbliga a questo uso perverso, al quale siamo invece spinti
dall’angoscia di non sapere chi siamo. Angoscia che crediamo di dominare
grazie all’appartenenza a una scuola o una setta in cui ogni cosa trova il
suo nome e la sua spiegazione.
La guarigione dalla malattia teoretica passa per il ritorno all’atto
filosofico originario del non sapere. Cari amici, non voglio dirvi che la
pratica del non sapere è agevole, ma solo ricordarvi che è possibile e
forse anche necessaria per muoversi nel mare aperto dell’esperienza senza
farsi portare alla deriva da una delle innumerevoli correnti che la
percorrono.
Vedete bene che non è possibile essere “psicologi” senza essere al tempo
stesso “filosofi”. Chi pensa che lo sia scambia per scienza la propria
visione del mondo ed è pertanto un filosofo inconsapevole, cioè un cattivo
filosofo, e di conseguenza anche un cattivo psicologo. A parte questo, io
non credo che occorra una laurea per riflettere su ciò che ci costituisce
come uomini. Pertanto vi invito a condividere la mia diffidenza verso
coloro che presentano la filosofia e la psicologia come discipline
specialistiche di cui loro stessi sarebbero i cultori e i custodi, con un
linguaggio costruito apposta per tenervi a distanza. Sono persone che
cercano di espropriarvi di ciò che è da sempre vostro.
Procediamo allora, amici, se vogliamo riprenderci quello che è nostro,
armati della sola coscienza di non saper nulla, nella nostra navigazione.
VIII . Della madre e del padre
Ci risiamo. Lo spirito di gravità ha ripreso il sopravvento e mi obbliga a
parlarvi di cose serie e importanti. Per carità, ha assolutamente ragione:
sono cose serissime e importantissime, e io non posso né voglio sottrarmi
al mio dovere. E tuttavia, se l’equilibrio tra dovere e piacere si
alterasse troppo a sfavore del secondo io mi fermerei, per coerenza con
l’impegno preso all’inizio e perché non vorrei affliggervi con un testo
simile a tanti altri che hanno afflitto me, miei cari.
La corda seria vibra gravemente e con tono di rimprovero: “Perché ti
preoccupi di compiacere i tuoi lettori? Tu pensa a dire quello che hai da
dire, chi vorrà leggerti ti leggerà”. Può essere giusto, ma non vorrei
assomigliare a quegli insegnanti che tirano dritto con il programma
ministeriale, incuranti se qualcuno li segua o meno. Con la differenza che
gli infelici sui banchi sono costretti per lo meno a presenziare al rito,
mentre niente e nessuno potrebbe impedire a voi di chiudere un libro
divenuto indigesto.
In realtà, come sa chiunque sia stato alunno di quei professori, cioè come
sappiamo bene tutti, la leggerezza non è affatto sinonimo di facilità. Al
contrario, la pesantezza si addice ai pigri: non c’è che lasciarsi andare
alla forza di gravità per diventare pedanti e prevedibili, segno che
qualche automatismo mentale ha preso il comando e l’intelligenza è andata
a dormire.
Ancora una volta sono qui a esporvi le mie paure. Da un lato temo di
essere catturato dallo spirito di serietà, sempre pronto a ghermirmi come
un avvoltoio. Dall’altro per sfuggire a quel pericolo rischio di
alleggerire eccessivamente il mio discorso, mancando di lealtà nei
confronti di ciò che alla fine debbo pur dire. Qual è il giusto mezzo tra
questi estremi? Lo vado cercando a tentoni, a volte credo di trovarlo, più
spesso di sicuro lo manco.
Spero nella vostra comprensione e vi prego, anche nel vostro interesse, di
accordarmela: vi sarà più facile essere pazienti con voi stessi, quanto
sarete alle prese con il medesimo problema o con altri analoghi. Per
esempio, non conoscete nessuno che si aggrappa alla compagnia per paura
della solitudine, o piuttosto si barrica in questa per paura di quella?
Avete mai incontrato qualche fannullone che considera il lavoro con
sgomento, o qualche gran lavoratore che è perduto se non ha niente da
fare? O certe persone troppo gentili spaventate dalla propria rabbia, a
fronte di altre stabilmente rabbiose e incapaci di gentilezza? Per caso vi
siete riconosciuti in una di queste opposizioni, o in qualche altra
consimile che vi è venuta in mente? Benissimo, questo non può che
cementare la nostra alleanza e spronarci alla ricerca di una soluzione ai
nostri comuni dilemmi.
Sull’onda di queste polarità, torniamo a quella che abbiamo lasciato in
sospeso: l’anima e lo spirito; per osservare anche qui lo stesso fenomeno.
La riduzione dello spirituale allo psicologico e viceversa segnala la
difficoltà molto diffusa di cogliere e affrontare le tematiche specifiche
di ciascun ambito.
Per cogliere a colpo d’occhio il rapporto tra le due dimensioni può forse
esservi utile lo schema che segue:
Fig. 2. Il campo della terapia o della crescita. MP: asse psicologico.
OK: asse filosofico
La figura descrive graficamente lo spazio della relazione terapeutica. La
domanda del paziente mi pone nell’uno o nell’altro dei vertici di un
quadrato diviso da due diagonali. L’asse orizzontale congiunge i vertici M
e P, corrispondenti alle posizioni materna e paterna che cerco di occupare
come meglio posso quando il mio paziente direttamente o implicitamente lo esige.
Per esempio quando Pietro, che avete appena conosciuto, mi ha chiesto di
contenerlo fisicamente, mi ha attribuito una funzione materna. La sua
richiesta mirava a ottenere un contenimento migliore di quello ricevuto un
tempo, che non era stato all’altezza del bisogno. Sentendo che questa
volta la risposta era di suo gradimento, Pietro ha manifestato la sua
soddisfazione; dopodiché, nelle sedute successive, ha dato la stura a un
torrente impetuoso di rabbia nei miei confronti, mentre lo tenevo o più
esattamente grazie al fatto che lo tenevo. Una rabbia che non aveva mai
potuto dirigere sulla madre, incapace di reggerla, e aveva dovuto di
conseguenza ingoiarsi; costruendosi in seguito una spessa corazza
caratteriale per impedirle di esplodere, travolgendo tutto e tutti.
Sarebbe imprudente da parte vostra pensare di non avere niente a che
vedere con il caso di Pietro, anche se indubbiamente state meglio di lui.
Probabilmente gli assomigliate più di quanto abbiate sospettato - come gli
assomiglio io, del resto - per la semplice ragione che quasi tutte le
nostre mamme assomigliano poco o tanto alla sua. Il fatto è che nel nostro
paese di santi e di navigatori alle mamme, che non navigano, l’immaginario
collettivo assegna un ruolo di sante e martiri cui esse non possono
sottrarsi facilmente, trovando nella cultura in cui sono immerse tutti i
mezzi e gli incoraggiamenti necessari alla sua rappresentazione.
Ora, come potete pensare di arrabbiarvi con una santa e martire? Se ci
provate lei vi guarda senza capire e poi vi rimprovera dolcemente o, se
tardate a pentirvi, severamente (o, peggio ancora, rimprovera sé stessa e
si deprime). Meglio rimettere la mamma sull’altare e lasciar perdere.
Vi trovate collocati nell’opposto vertice paterno quando la persona di cui
vi state prendendo cura vi induce con il suo atteggiamento a rivolgerle la
domanda chiave: che cosa vuoi? Mi riferisco alla situazione, che di sicuro
conoscete bene, in cui qualcuno vi cerca, vi provoca, vi biasima, vi
blandisce, ma non vi dice chiaramente che cosa vuole: probabilmente perché
non lo sa nemmeno lui.
Quando eravamo abbastanza piccoli sapevamo bene che cosa volevamo.
Gradualmente questa coscienza è stata sepolta sotto strati e strati di non
si può, non si deve, è pericoloso, è inopportuno, e alla fine non ne
abbiamo saputo più niente.
Quando un bambino non ha ancora eretto e fortificato le sue barriere
difensive, la questione è più semplice. “Che cosa vuoi?”, domanda il
padre. “Voglio venire nel lettone”. “Va bene, ma fra mezz’ora te ne torni
nel tuo lettino”. “Ma io voglio restare qui”. “Mezz’ora e basta. Se no
resti piccolo”. “Ma io non voglio crescere”. “E noi non vogliamo un
bambino che resta piccolo”.
Questa è la differenza tra la madre è il padre, o più precisamente tra
funzione materna e paterna, da chiunque sia svolta (anche dalla nonna o
dalla tata): la prima accoglie incondizionatamente, il secondo pone
condizioni. Il padre mette il figlio di fronte alla necessità, anche se
sgradita, anzi sicuramente sgradita, di crescere. Processo che implica la
separazione dalla base sicura e infinitamente accogliente della madre.
In tempi fortunatamente andati alla domanda del bambino “perché?” poteva
seguire la risposta “perché sono tuo padre”. Oggi è facile che il figlio
replichi “e con questo?”. Quando il principio di autorità valeva come
tale, indipendentemente dal modo in cui era esercitato, il padre non era
tenuto a persuadere e motivare. Di qui la grave crisi in cui versa
l’istituto paterno nell’Occidente contemporaneo, cioè ovunque.
Se la vostra esperienza con la figura paterna è stata mediamente
insoddisfacente, non perdetevi d’animo. La relazione di coppia offre ampie
possibilità di recupero, e se non riuscite a rimediare nemmeno lì, vi
resta sempre l’ultima spiaggia della terapia. Se poi fallisse anche
questa, provate almeno a cambiare terapeuta prima di andare a Lourdes.
Vediamo dunque in che modo nelle relazioni di terapia e di coppia può
essere rimesso in scena il padre. Nella prima il paziente, che si presenta
con una varietà di problemi e di sintomi, si aspetta giustamente che il
terapeuta lo aiuti a capire il senso di ciò che lo affligge e a trovare
rimedi adeguati. Vede in lui un esperto, qualcosa di mezzo tra uno
scienziato e un consigliere spirituale. Voi, che leggevate Freud già alle
elementari, potete anche sorridere della sua ingenuità. Sapete, anche se
lui non lo sa ancora, che in realtà sta cercando soprattutto una mamma o
un papà.
Ebbene, carissimi, non vorrei turbare la vostra visione serenamente
freudiana del mondo, ma si dà il caso che chi si rivolge a un terapeuta
non sempre e non necessariamente è spinto dal bisogno urgente di rimettere
in scena la propria infanzia travagliata da desideri edipici e/o carenze
varie. Tanto è vero che esistono dei terapeuti, chiamati ad esempio
cognitivo-comportamentali o transpersonali, che non danno soverchia
importanza alle fantasie inconsce di cui sono oggetto, ma prendono
pressappoco alla lettera la richiesta che è loro coscientemente
indirizzata. Il procedimento di costoro è notevolmente simile a quello
degli antichi filosofi, impegnati assieme ai loro allievi in un lavoro di
liberazione dello spirito umano dalla tirannia delle passioni.
Di questo lavoro, che corrisponde all’asse verticale dello schema
riportato all’inizio di questo capitolo, vi parlerò nel prossimo. Mi
limito qui ad anticipare che ho preso a prestito le lettere K e O da Bion,
che le usa per indicare rispettivamente la conoscenza (knowledge) e
l’ignoto: sulla linea che unisce questi due poli si muove il filosofo. I
due assi orizzontale e verticale si intersecano nello schema come le due
modalità di intervento si intrecciano e si combinano nella realtà della
relazione, sempre che il terapeuta permetta al processo di svilupparsi in
funzione della sua logica interna e non lo costringa, come invece per lo
più fa, a muoversi lungo canali prestabiliti.
Abbiamo visto la figura della madre, vedremo quella del filosofo. Quanto
al padre, la sua funzione centrale è quella di riconoscere e neutralizzare
i tentativi di fuga dalle esperienze dolorose, riconducendo il figlio - o
colui che in quel momento occupa una posizione filiale - di fronte a ciò
che cerca di evitare, aiutandolo a farlo e persuadendolo dell’utilità di farlo.
“Caro dottore, non vedo perché dovrei portare qui i miei bisogni e
desideri, sapendo in partenza che le sue risposte sarebbero in ogni caso
molto al di sotto di quelle che cerco”. “Cara signora, dove, se non qui?”.
Questo non lo dico per partito preso, ma solo se sono state esplorate
tutte le possibilità alternative, e in particolare dopo avere appurato che
non esiste, né è prevedibile che esista in tempi brevi, un rapporto di
coppia in grado di reggere l’investimento in questione.
La signora non è convinta. “E’ vero che tutti gli uomini che ho conosciuto
finora mi hanno deluso, ma perché non potrei incontrare domani quello
giusto?”. “Potrebbe incontrarlo, ma temo che in breve la deluderebbe anche
lui, come del resto la deluderei io stesso”. “Dunque non c’è scampo?”.
“Non c’è scampo per nessuno”. “E allora che cosa ci guadagno a lasciare i
miei sogni?”.
Buona domanda. So per esperienza che se non riesco a coinvolgermi
affettivamente con una persona non potrò fare molto per lei. Se invece ci
riesco, ho da offrirle qualcosa che potrebbe persuaderla al rischio del
gioco. Pensate a un padre che non ha paura di abbracciare i suoi figli e
le sue figlie, pur sapendo che il contatto affettivo può evocare
sensazioni erotiche da una parte o dall’altra o da entrambe. Da questa
posizione affettiva, e solo da questa, potrei dire al mio o alla mia
paziente: “Mentre nei suoi sogni non rischia nulla, qui qualcosa rischia
senz’altro, ma proprio per questo può anche guadagnarci; in particolare
può fare l’esperienza del desiderio in un rapporto che le ripropone oggi
una figura genitoriale, con la certezza non assoluta ma ragionevole che
questa esperienza non condurrà a comportamenti incestuosi o
antiterapeutici”.
Cari amici, posso parlarvi della paura senza occuparmi di quella che ha un
posto d’onore nella fantasia dei popoli, la paura dell’incesto? Quando
aveva cinque anni, Elsa riferì alla madre delle sensazioni piacevoli che
provava quando lei la teneva in braccio. La madre rispose che quelle
sensazioni non erano belle e smise di prenderla in braccio. Circa
quarant’anni dopo, avendo alle spalle due matrimoni falliti e una terapia
in cui aveva accuratamente evitato ogni coinvolgimento personale, Elsa mi
confessò che prima ancora di iniziare un nuovo trattamento con me aveva
fermamente deciso che non avrebbe avuto “il transfert”. Tanto era
terrorizzata all’idea di riprovare quelle piacevoli sensazioni con
qualcuno che aveva inquadrato da subito nella categoria dei genitori.
Se un genitore (o un terapeuta) teme di perdere il controllo dei propri
impulsi, è ovvio che deve stare a distanza di sicurezza dagli oggetti dei
suoi insani desideri. Ed è ugualmente ovvio che in questi casi non può
svolgere un ruolo educativo o terapeutico, che dovrebbe pertanto
affrettarsi a delegare ad altri. Saremmo quindi autorizzati a ritenere, se
rimane al suo posto, che sia in grado di esercitare le funzioni di sua
competenza. Sappiamo bene che purtroppo non è così. Il genere umano ha
sempre incluso, e forse includerà sempre, una quota variabile di ladri, di
assassini e di genitori e terapeuti che abusano dei loro figli o pazienti.
E’ triste, d’accordo, ma se pensate che questo sia un buon motivo per
barricarsi in casa, o per tenere a distanza pazienti e figli, mi aspetto
che per coerenza smettiate di mangiare. Se invece continuate a farlo, pur
consapevoli del pericolo di prendervi un’intossicazione alimentare, credo
che per lo stesso principio non vorrete sottrarvi agli altri rischi del vivere.
Un terapeuta che abbraccia, metaforicamente o quando è il caso
letteralmente, un o una paziente, svolge una doppia funzione: materna in
quanto accoglie, contiene e sostiene; e paterna in quanto stimola, aiuta
ed eventualmente costringe a riconoscere bisogni e desideri e a prenderne
la responsabilità.
Avete già capito, naturalmente, che queste funzioni appartengono di
diritto a voi prima che a qualsiasi professionista; al quale può essere
richiesto di subentrare solo se e quando voi decidiate, per qualsiasi
motivo, di non esercitarle. Nel caso abbiate dei dubbi sulla vostra
convenienza a farlo, ricordatevi del nostro filo conduttore: la paura;
e in particolare quella che più di ogni altra vi unisce e nello stesso tempo
vi separa dal vostro partner: la paura - con il sotteso bisogno - di affidarsi.
E’ un sentimento così universale che gli esseri umani possono essere
divisi, a seconda di come ad esso reagiscono, in due grandi tipi. I primi
si proteggono dal rischio implicito nell’affidamento - il potere che diamo
a un altro di abbandonarci, opprimerci, manipolarci - semplicemente
negando il bisogno corrispondente, e trasformandosi in individui rigidi,
controllati e autosufficienti. I secondi ammettono invece senza riserve il
bisogno, ma immaginano di difendersi dai rischi connessi avvinghiandosi,
implorando, minacciando o altrimenti manipolando.
Se vi siete riconosciuti nell’una, nell’altra o in entrambe le categorie,
non inquietatevi, vuol dire che siete perfettamente nella norma. Non è
affatto normale invece, anzi è abbastanza raro, prendere coscienza di
questa situazione e decidere di porvi rimedio. Se vi attira l’idea di
appartenere a questa esigua minoranza, non avete che da persuadere la
persona cui siete affettivamente legati a impegnarsi assieme a voi in un
lavoro sul vostro legame, in cui il bisogno e la paura di affidarsi siano
posti esplicitamente in gioco.
Che cosa potrebbe convincere voi e il vostro partner a farsi coinvolgere
in un’impresa simile? La motivazione, mi dispiace dirlo, non potrebbe
essere diversa da quella che altrimenti vi spingerebbe a cercare una
terapia: una condizione di disagio, di crisi, di sofferenza. Fin qui
niente di difficile, il dolore è l’unica cosa che non manca in nessun
luogo. Ciò che invece per lo più scarseggia è la capacità e la volontà di
collegare il malessere ai nodi affettivi irrisolti: è di gran lunga più
popolare la scelta di attribuirlo a fattori oggettivi d’ogni specie o
all’altrui responsabilità, o ricorrere alla formula autoassolutoria
onnicomprensiva (sono fatto così).
Ho già appurato, cari amici, che voi siete forniti della capacità e della
volontà sopra dette in misura superiore alla media. Facendo dunque leva
sulle vostre doti non comuni, provate uno degli esercizi che vi ho
suggerito nel capitolo precedente, il cui senso potrà esservi più chiaro
alla luce di ciò che vi ho detto in questo.
Mentre abitualmente le tematiche affettive del rapporto sono variamente
intrecciate, e quindi complicate da questo intreccio, si tratta, in
sostanza, di creare degli spazi in cui i motivi dell’uno sono
relativamente e temporaneamente separati da quelli dell’altro. Stabilire
che nel gioco, a turno, uno fa la parte del figlio-paziente e l’altro
quella del genitore-terapeuta, significa creare un contesto che facilita
l’emergenza dei bisogni affettivi di una parte e mette alla prova la
capacità di risposta dell’altra.
In precedenza ho messo l’accento soprattutto sul bisogno primario di
essere accolti e ascoltati da qualcuno che non giudica, non spiega, non
insegna e non interpreta: un’esigenza fortemente sottovalutata nei
rapporti ordinari, e non di rado anche in quelli professionali.
Ho descritto, in altre parole, una posizione di tipo materno. Il lavoro in
questo vertice del quadrato facilita, per entrambe le parti, il recupero
dell’esperienza vissuta, depurata da giudizi e razionalizzazioni.
Se, d’altra parte, questa esperienza è per vari motivi dolorosa,
fastidiosa o umiliante, è probabile che uno se ne difenda in modi
inapparenti a lui stesso ma evidenti per l’altro: al quale consiglio
allora di spostarsi nell’angolo paterno, e di lì cercare di riportare il
fuggitivo a sé stesso con domande del tipo: che cosa ti sta succedendo?
che cosa senti, che cosa vorresti o ti dà fastidio in questo momento?
(Usate con parsimonia la domanda da manuale di psicoanalisi: che cosa ti
viene in mente?, per non cadere nella tentazione di mettervi a
interpretare il materiale che in tal modo avrete ottenuto).
Se il vostro compagno vi dice qualcosa in cui percepite un rimprovero o
una critica nei vostri confronti, l’ultima cosa che dovete fare è mettervi
sulla difensiva, come altrimenti fareste senza pensarci un momento. Al
contrario, vi conviene dare per certo che in ciò che vi viene detto ci sia
almeno una parte di verità, in una percentuale per il momento non
determinabile che può andare dall’uno al novantanove per cento,
probabilmente più vicina al secondo che al primo valore. Se poi anche
quella quota fosse piccola, resterebbe il fatto che l’altro ha bisogno di
esprimere il suo malumore per capirlo meglio, e sarà bene, nel suo e nel
vostro interesse, che riesca a vuotare il sacco.
Vi darete così reciprocamente un aiuto prezioso per vincere due paure
basilari: quella di non essere accettati quando non siete carini e
gentili, e l’altra di essere troppo piccoli e incapaci per affrontare
situazioni difficili o emozioni dolorose.
Non posso chiudere questo capitolo senza rispondere alla vostra obiezione
accorata: va bene giocare a mamma e papà, mi dite, ma non dimentichiamo
che siamo persone adulte, interessate anche ad altri giochi che tra
genitori e figli non sono ammessi, mentre per noi sono non solo leciti,
ma persino doverosi.
Permettetemi, amici, di sottolineare il secondo aggettivo da voi usato. Il
dovere coniugale è, naturalmente, il nemico numero uno del piacere: come
posso desiderare qualcosa o qualcuno che debbo desiderare? L’obbligo di
desiderare vostra moglie è il più potente incentivo alla trasgressione:
nulla diventa così desiderabile come la donna d’altri.
Se ora pensate, con timore o con speranza, che io voglia elogiare
l’infedeltà, mi affretto a tranquillizzarvi o a deludervi. Al contrario,
la decisione di non calpestare l’erba del vicino e di dare un limite
preciso alla vostra libertà di movimento è benefica per la vostra libido,
che difficilmente potrà evolvere fintanto che avrà il permesso di
scorrazzare in lungo e in largo senza confini e senza legge.
Come trattenere il desiderio all’interno della coppia senza trasformarlo
in un plumbeo dovere: ecco un problema formidabile, una sfida epocale, lo
scoglio sul quale i più grandi amori fanno naufragio. Voi, che avete già
imparato a non aspettarvi da me ricette miracolose, non vi aspetterete
nemmeno questa. Da me avrete, per il momento, solo la modesta proposta di
attrezzare un laboratorio in cui il tema potrà essere contenuto,
esplorato, analizzato e tolto, per cominciare, alla sua terribile immobilità.
Vi consiglio, in altre parole, di apprezzare l’inestimabile valore di una
zona franca, all’interno del vostro rapporto, in cui il dovere coniugale è
sospeso. In questa zona, coincidente con il luogo dell’esercizio di
comunicazione che vi ho suggerito, sarete finalmente liberi di essere
quello che siete e di sentire quello che sentite. Tutte le paure relative
al dover essere, al dover fare, al dover desiderare saranno private in
quest’area del sostegno normativo che abitualmente le alimenta e le
giustifica, e potranno essere viste in tutta la loro nuda inconsistenza.
L’unico dovere che qui rimane in vigore è la fedeltà alla vostra
esperienza cosi com’è, al di là o al di qua del bene e del male.
E’ vero che per questo lavoro le indicazioni che vi ho dato fino ad ora,
relative al versante psicologico della crescita, non bastano più. Ma non
avete, carissimi, che da passare al prossimo capitolo, dove troverete
tutto quello che vi serve per continuare la vostra proficua ricerca.
IX . Dello scienziato e del mistico
Lo so, ho lasciato a metà il discorso sul monito di Apollo, e voi
aspettate con impazienza che vi dica come va a finire. Dovete dunque
sapere che i Greci per un po’ si accontentarono della prima versione che
vi ho ricordato, cioè convennero che il dio, invitandoli a conoscere sé
stessi, li esortasse a prendere atto della distanza che li separava da
lui: a riconoscere, insomma, di essere dei semplici mortali.
Accettarono, pur senza troppo entusiasmo, il richiamo alla loro finitezza
perché sapevano, come sappiamo bene anche noi, a quali guai va incontro, e
quanti ne procura a chi gli sta attorno, l’uomo che crede di essere un
dio. E tuttavia questa soluzione - noi mortali quaggiù, gli dei lassù
sull’Olimpo - per quanto ragionevole e ordinata, non soddisfaceva
pienamente il Greco. Non c’è modo, si chiedeva, di lavare il bambino dalle
sue illusioni senza buttarlo via con l’acqua del bagno? Ma per avere una
risposta dovette aspettare Platone.
A capire il senso del precetto di Delfi, disse l’allievo di Socrate per
bocca del maestro - leggendo i suoi dialoghi non sappiamo mai bene chi dei
due sta parlando - ci aiuta il ricorso a un paragone. Come l’occhio non
può vedere sé stesso direttamente, ma deve specchiarsi in qualcos’altro,
ugualmente il conoscitore può conoscersi solo riflettendosi in un altro. E
che cosa trova, guardando in sé stesso, di diverso da sé? La parte
migliore dell’anima, che essendo simile al dio è altro rispetto a tutto
ciò di cui ha già riconosciuto la natura caduca e mortale. Questo nucleo
essenziale è altro rispetto a tutto ciò che di sé l’uomo vorrebbe
conservare - il corpo, l’immagine, le passioni - eppure solo in esso,
pensa Platone, l’uomo è propriamente sé stesso.
Così l’immortalità, cacciata dalla porta, rientra dalla finestra, direte
giustamente voi. L’idea che ci sia nell’uomo almeno una parte simile al
dio, e dunque immortale, è dura a morire. D’altra parte, siamo sicuri che
la sua dipartita ci renderebbe migliori e più felici? Se Apollo ci
ammonisce a non divinizzare il nostro io umano, sin troppo umano, la bontà
del suo consiglio non può sfuggire a nessuno. Ma se, fatto questo, ci
invita a non arrestarci, e a cercare in noi un quid sovrapersonale e
sovrumano che ci apparenta a lui, è difficile leggere in questa
esortazione un incoraggiamento alla regressione nel giardino d’infanzia.
Un tratto caratteristico di tutta la filosofia antica, greca e romana, è
quello di subordinare qualsiasi speculazione teorica a una pratica di
trasformazione dell’esistenza da un livello dominato dalle passioni
disordinate e dalle preoccupazioni correnti a un altro orientato intorno
al suo principio essenziale.
Lo stesso si può dire del pensiero orientale, il cui più illustre
esponente era arrivato alle stesse conclusioni di Platone un secolo prima
di lui e forse anche più lucidamente. Al riconoscimento della mortalità
corrisponde la dottrina dell’anatta: tutto ciò che nasce muore, tutto ciò
che è composto si decompone. Verità inoppugnabile tanto per la logica
quanto per l’esperienza, ma non per l’Occidente cristiano, tenacemente
aggrappato alla fede nell’immortalità non solo delle anime, ma persino dei
corpi. L’anima è destinata a decomporsi definitivamente come il corpo,
insegnava invece il Buddha: ma da questa disgregazione, e dal dolore che
comporta, qualcosa si salva. Questo qualcosa è anche per lui un quid
sovrapersonale che rende l’illuminato simile a un dio.
Se ora vi allarma il sospetto che io nutra speciali simpatie per i
platonici o per i buddhisti, sarà mia cura tranquillizzarvi citandovi un
pensatore inattuale del secolo scorso che ne aveva pochissime per
entrambi, e che tuttavia fece pronunciare al suo Zarathustra queste
parole: “Tu devi voler bruciare te stesso nella tua stessa fiamma: come
potresti volere rinnovarti, senza prima essere diventato cenere!”.
D’accordo, non sono parole troppo tranquillizzanti per il lavoro che vi
attende, ma io volevo rassicurarvi solo sulla mia non appartenenza ad
alcuna scuola, antica o moderna. Non ne avete bisogno? Avete ragione, sono
io che ho bisogno di ribadire la mia libertà di pensiero con una frequenza
che vi insospettisce. Diciamolo chiaro, il vostro (e il mio) dubbio: se
fossi davvero così libero come mi piace pensare, sentirei ancora
l’esigenza di riaffermare così spesso la mia autonomia rispetto a tutti i
miei padri?
Forse l’accostamento tra Platone, Buddha e Nietzsche vi sembrerà troppo
ardito. Sono differenti i temperamenti, gli orizzonti culturali e gli
stili di vita, eppure è simile, se non sovrapponibile, la lettura che
hanno o avrebbero dato del precetto di Delfi. Per tutti e tre conoscere sé
stessi significa in primo luogo accertare la finitezza e la mortalità del
nostro io; in secondo luogo riconsegnare la sostanza transeunte di cui
siamo fatti alla morte, cui del resto appartiene di diritto, per
risvegliarci alla parte oltreumana del nostro essere.
Se volete prendere la cosa per vera perché l’hanno detta quei grandi, fate
pure, ma poi non dite che ve l’ho suggerito io. In ogni caso, come ben
potete immaginare, io non lo faccio. Pur sapendo di fare una cosa scontata
e per di più sospetta, ripeterò ancora una volta che ai grandi io non
obbedisco né credo; però li rispetto e cerco di imparare da loro qualcosa,
se mi riesce.
Il fatto che uomini così lontani tra loro nel tempo, nello spazio e nel
carattere siano giunti a conclusioni così simili attira il mio interesse e
potrebbe attirare anche il vostro, carissimi, se vorrete riflettere sulla
circostanza che l’unica cosa che al di là di ogni dubbio ci accomuna è la
certezza della fine. Che progetti avete per il tempo che ancora vi separa
da quel momento? E quanto pensate che ve ne resti? Se considerate che
forse ne rimane, a voi e a me, meno di quanto ne vorremmo, converrete che
non è troppo ragionevole investire tutte le nostre risorse su quella parte
della nostra vita che potrebbe svanire nel nulla in ogni istante, senza
avere almeno tentato di appurare se ne esiste un’altra non toccata da
quella minaccia. Se, dunque, decidete che la questione è degna del vostro
interesse, i racconti degli esploratori che vi hanno preceduto possono
servirvi come traccia, ma l’esperienza deve essere la vostra, sempre che
non vogliate accontentarvi di quella altrui. In questo caso non vi
biasimerei, ma, se potete, aspettate a farlo almeno fino alla fine di
questo capitolo.
Lasciamo dunque da parte i timori reverenziali e osiamo indagare con il
nostro intelletto, cui non è giusto assegnare anzi tempo limiti troppo
stretti: esiste davvero in noi qualcosa che si sottrae alla giurisdizione
della morte? Permettetemi innanzitutto di attirare la vostra attenzione su
un’altra cosa che ci accomuna: io posso porre la domanda che precede in
quanto in primo luogo sono presente a me stesso e alla questione; e lo
stesso vale per voi. Prima di essere qualsiasi cosa (io scrittore e voi
lettori, per esempio) dobbiamo semplicemente esserci. La semplice presenza
è la base per ogni successivo esser qualcosa o qualcuno.
Questa presenza, peraltro, non è qualcosa che si possa dare per scontato,
tanto è vero che è molto più facile essere assenti a sé stessi e alla
situazione, sonnolenti o persi in qualche fantasticheria. E’ piuttosto un
dato potenziale che può realizzarsi o meno, e che per la maggior parte di
noi per la maggior parte del tempo non si realizza affatto.
Dove siamo quando non siamo presenti? Siamo altrove, rimuginiamo il
passato o sogniamo il futuro. Non siamo qui e ora, dove accade qualcosa che
non approviamo perché non è come dovrebbe essere. Gli antichi, che
intendevano il filosofare in primo luogo come una terapia delle passioni,
si riferivano in particolare a questa malattia. Le passioni sono paure e
desideri esagerati, dove l’esagerazione sta per una mancanza di
proporzione o di misura con la realtà presente e il conseguente
allontanamento da questa. La filosofia era per loro soprattutto un
esercizio spirituale: un allenamento a fermarsi nel momento così com’è,
frenando e gradualmente estinguendo la fuga nel dover essere (e nel dover
avere).
Ritorniamo al nostro tempo, in cui il dover essere è chiamato superio e il
dover avere es, e la psicoanalisi è la pratica filosofica che promuove il
rafforzamento della capacità di presenza a spese del soggiorno in quei
territori alienati. Ma l’io, il soggetto di questa pratica, è un’entità
assai precaria e problematica, che in questa disciplina si ritiene
derivata da uno dei territori che poi dovrebbe bonificare; un’istanza cui
si attribuisce il compito di mediare tra le esigenze delle altre due e
quelle della realtà esterna, ma non un fondamento su cui far valere
un’esigenza propria di libertà da tutti e tre i padroni.
Anzi, il solo accenno alla possibilità di un tale fondamento potrebbe
attirare sull’incauto che l’ha fatto l’accusa di spiritualismo, una delle
più squalificanti in un tempo in cui il mito della scienza detta norme e
valori. Per non attirarmela io stesso, mi affretto a chiarire che l’anima
e lo spirito di cui parlo non sono sostanze metafisiche, di cui non avrei
alcun titolo per parlare, ma categorie dell’esperienza, di cui invece
parlo con pieno diritto, purché sia la mia. In un modo che potrete
giudicare un po’ arbitrario, ma che non è tanto lontano da quello sancito
dalla tradizione, chiamo anima la dimensione psicologica dell’esperienza
che si radica originariamente nel rapporto con i genitori, e a partire da
questo si espande e si ramifica nel senso di interdipendenza e di
appartenenza reciproca tra esseri umani; mentre chiamo spirito la
dimensione filosofica dell’esperienza, che si fonda sull’intuizione di un
elemento simile al dio - la sapienza che il filosofo ama - e sulla
liberazione, grazie a esso, da ogni legame.
Ormai vi è chiaro il paradosso. Il processo della conoscenza di sé passa,
in un primo momento, per l’accettazione della condizione mortale e quindi
della dipendenza che ci lega gli uni agli altri; in un secondo momento per
la scoperta di un elemento non mortale che ci rende liberi da ogni
vincolo. Ma mentre la prima parte vi è del tutto evidente, non potete dire
lo stesso della seconda; anzi, non potete tacere il vostro sospetto che in
essa si nasconda quel nucleo di onnipotenza infantile che è felicemente
scampato alla riduzione nella fase precedente e ora rientra in scena
rimpannucciato e pimpante.
Che cosa posso opporre alla vostra validissima obiezione? Solo la mia
esperienza, che da un lato è poverissima, non potendo appoggiarsi ad alcun
testo sacro né ad alcuna autorevole istituzione, ma dall’altro è più ricca
di tutti i potenti di questa terra, se è vero, come a me sembra, che è in
grado di poggiare su sé stessa. Io sono qui, davanti ai vostri e ai miei
dubbi, e vi dico, come ha fatto a suo tempo un grande razionalista, che
posso dubitare di tutto ma non del fatto che sto dubitando: cioè della mia
presenza a me stesso nell’atto di dubitare, come in qualsiasi altro. A
differenza di quel grande, tuttavia, non partirò da questa consapevolezza
per spaccare il mondo in una sostanza pensante e un’altra estesa,
installandomi nella prima e guardando con sussiego alla seconda. In
effetti io posso essere presente anche senza pensare; anzi, se riesco a
non pensare del tutto lo sono ancora meglio, come quando sono attento al
respiro o a un abbraccio, in perfetto silenzio mentale.
Si è fatto a gara, in questo secolo che sta finendo, nello scovare gli
errori di Cartesio, che è stato accusato persino di assassinio della
psicologia, per aver separato lo spirito dal corpo. A parte il fatto che
se si volesse indagare su questo presunto delitto bisognerebbe almeno
risalire al mandante, che naturalmente è Platone, io non desidero
partecipare a questa gara. Al contrario, credo che dobbiamo essere grati
all’autore della formula cogito, ergo sum, per averci richiamato al punto
di partenza di ogni filosofia, che l’era moderna aveva smarrito. A patto
di tradurre cogito con io sono cosciente, e non io penso. E’ vero che
anche la seconda traduzione ha una parziale legittimità, ma andiamo con
ordine. Prima di tutto voi volete sapere che cosa c’entra il cogito con
l’immortalità.
Se permettete, io girerei la domanda: che cosa c’entra la morte con il
cogito? E risponderei: niente. Finisce tutto ciò che ha avuto inizio,
dunque tutto ciò che vive nella durata. In effetti niente dura, di ciò che
esiste nella durata: né il corpo, né l’anima. Ma lo spirito, il cogito,
esiste solo nel presente. E’ la semplice presenza che non è destinata a
decomporsi perché, non essendo composta, non è decomponibile.
La percezione del nostro esserci è complicata dal fatto che esso di solito
si identifica e si confonde con i suoi predicati. Chi siete?, vi domando.
Voi mi rispondete: sono Giacomo o Carolina; sono un grafico o una
logopedista; sono di sinistra o di destra; sono ateo o credente; amo il
cinema o la musica rock; e così via. Ma io vi domando ancora: chi siete
veramente? Il nome potete cambiarlo, la professione, le idee politiche, il
credo e i gusti anche; persino il sesso potete cambiare, se proprio ci
tenete. Mettete tra parentesi tutte queste cose, in fondo accidentali e
aleatorie: quello che rimane è solo la coscienza indubitabile di esserci:
il cogito.
Vi ho chiarito che quando parlo di spirito non faccio della metafisica -
non nel senso deteriore che il termine ha assunto oggi, almeno - ma mi
riferisco solo alla più elementare delle esperienze. Ora mi rimane da
mostrarvi il potenziale liberatorio della semplice presenza. Il lavoro
precedente, sull’asse orizzontale o psicologico, riguardava la nostra
dipendenza dalle persone che rispondono ai nostri bisogni e si prendono
cura di noi. Se ora ci spostiamo sull’asse verticale non è per negare la
nostra natura di esseri limitati e dipendenti, ma per vedere se, oltre a
questo, siamo anche qualcos’altro.
Ricordo bene la piazza di Milano che stavo attraversando in un tristissimo
pomeriggio di adolescente improvvisamente illuminato da un pensiero: io
posso pensare. Qualsiasi cosa accada, nessuno può impedirmi di staccarmi
dalla scena e osservarla con calma dall’esterno, come se fossi uno
spettatore del film cui prendo parte come attore.
Fu la mia personale scoperta del cogito. In quel momento seppi che ero
salvo. Il mondo poteva anche crollare, io sarei stato lì a vedermi lo
spettacolo. Penso, dunque sono. Tutto ciò che esiste nello spazio e nel
tempo posso dominarlo con la mente o lasciarlo al suo destino. Io, il
pensatore, non ne sono toccato.
Bella onnipotenza, obietteranno i pochi freudiani incalliti che ancora
resistono tra voi. Un ragazzo triste e spaventato si rifugia in sé stesso
perché non sa venire a patti con un mondo incomprensibile. Che libertà è
mai questa?
Una libertà cartesiana, miei cari. Una mezza libertà, in effetti, ma è
meglio che niente. Una manna, a quell’età. Vi dicevo che tradurre cogito
con penso è parzialmente legittimo: lo è nel senso che il pensiero, inteso
come osservazione distaccata e distanziante delle cose, è una delle due
modalità della presenza. Ma è da lì che si comincia: non vedo come
possiate salvarvi dal risucchio nel flusso magmatico e mesmerico degli
eventi se non avete imparato a prenderne le distanze.
La coscienza ingenua preriflessiva si identifica immediatamente con quello
che vive. Se si sente aggredita o colpevole, vuol dire che c’è stata
un’aggressione o è stata commessa una colpa. La coscienza cartesiana (K,
nel nostro schema) dubita di tutto: non so se è veramente accaduto, potrei
averlo sognato. Socrate avrebbe detto: sembra che ci sia stata
un’aggressione, ma poiché non sappiamo nulla con certezza, indaghiamo.
Furono gli stoici a portare questa posizione alla massima chiarezza. Nella
celebre sentenza di Epitteto (“gli uomini non soffrono per gli eventi, ma
per le loro opinioni sugli eventi”) c’è già tutta la terapia cognitiva. Lo
spirito sovrano prende le distanze non solo dagli eventi esterni, che
appartengono al mondo, ma anche dalle opinioni, che appartengono
all’anima. I primi non sempre si possono cambiare, ma le seconde sì, una
volta scoperto che noi non siamo queste né quelli.
Quale sia l’altra modalità della presenza, l’avrete già capito. Se con
l’una si esce dal vissuto, con l’altra vi si rientra. Nei termini più
semplici: la libertà dalle emozioni e quella di viverle fino in fondo sono
i due modi simmetrici della presenza. Libertà da e libertà di.
Vedete bene che la facoltà di uscire di casa, se non è accompagnata da
quella di rientrarvi, non è granché; e lo stesso vale per la condizione
opposta. E’ vero che, se la casa brucia, conviene pensare prima di tutto a
mettersi in salvo (com’era stato il caso del ragazzo sopraccitato, assai
felice di avere trovato l’uscita e dispostissimo a restare senza fissa
dimora, avendo ben soppesato i pro e i contro della vita famigliare). Ma
lo spirito non ama restarsene in disparte troppo a lungo. Anche la
presenza ha un suo tempo, che non è il tempo della durata, ma quello del
ritmo e del ciclo: dentro e fuori dal mondo, fuori e dentro la vita
dell’anima e del corpo.
Non avevano ragione di chiamare divina questa presenza gli antichi e il
pensatore inattuale? Voglio ricordarvi la descrizione nietzscheana del dio
Dioniso che vive in noi come genio del cuore, posto che sappiamo
risvegliare la sua/nostra presenza.
“Il genio del cuore che fa ammutolire ogni voce troppo sonora e ogni
compiacimento di sé e insegna a porsi in ascolto, che leviga le anime
scabre e infonde loro un nuovo desiderio da assaporare - quello di
starsene taciturni come uno specchio affinché in esse si rispecchi il
profondo cielo… Il genio del cuore che insegna alla mano maldestra e
precipitosa l’indugio e una maggiore delicatezza nell’afferrare: che sa
divinare il tesoro occulto e obliato, la goccia di bontà e di dolce
spiritualità sotto un ghiaccio torbido e spesso, ed è una bacchetta magica
per ogni granello d’oro, che a lungo sia restato sepolto nel carcere di
molto fango e sabbia; il genio del cuore, dal cui tocco ognuno si diparte
più ricco, non graziato e stupito, non beneficato e oppresso come da un
bene estraneo, sebbene più ricco di sé, più nuovo che per l’innanzi,
dissigillato, alitato e spiato da un vento astrale, forse più insicuro,
più delicato, più fragile, più infranto, ma colmo di speranze che non
hanno ancora un nome, colmo di un volere e di un fluire nuovo, colmo di
una nuova riluttanza e di un nuovo riflusso…”.
Al genio del cuore del filosofo corrisponde con eccellente approssimazione
la figura del mistico di Bion: colui che mettendosi in ascolto del cuore
ignoto dell’essere ne riceve ispirazione e linfa vitale. Il mistico - la
presenza nel vertice O del nostro quadrato - sta al mistero come lo
scienziato sta alla conoscenza.
Il movimento del cogito non è un semplice andirivieni da e verso un mondo
che rimane costante. Dopo aver preso le distanze dalla realtà, la presenza
si apre al mondo della possibilità. Il terapeuta osserva da una posizione
neutra (vertice K) tutto ciò che accade - è più esatto dire che
neutralizza in continuazione e per quanto può tutte le aspettative e
preconcezioni che interferiscono con la sua visione - e incoraggia il suo
paziente a fare altrettanto. Quindi, spostandosi nel vertice opposto,
cerca di sintonizzarsi con la dimensione ignota (O) - con l’inconscio, se
preferite - per cogliere, assieme all’altro, tutte le potenzialità
inespresse di una situazione che appare chiusa e bloccata.
La capacità di mettersi nella posizione del mistico, vale a dire di
immergersi nel mondo delle infinite possibilità per riemergerne con
soluzioni nuove a vecchi problemi - corrispondente al volo magico con cui
i nostri antenati sciamani si recavano nella dimora degli spiriti per
averne indicazioni sulla cura delle anime - è la funzione cruciale di ogni
terapeuta degno del nome: con esclusione, cioè, di tutti coloro che,
incapaci di silenzio, non attingono le loro risposte dal cuore dell’essere
che non sanno ascoltare, ma dall’archivio di soluzioni preconfezionate
apprese sui banchi e i divani delle loro scuole.
Questo vale nel modo più evidente e necessario per la terapia, carissimi,
ma si applica ugualmente a ogni situazione in cui sia in gioco il
risveglio del cogito dalle brume del dover essere e del dover avere in cui
è avvolto. E poiché in quelle lande caliginose si aggirano e prosperano i
fantasmi di ogni angoscia esistenziale, se volete liberarvene non avete
che da rischiararle con la vostra presenza.
Voi esitate, e vi capisco. Avete appena iniziato a bonificare la vostra
mente dai suoi terrori infantili grazie all’esperienza correttiva, materna
e paterna, che vi fornite vicendevolmente; e già vi trovate di fronte a un
compito nuovo e ben più formidabile. E tuttavia io vi chiedo: se non
volete far vostra la capacità divina di muovervi sulla linea che unisce la
conoscenza e l’ignoto, a chi pensate di delegarla? Suppongo, nell’ipotesi
migliore, a coloro che ne hanno la competenza istituzionale, gli
scienziati e i preti, nelle cui mani vorrete consegnare la vostra vita. Se
quelle mani vi sembrano più affidabili delle vostre, fate bene. In caso
contrario, potrebbe interessarvi quanto segue.
X . Platone versus Freud
Il più è fatto. Dei quattro personaggi dell’umana e divina commedia che vi
ho presentato almeno uno è sempre in scena in ogni azione che abbia per
tema la paura e il suo superamento. Se volete prendere parte al gioco,
dovete disporvi a indossare l’una o l’altra delle maschere, a seconda
delle esigenze del copione che si viene via via scrivendo.
Parlo di maschere e di commedia perché non vi venga la tentazione di
prendere tutta la questione troppo sul serio, ora che avete imparato a non
prenderla alla leggera. Vi metto in guardia, in particolare, dal pericolo
di elevare i quattro personaggi al rango di figure archetipiche, come
potrebbe accadervi nel caso l’analista sul cui divano vi siete allungati o
nella cui poltrona vi siete rannicchiati per molti anni avesse mostrato
un’inclinazione in tal senso.
Da me, certo, non vi aspettate una mappa dell’essere, con quattro enti ben
installati ai quattro angoli del mondo a fare buona guardia sull’ordinato
andamento delle cose, e magari una quinta essenza a tenere assieme il
tutto. Non ho titoli, vi è ormai chiaro, per avventurarmi in costruzioni
metafisiche; ma ho bisogno, come tutti i naviganti, di carte nautiche e
strumenti di viaggio.
La divisione in quadranti del territorio racchiuso dalla linea
dell’orizzonte, con le quattro figure nei punti cardinali, mi permette di
definire in ogni momento la mia posizione e la direzione in cui mi sto
muovendo. Posso dire, ad esempio: procedo in senso paterno-scientifico,
come un marittimo direbbe: rotta a nord-est.
Il navigatore si orienta con il sole e con la stella che sta allo zenit
del polo nord, io con le funzioni genitoriali e filosofiche. In entrambi i
casi la scelta non è arbitraria, ma è dettata dalla particolare situazione
dell’uomo tra terra e cielo.
Se il vostro naviglio incrociasse sotto l’equatore, cerchereste un’altra
stella. Se il vostro orizzonte fosse diverso dal mio, potreste trovare più
conveniente orientarvi su altre figure; se poi preferiste dividerlo in
cinque o sei parti, anziché in quattro, non avrei obiezioni. Ma non credo
che voi ne abbiate sul principio: l’importante è sapere dove si sta
andando.
Dove stiamo andando? Nel paese della libertà, altrimenti detto utopia come
il filosofo era detto dai Greci átopos, che vuol dire incollocabile:
perché la sapienza che ama e la libertà che cerca non si trovano in alcun
luogo dello spazio e del tempo.
Che sia questa la nostra direzione sono autorizzato a pensarlo
dall’oggetto stesso del nostro discorso. Se mi seguite in queste
riflessioni sulla paura, non mi pare azzardato ritenere che sia perché
anche a voi non dispiacerebbe liberarvi dalla sua morsa. E forse a questo
punto anche voi vi chiedete: come potrebbe non sentirsi attanagliato dal
timore un essere psicologicamente e spiritualmente debole? Traendo dalla
vostra domanda la conseguenza necessaria che chi vuol esser libero non ha
che da rafforzarsi sull’uno e l’altro asse della sua persona.
E chi può rafforzarsi? Voi e io che conosciamo la nostra debolezza, non
certo chi, ignorandola, si trova nella condizione di non poter neppure
iniziare questo cammino. Che tale consapevolezza sia necessaria, ma
purtroppo insufficiente, è mostrato peraltro dalla sterminata schiera di
coloro che nella debolezza si adagiano come fosse il più confortevole dei
giacigli.
Questa strana malattia merita di essere ben indagata, non tanto per
curiosità scientifica quanto perché sarebbe rischioso per voi e per me
illuderci di esserne immuni. Stendiamo un piccolo elenco di fenomeni che
appartengono a questa sindrome.
Al primo posto metterei la convinzione che la debolezza comporti
automaticamente il diritto alla protezione e all’assistenza da parte dei
forti: idea che dall’infanzia, in cui è fisiologicamente fondata, trapassa
per molti nell’età adulta producendo e alimentando le aspettative più
tenaci ma di per sé non irrealistiche, dal momento che non di rado
incontrano chi è disposto a legittimarle. Si va dagli amorevoli genitori
del subcontinente indiano che storpiano vistosamente i figli per assicurar
loro un reddito a vita da elemosina, alle masse nostrane che puntano alla
pensione di invalidità come al più ambito dei riconoscimenti.
Si può andare e si va ancora più in là: la debolezza, con la relativa
sofferenza, è trasformata in un merito da premiare, se non in questa vita
almeno nell’altra, che deve necessariamente esistere se non altro per
garantire la regolare consegna del premio. Chi al riguardo non ha dubbi
riesce per lo meno a rasserenarsi nell’attesa della giusta ricompensa, che
sarà tanto più lauta quanto più grave è l’ingiustizia attualmente patita.
Chi invece conserva qualche dubbio, cerca di farsi giustizia da sé
coltivando la pianta del risentimento che è, sì, velenosa come tutte le
sostanze inebrianti, ma è anche dotata di un potente effetto consolatorio.
Fin qui, direte voi, è psicologia elementare: chi si sottrae al piacere e
al dovere di rafforzarsi lo fa perché ricava dalla sua debolezza vantaggi
reali o immaginari che lo compensano quanto basta. E tuttavia questa
spiegazione non vi soddisfa del tutto, perché lo spettacolo del masochismo
morale che celebra sotto i vostri occhi i suoi fasti quotidiani ha in sé
qualcosa di grandioso, vorrei dire di metafisico, comunque irriducibile ai
modesti calcoli sopra riportati.
C’è qualcosa di inesplicabilmente attraente nell’atto di lasciarsi
affondare nella sconfitta, nell’umiliazione e nel fallimento. Si direbbe
che in tal modo sia soddisfatto un istinto primario, detto di décadence o
di morte rispettivamente da Nietzsche e Freud, che più acutamente di altri
hanno avvertito la sua cupa e onnipervasiva presenza. Il fatto che questa
parte della teoria freudiana sia stata quasi unanimemente rifiutata dagli
psicoanalisti la dice lunga, considerando la loro devozione al maestro,
sulla resistenza che tutti noi opponiamo al riconoscimento dell’attrazione
fatale.
Per liberarci della paura che è naturalmente inerente a ogni condizione di
debolezza dovremmo diventare più forti. D’altra parte il cedimento a tutto
ciò che ci indebolisce è molto più desiderabile, come ben sapete. Trovo
giusto il detto di Zarathustra: l’uomo è un cavo teso tra il bruto e il
superuomo, che significa: l’uomo è un essere che si distingue per la sua
capacità di abbrutirsi come di superarsi. Alle due possibilità
corrispondono due impulsi, di cui vi propongo di analizzare le
manifestazioni sullo scenario onirico.
Che rapporto avete con i vostri sogni? Spero che abbiate l’abitudine di
trascriverli regolarmente sul vostro diario di bordo. Se non l’avete, vi
suggerisco di prenderla: è un modo eccellente per curare il dialogo con il
vostro inconscio, e Dio sa se ne avete bisogno. Trascurarlo è come
infischiarsi di che cosa pensa il socio principale della vostra azienda.
Avete smesso di segnarli perché non ci capite granché? Forse vi siete
scoraggiati dopo aver letto l’Interpretazione dei sogni di Freud. In
questo caso, vi capisco. Ci sono almeno due ragioni per non seguire le
indicazioni di quel testo (dopo averlo doverosamente letto). La prima è
che il metodo delle libere associazioni, se applicato ai sogni, vi
complica inutilmente la vita. Aveva osato dirlo Jung per primo, ma poi la
sua osservazione è stata raccolta anche in campo freudiano: in particolare
da Fornari, a mio parere uno degli analisti più originali e meno
parrocchiali che si siano mai visti dalle nostre parti.
Che cosa ha detto Fornari? Che il testo di un sogno può essere
interpretato come qualsiasi altro, ad esempio il verbale di una riunione
condominiale, semplicemente ricostruendo la trama affettiva che
sottintende qualsiasi discorso umano, quale che ne sia il contenuto
manifesto. Per far ciò non abbiamo affatto bisogno di ampliare il testo
del sogno con le libere associazioni del sognatore, come suggeriva Freud,
e tanto meno con quelle che l’analista attinge al suo ricco data base
mitologico, come ha invece proposto Jung.
Di che cosa abbiamo bisogno allora? Di nient’altro che di un mazzetto di
unità elementari di significazione (o coinemi, come li chiamava Fornari):
i parentemi (padre, madre, figlio), gli erotemi (parti del corpo e azioni
legate alla sessualità), la nascita, la morte. A questi io aggiungerei
solo i due impulsi basilari: di vita (di crescita, rafforzamento,
guarigione) e di morte (di decadenza e annientamento). Il primo è sovente
personificato nei sogni come terapeuta interno (che ha, come quello
esterno, i tratti di una o più delle quattro figure che conoscete).
Il secondo motivo per cui non vi consiglio di seguire il metodo freudiano
è la sua unilateralità. Il soggetto inconscio della psicoanalisi è un
furfantello lascivo, iroso e vendicativo, animato unicamente dalla volontà
di soddisfare i suoi desideri, per lo più ignobili, mascherando le sue
vere intenzioni con un abile lavorio che abbastanza spesso gli permette di
renderle irriconoscibili. Purtroppo è vero, è verissimo che in noi abita
un tale manigoldo, e la nostra riconoscenza per l’uomo che ce lo ha fatto
impietosamente vedere, distruggendo per sempre le nostre illusioni su noi
stessi, deve essere imperitura come quella che abbiamo per i massimi
benefattori dell’umanità.
Ma è ugualmente vero che nel nostro inconscio non abita solo quel
personaggio, per quanto la sua presenza possa essere così ingombrante da
offuscare qualsiasi altra. Ho riletto i sogni di Freud alla ricerca di una
volontà inconscia diversa da quella da lui implacabilmente braccata e
sbugiardata, ma non ne ho trovato traccia. Del resto, non me ne
meraviglio: il padre della psicoanalisi ha selezionato il suo materiale in
funzione della tesi che doveva dimostrare. Per non espormi alla stessa
accusa, io seguirò un procedimento differente. Non farò alcuna scelta, ma
trascriverò qui di seguito i due sogni che ricordo della notte scorsa.
Ecco il primo. Uscendo da un parcheggio commetto un’infrazione. Un vigile
me la contesta. Io mi giustifico e chiedo che la contravvenzione sia
annullata. Il vigile è visibilmente irritato dalla mia richiesta. Risponde
che se voglio mi cancellerà la multa, ma non sarebbe giusto. Riconosco che
ha ragione, e accetto di pagare. Ed ecco il secondo. Sto affrontando
alcune prove per essere assunto in una società. Trovo che alcune di queste
(non ricordo quali) siano ingiuste, e le rifiuto con decisione. I
dirigenti accettano la mia contestazione. Anzi, sembra a questo punto che
una parte dell’esame consista proprio in una dimostrazione di autonomia di
giudizio. Invece non rifiuto un’altra prova che è molto dura, ma che, pur
non comprendendola, non ho motivo di ritenere ingiusta. Si tratta di
mangiare un pezzo di lamiera largo come un tovagliolo. Taglio dei piccoli
pezzi di metallo e li mastico per cercare di smussarne le punte, che
altrimenti potrebbero perforarmi le viscere. A questo punto i dirigenti
sospendono la prova, reputando corretta la mia risposta. L’esame è
superato.
Devo ammettere che l’esito della prova mi ha incoraggiato in questa
esposizione abbastanza temeraria. Sono sicuro, comunque, che non vi siete
lasciati impressionare dal mio colpo di teatro. Anche Freud in un suo
scritto ha presentato un sogno fresco di nottata: ma non abbiamo avuto, né
lui né io, il fegato di dichiarare che commenteremo quello della notte
prossima.
Entrambi i miei sogni trattano il tema del rapporto con l’autorità,
incarnata nel primo da un vigile che mi contesta un’infrazione. La sua
irritazione evidenzia l’infondatezza della mia pretesa di non pagare la
multa. Tuttavia egli non mi impone nulla: si limita ad appellarsi alla mia
responsabilità. Non mi resta che arrendermi e riconoscere il mio torto.
Il tentativo di farla franca tradisce la mia convinzione di avere diritto
a un trattamento speciale e di non essere soggetto al rispetto della legge
come i comuni mortali. Non ne siete affatto sorpresi, i vostri sospetti
sulle mie fantasie di onnipotenza ricevono una puntuale conferma. Tuttavia
questo desiderio non prevale. Lo sguardo severo del vigile mi induce a
desistere e a fare atto di sottomissione.
E’ lecito vedere, in questo sogno, il contrasto tra un desiderio di
trasgressione e uno di accettazione della legge? O, in altre parole, tra
una volontà di conservare l’onnipotenza infantile e una di abbandonarla a
favore del processo evolutivo? Si può affermare che la conclusione di
questa scena è determinata dal prevalere di una volontà di emancipazione
dalla fantasia infantile, e quindi di rafforzamento e di crescita?
Vorrei dire di sì, e mi piacerebbe portare questo sogno come elemento di
prova. Sfortunatamente non posso negare che lo stesso materiale si presta
benissimo anche a una lettura freudiana ortodossa: secondo la quale io non
mi sottometto perché voglio rafforzarmi e crescere, ma solo perché temo la
disapprovazione della figura paterna che si è installata dentro di me,
dove svolge le sue mansioni regolamentari di superio. Sarebbe in tal modo
confermato che tutta la vicenda si muove all’interno di una logica
inesorabilmente infantile: il conflitto tra il desiderio di trasgressione
e quello di non contrariare il padre-superio si risolve semplicemente a
favore del secondo.
Lasciamo dunque in sospeso la questione e procediamo nell’analisi del
secondo sogno, dove sono alle prese con un tipico esame di ammissione.
Sarebbe ancora più tipico se fosse un esame che nella realtà ho già
affrontato e superato, come quello di maturità liceale. Qui invece spero
di essere assunto in una società del tutto anonima, tanto da rendere
plausibile l’ipotesi che il tema sia quello dell’entrata “in società”,
secondo il classico schema dei rites de passage che è comune a questo tipo
di sogni.
Per cominciare, c’è un capovolgimento rispetto alla scena precedente.
Mentre lì un’autorità mi faceva notare l’ingiustizia del mio
comportamento, e io non avevo difficoltà a darle ragione, qui succede il
contrario: sono io a prendermi la soddisfazione di far rilevare ai
commissari di esame la scorrettezza di alcune prove cui dovrei sottopormi,
e sono loro ad accettare le mie osservazioni. Così facendo si direbbe che
io dia una prova di indipendenza di giudizio e mostri di non essere
disposto a subire prepotenze per ingraziarmi gli esaminatori.
Non rifiuto invece una prova molto dura e quasi impossibile, com’è quella
di mangiare un bel pezzo di lamiera. Il contrasto con quanto precede è
solo apparente, perché è come se io dicessi a chi mi giudica: signori, io
ho respinto le prime prove non per debolezza, ma per amore di verità; che
il coraggio non mi manchi ve lo mostrerò ora non sottraendomi a
quest’altra, così ardua e rischiosa.
“Zenone pensava che, grazie ai suoi sogni, ognuno potesse avere coscienza
dei progressi che faceva. Questi progressi sono reali se uno non si vede
più vinto, in sogno, da qualche passione vergognosa, o consenziente ad
alcunché di cattivo o ingiusto”.
Così Plutarco. Se avesse ragione Zenone (il fondatore della scuola
stoica), avrei motivo di essere soddisfatto di questi sogni. Il
rafforzamento ottenuto fino ad ora non sarebbe superficiale, ma abbastanza
profondo da resistere alla prova onirica. Sarei capace di oppormi
all’ingiustizia, ma anche di masticare i bocconi durissimi che in ogni
caso la vita serve a me come a chiunque altro. Il mio rapporto con
l’autorità sarebbe libero da soggezione: mi sottometto se ha ragione, mi
ribello se ho ragione io.
Va da sé che un freudiano non accetterebbe queste conclusioni. Sarebbe
certamente insospettito dal capovolgimento che il secondo sogno realizza
rispetto al primo, in cui avevo dovuto sottomettermi all’autorità. Non ti
sembra, mi chiederebbe, che adesso stai cercando di prenderti la tua
rivincita? Impartisci una lezione ai tuoi esaminatori, ma non ti basta,
vuoi stravincere. Devi avere un bel po’ di pelo sullo stomaco, uno stomaco
davvero a prova di lamiera. Non c’è che dire, hai un coraggio proprio
sovrumano. Quasi onnipotente, no?
Devo ammetterlo: in questo caso, come nell’altro, la lettura freudiana non
è meno plausibile di quella che avrebbe dato un filosofo stoico. Questo
dimostra che per via interpretativa si può dimostrare quello che si vuole,
come in effetti avviene nelle numerose scuole psicoanalitiche e
psicoterapeutiche. Ma non è un motivo per perdersi d’animo. Se, dato un
certo materiale, si possono fare diverse ipotesi per spiegarlo, benissimo:
più ipotesi siamo capaci di produrre, meglio è. L’importante è non
fissarsi su alcuna, ma definire chiaramente le procedure di verifica e
falsificazione.
Da questo deriva che: primo, è un’ingenuità credere di possedere la chiave
autentica per decifrare l’inconscio e i sogni (tipo: “il sogno è la
realizzazione allucinatoria di un desiderio”). Di chiavi ce ne sono tante;
non è male averne in tasca più d’una; ma soprattutto serve capire quali
porte aprono, e dove si pensa di andare passando di lì. Secondo: quasi
sempre è possibile avere una o più letture soddisfacenti di un sogno senza
ricorrere a libere associazioni, ma ciò da cui non si può prescindere è il
quadro in cui questa lettura si fa. Un testo ha bisogno di un contesto.
Qual è il nostro quadro? Un discorso sulla paura e un lavoro per liberarci
dalla sua presa paralizzante. Le paure di cui faremmo volentieri a meno
sono quelle irrazionali che attestano la presenza in noi di una parte
debole, non sufficientemente emersa dall’infanzia. Non possiamo pensare di
star meglio se non provvediamo a rafforzarla.
Se ora io vi dicessi: carissimi, non me la date a bere. So benissimo che
non avete la minima voglia o intenzione di crescere, come non l’ho io e
non l’ha mai avuta nessuno. Le vostre vere motivazioni sono tutte radicate
nel desiderio infantile, che è abilissimo a camuffarsi ed è pronto a
qualsiasi giravolta pur di ottenere quello che vuole. Però vi conviene
tener conto della realtà, e quindi prender coscienza di tutti i modi in
cui fino ad ora avete potuto evitare di farlo. Quanto più ci riuscirete,
tanto più sarete in grado di adattarvi a un mondo adulto che
inevitabilmente contraddice i vostri desideri più profondi. Questo non vi
renderà felici e non darà alcun senso alla vostra vita, ma che volete
farci. La vita è questa, è meglio prenderla per quello che è piuttosto che
campare di sogni e di nevrosi.
Se vi parlassi così, potrei forse sedurvi con una prospettiva di
disincanto che vi farebbe sentire superiori al resto dell’umanità ancora
immerso in illusioni senza avvenire. Ma non potrei certo persuadervi a un
lavoro per una vera crescita cui io per primo dichiaro di non credere. Con
questo non voglio dire che il freudismo abbia in sé meno verità di
qualsiasi altra visione del mondo. Dico solo che è un approccio obbligato
fintanto che siete animati principalmente da una volontà di smascherare e
demistificare: che peraltro vi raccomando di non abbandonare mai, perché
la capacità di ingannare noi stessi è di gran lunga la meglio sviluppata
di tutte le nostre doti e, per quanto ne so, è inestinguibile. Ma se,
oltre a questo, volete veramente curare voi stessi o qualcun altro, dovete
cercare un’altra base per il vostro lavoro: come del resto Freud per
primo, con il suo evidente e crescente disinteresse per la terapia,
implicitamente riconosceva.
La disinvoltura con cui gli psicoanalisti di diverse scuole interpretavano
qualsiasi materiale in modo da trarne sempre una convalida delle loro
teorie indignò talmente Popper da indurlo a inventare il principio di
falsificabilità, per il quale il valore scientifico di una teoria non
dipende dalla quantità di prove che la confermano, ma dal fatto di poter
essere falsificata, cioè confutata. L’affermazione “il sogno è la
realizzazione allucinatoria di un desiderio” è inconfutabile, perché è
sempre possibile interpretare un sogno in modo da confermarla, e quindi il
suo valore scientifico, secondo questo principio e anche secondo me, è
abbastanza modesto.
Al confronto appare superiore, proprio perché confutabile, la teoria di
Platone, che pure parte dalle stesse premesse: durante il sonno, quando la
parte razionale dell’anima dorme,
“salta fuori l’altra parte, quella animalesca, selvatica, che… facendosi
largo nel sonno cerca di venire a galla e soddisfare le sue aspirazioni…
Così, ad esempio, non ha alcuna esitazione a rappresentarsi un’unione
incestuosa con la madre, o con un altro uomo, qualsiasi sia, o con dei o
con animali, oppure a macchiarsi del sangue di chiunque, o a cibarsi di
qualunque cosa. Insomma, non lascia indietro nulla per folle o indecente
che sia”.
Ma questa prevalenza nei sogni della nostra parte peggiore non è affatto
scontata, secondo Platone. Per evitarla basta non cedere al sonno prima di
essersi occupati nel modo appropriato della nostra parte concupiscibile,
che non va tenuta digiuna, ma non deve essere nemmeno del tutto saziata,
della parte irascibile, che va calmata, e di quella razionale, che va
stimolata e attivata.
Provate a seguire il suggerimento di Platone, e poi osservate se e come
cambia la qualità dei vostri sogni. E’ una teoria che consente di
formulare previsioni confutabili, e quindi è più vicina a ciò che oggi
consideriamo scientificamente corretto di quanto non sia la psicoanalisi.
Ma vale la pena darsi da fare per sognare meglio? Sì, se ha ragione
Zenone, cioè se i progressi nel sogno hanno una corrispondenza con quelli
della veglia: in questo caso l’osservazione dei primi ci servirebbe per
controllare l’andamento dei secondi. Teoria falsificabile anche questa,
tra l’altro.
Adesso non mettetemi, per favore, nella lista dei nemici della
psicoanalisi. Di Freud, e di quanto dal tronco freudiano è rampollato, io
ho bisogno quanto voi. Ciò di cui invece possiamo fare a meno è la
spocchia che trasforma chi ne è affetto in un vate depositario non di una,
ma della chiave che apre l’accesso ai misteri della vita.
E’ ben riconoscibile, lo spocchioso, perché non desidera confrontarsi con
le discipline affini e concorrenti, ha un interesse tiepido per i
procedimenti scientifici di verifica e assolutamente nullo per quelli di
falsificazione. Ma so che voi, miei cari, siete di un’altra pasta: tanto è
vero che l’idea di mettere alla prova il consiglio di Platone, ne sono
certo, non vi dispiace. Vi serve qualche chiarimento pratico? Sono qui per
questo. Sollevato, per una volta, dalla possibilità di stare sulle spalle
di un gigante, sono pronto a fornirvi, nei prossimi quattro capitoli,
tutte le delucidazioni del caso.
Perché solo quattro? Vi ringrazio per il gentile tentativo di trattenermi,
ma ho deciso che i capitoli saranno quattordici, non uno di più. Intanto
perché questo numero corrisponde a una mia idiosincrasia pitagorica. A
motivo di una congenita lentezza raramente riesco a sentire completo un
ciclo di sette unità (giorni o anni, ad esempio), mentre la misura doppia
per lo più mi va a pennello. A parte questo, sono convinto che uno scritto
breve sia più che sufficiente per gli obiettivi limitati che mi propongo.
Se qualcuno di essi sarà raggiunto, e se gli dei non hanno in serbo altri
piani per me o per voi, troveremo di certo il modo di riprendere il
discorso.
XI . La casa-base
Se la paura segnala uno stato di pericolo la cui gravità è direttamente
proporzionale alla nostra debolezza, per ridurre l’intensità del segnale
senza ricorrere all’alcool, agli ansiolitici o a mezzi consimili chimici o
mentali, non c’è altro che diventare più forti. Ma questo presuppone il
risveglio, dal sonno profondo in cui facilmente cade, della volontà di
esserlo. Dobbiamo credere, anche quando sembra svanita, che essa
sopravvive allo stato latente, più o meno intorpidita e soppressa da una
potenza opposta, una neghittosità, una ribellione alla fatica e
all’incertezza del vivere, una voglia di annullare tutto e sparire.
Ciò significa, fratelli, che se la volontà di vivere, crescere o guarire
di cui disponete è gracile e impari alla bisogna, quella che manca dovete
andare a ripescarla nelle profondità catalettiche in cui giace, sommersa
da molti strati di negazioni, traumi e sconfitte. L’attraversamento di
queste falde, come potete aspettarvi, non è un viaggio di piacere, ma è
certamente alla vostra portata, se decidete di intraprenderlo: decisione
che in effetti viene da sola, nel momento in cui ne avvertite
l’inderogabile necessità. Alla quale altrimenti derogate più che
volentieri, fintanto che potete farlo.
Ma che cosa vi trattiene ai livelli più superficiali del vostro essere,
apatici e scontenti, abbarbicati a mediocrissime certezze, rimuginanti
sogni rancorosi, dediti all’esercizio rassegnato e meticoloso
dell’autocommiserazione? Che cosa annebbia fino a tal punto la vostra (e
la mia) vista? Una parola è adatta a descrivere il virus che si
impadronisce della nostra mente e la intorbida fino a ottenebrarla del
tutto: giustificazione (parola che include anche il suo reciproco:
condanna). Se vogliamo trasformare il nostro dialogo interno in un
regolamento carcerario non abbiamo che dire, ad esempio: sono troppo
vecchio, o troppo sfortunato, o troppo debole e incapace per essere preso
in considerazione, per crescere o cambiare.
Ne consegue che conviene di solito partire dalla, e in ogni modo ritornare
spesso alla, posizione che nel quadrato a voi ben noto corrisponde al
vertice K. Ricorderete che ho preso a prestito questa lettera
dall’analista inglese che l’ha impiegata come iniziale della parola
knowledge, conoscen-za, in connessione con la lettera O, che nella stessa
lingua significa zero, nella fattispecie ignoto. L’O di Bion ha una
qualità filosofica che la differenzia dall’inconscio freudiano. Mentre
questo denota il rimosso, il materiale psichico cui l’accesso alla
coscienza è stato rifiutato ma in linea di principio può essere consentito
- ciò che è inconscio può divenire cosciente - l’ignoto è l’inconoscibile:
la cosa in sé, o l’originario, rispetto a cui ogni conoscenza è una
trasformazione, non una rappresentazione, e ancor meno una spiegazione; è
il mondo delle infinite possibilità di cui ogni fenomeno è una
realizzazione.
Se K ha sempre O come sfondo, la conoscenza non è mai corrispondenza
definita e definitiva con la cosa in sé, ma solo descrizione sempre
parziale e provvisoria di come la cosa appare in un dato momento a un
osservatore. Non dovete temere che questo ci faccia precipitare in una
selva relativistica di punti di vista arbitrari quanto equivalenti.
Infatti ciò che appare - il fenomeno - ha una sua qualità oggettiva che lo
rende riconoscibile all’osservatore spassionato. Quanto più questi riesce
a sospendere la memoria e il desiderio, come suggerisce Bion, o i giudizi
e le motivazioni ordinarie, se preferite la formula di Husserl, tanto più
i fenomeni gli si mostrano per quello che sono.
Potete iniziare a praticare l’epoché in qualsiasi momento, se non avete
già iniziato a farlo. Non dovete chiedere il permesso a nessuno. E’
sufficiente che abbiate capito, e a questo punto dovreste almeno avere
cominciato a sospettarlo, quanto è avvolgente la ragnatela di giudizi,
convinzioni e aspettative che vi imprigiona. La voglia di liberarvene non
può che venirvi di conseguenza.
Sfortunatamente il cammino di liberazione è arduo e denso di insidie.
Nelle scuole filosofiche dell’antichità si chiedeva, a chi voleva
intraprenderlo, un impegno indefesso e un’adesione totale ai principi e ai
metodi insegnati. Ancora oggi l’appartenenza a una scuola e la fedeltà
assoluta ai suoi dogmi sono considerate da molti condizioni
imprescindibili. Molti trovano temeraria l’idea che si possa procedere al
di fuori di un contesto istituzionale, senza maestri e senza regole rigide.
Si può, ma devo avvertirvi che è più difficile. Ormai posso dirvelo,
avendo appurato che le difficoltà non vi spaventano. Se riuscite a
diventare seguaci di qualche maestro, scuola o chiesa, meglio per voi: da
quel momento non avrete che da affidarvi alla guida che avete scelto. Se
invece non ci riuscite, la guida dovete trovarla dentro di voi: in questo
caso il rischio di smarrirvi è più alto, e più forte la tentazione di
lasciar perdere. Ma forse è troppo tardi, per voi come per me. Non siamo
così progrediti da vedere la meta, ma nemmeno così annebbiati da non saper
muovere un passo senza che qualcuno ci dica dove mettere il piede. Non
abbiamo camminato abbastanza da poterci sentire in salvo, ma quanto basta
per respirare un po’ di aria fresca fuori dal recinto dei miti privati e
collettivi e per non aver più voglia di tornare alla vecchia aria viziata.
E’ il punto di non ritorno cui l’Occidente mi sembra sia arrivato con il
secolo dei lumi.
Voi pensate di sapere che cosa sia l’illuminismo, ma la nozione corrente
include uno solo dei lati che esso aveva all’inizio. Il lume di cui si
tratta non è solo quello della ragione, come comunemente si crede. Molti
illuministi, soprattutto i tedeschi, distinguevano la luce della
conoscenza da quella dell’inconoscibile, di competenza rispettivamente
dello scienziato e del mistico. Di entrambe c’è bisogno per rischiarare il
cammino, ed esce dallo stato di minorità chi cerca di percepirle con i
propri mezzi, cioè con il proprio cervello (sinistro e destro) e non con
quello di qualcun altro.
Disgraziatamente il secolo dei lumi, che erano due, per il prevalere di
uno è diventato l’età della ragione. La quale non riconoscendo più alcun
dio fuori di sé è divenuta una dea essa stessa. Smarrendo il contatto
vitale con l’origine prerazionale, la ragione decade in razionalismo
mentre il progresso prende il posto della crescita. Simmetricamente il
fondamento rimosso ritorna come fondamentalismo. Razionalisti e
fondamentalisti - progressisti e reazionari - si combattono aspramente
senza capire di essere figli dello stesso errore. Chi ci salverà dagli uni
e dagli altri? Nessun escamotage postmoderno, credo. Piuttosto il recupero
di quell’illuminismo che, grazie all’assenza di soggezione nei confronti
di qualsiasi mito e autorità, può partecipare in tutta libertà alla vita
fenomenica senza dimenticare il noumeno.
Vi fa star meglio questo piccolo inquadramento storico? Io preferisco
sentirmi figlio dell’illuminismo che figlio di nessuno o di un errore.
Spero che voi condividiate la mia preferenza, visto che è l’unica
parentela di cui sono orgoglioso. In questo caso la nostra fratellanza
troverebbe una matrice di tutto rispetto.
Torniamo dunque al nostro punto K, che si potrebbe chiamare anche vertice
della riflessione. Riflettere significa, letteralmente, comportarsi come
uno specchio. Vale a dire, trasformare la propria mente in una superficie
il più possibile priva di qualsiasi scabrosità: di qualsiasi
caratteristica propria che non sia quella di rispecchiare nel modo più
fedele ciò che ha di fronte.
Riflette colui che si distanzia dalle cose e si colloca nella posizione di
un osservatore neutrale per vederle come sono. Una neutralizzazione che è,
naturalmente, sempre parziale e imperfetta. Se cadete nell’illusione di
averla ottenuta in modo compiuto, sarete portati a ritenere in errore
chiunque veda le cose diversamente da voi. Avrete notato, spero, che non
ho lesinato gli sforzi per proteggervi da questa perniciosa caduta.
D’altra parte, l’identificazione acritica e non problematica della propria
esperienza con la verità delle cose è ciò che caratterizza la condizione
mentale preriflessiva, la dimora abituale della maggior parte di noi per
la maggior parte del tempo.
Vi è ormai chiara la differenza tra un modo di rapportarsi al mondo
intriso di desideri, timori, aspettative e gabbie mentali di ogni sorta, e
un altro in cui è presente l’impegno di portare alla coscienza e
neutralizzare per quanto è possibile questi fattori. Nella relazione
terapeutica - in quella professionale come in quella domestica, quando
giocate a terapeuta-e-paziente con il vostro partner - il vertice K è la
casa-base di chi in quel momento conduce la danza. Che abbiate deciso di
indossare la maschera di colui che guarisce per vocazione, per gioco o per
l’infondata speranza di arricchirvi, per una scelta avveduta, amorevole o
sconsiderata, in tutti i casi è per voi assolutamente indispensabile
riflettere su quanto sta accadendo nel campo affidato alle vostre cure.
Tanto è vero che, se non lo fate, in pochissimo tempo vi troverete
avviluppati in qualche groviglio senza capo né coda, da cui difficilmente
potrete svincolarvi in modo indolore.
Se, dunque, non siete sicuri della vostra capacità di occupare e
rioccupare in continuazione la posizione neutra, o se questa capacità non
si è fatta apprezzare nei pochi tentativi in cui l’avete messa alla prova,
vi suggerisco di non cimentarvi in un gioco che potrebbe trasformarsi per
voi e per qualche altro incauto in un gioco al massacro. In tal caso
rimane aperta per voi l’alternativa tra il tentativo di sviluppare detta
facoltà sotto la guida di qualcuno che già la possiede in misura adeguata,
o lasciar perdere e dedicarvi a giochi più innocui (non il bridge, che
riserva molti dispiaceri a chi non riflette abbastanza: meglio la canasta
o il rubamazzetto).
Siamo rimasti in pochi, dopo l’abbandono di coloro che hanno deciso per la
canasta. Ma voi, che state continuando la lettura, dimostrate con la
vostra decisione una capacità riflessiva già acquisita o in via di sicuro
sviluppo. Grazie a questa potete diventare frequentatori assidui del
vertice K del campo che avete creato, o creerete presto, assieme al vostro
compagno di gioco e di lavoro. Di lì sarete nella posizione migliore -
l’unica, in effetti - per valutare di che cosa ha bisogno la persona che
in quel momento è affidata alle vostre cure.
Supponiamo che il vostro partner mostri di condividere il vostro interesse
per la riflessione, e abbia voglia, come voi, di studiare gli automatismi
e le fantasie che condizionano il suo modo di essere: in questo caso lo
incoraggerete a parlare della sua esperienza, con particolare attenzione
per quella del momento presente, nella relazione con voi. Cercherete di
costruire un’alleanza di lavoro, uno spazio paragonabile a un laboratorio
scientifico in cui due ricercatori si dedicano con pazienza al compito di
decifrare le strutture latenti dell’esperienza e del comportamento.
Vi pare un impegno eccessivo per voi che non siete scienziati, ma
insegnanti o agenti di commercio? Lo ammetto, non è facile. Ma considerate
le alternative: affidarvi alle cure di un professionista, la cui laurea in
medicina o in psicologia non vi permette comunque di farvi soverchie
illusioni sulla sua scienza, oppure unirvi al gruppo della canasta che ci
ha appena lasciato. Entrambe le ipotesi potrebbero essere per voi tanto
sgradevoli da indurvi a produrre uno sforzo fuori del comune per creare un
piccolo laboratorio domestico dove dedicarvi al compito di rispondere
meglio che potete al monito di Apollo.
Secondo il mio modesto parere a questo scopo non servono particolari
competenze specialistiche, che possono essere anzi più d’intralcio che di
aiuto. La comune capacità di riflessione - la sospensione di giudizi e
aspettative, di preconcezioni e motivazioni ordinarie - è più che
sufficiente, se è esercitata assiduamente in una relazione che fa del
rispecchiamento reciproco una sua ragione d’essere essenziale. Ma proprio
questo è difficile che accada, dato che in genere le persone si mettono
assieme perché si attendono dal sodalizio così istituito la soddisfazione
di ogni sorta di bisogni, ma non quello di un aiuto per la conoscenza di sé.
Che cosa potrebbe indurvi a rifondare in tal senso il vostro rapporto di
coppia, o a fondarne uno nuovo sin dall’inizio consacrato al dio Apollo?
In primo luogo una condizione di disagio personale abbastanza forte da
obbligarvi a fare qualcosa per alleviarlo. Quindi la riluttanza ad
affidarvi a una nuova terapia, dopo le due o tre con terapeuti di scuole
diverse che avete già inanellato. Infine la fortuna di avere trovato una
persona motivata come voi a un’impresa che qualsiasi persona ben pensante
e ben analizzata sconsiglierebbe senza esitare.
Sussistono per voi queste tre condizioni? Per le prime due non c’è
problema, si potrebbe arruolare un battaglione. La difficoltà sta tutta
nella terza, a proposito della quale osservo che non mi sognerei di negare
alla fortuna un peso rilevante nelle vicende umane. Mi accontento di
aggiungere che quel peso può essere bilanciato almeno in parte dalla
determinazione che costringe gli eventi a piegarsi alla vostra volontà.
Voglio dire che se veramente volete trovare un terapeuta adatto a voi, è
quasi certo che prima o poi lo troverete; se invece preferite un compagno
di viaggio, e siete abbastanza ostinati, probabilmente troverete anche
quello, o riuscirete a rendere tale la persona che era al vostro fianco
sin dall’inizio. Ma se è vero che chi cerca trova, come mai l’evento in
questione si realizza così difficilmente? Appunto per questo, perché di
solito si cerca tutt’altro. Se però, come mi piace credere, voi siete una
felice eccezione a questa regola, avete già trovato o siete in procinto di
trovare la persona che vi accompagnerà nel viaggio per il quale vi offro i
suggerimenti che seguono.
Ciò che ho da dirvi è solo un’esplicitazione di quanto è implicito nella
condensatissima formula apollinea: conosci te stesso. A un primo livello,
come già sapete, il comando vi esorta a prendere atto della vostra
mortalità, cioè a stanare l’illusione di immortalità o di onnipotenza su
cui si impiantano e si reggono le più caduche delle vostre costruzioni
mentali. Se queste sono già abbastanza ammaccate e vacillanti per i
ripetuti colpi ricevuti dalla dura realtà, forse è giunto per voi il
momento di cambiare strategia: invece di investire il meglio delle vostre
risorse nell’impegno di puntellare e rinforzare un edificio sempre più
traballante, potete decidere di lasciarlo al suo destino, e anzi di accelerarne la fine.
Chiederete in questo caso a colui o colei che vi assiste di aiutarvi a
vedere la parte illusoria o immatura o disadattiva di cui avete deciso di
sbarazzarvi. Cosa che egli o ella farà così facilmente che ne sarete
sorpresi, perché il peggio di voi è tanto ben nascosto ai vostri occhi,
quanto solarmente evidente a quelli di chi vi sta vicino. Se poi vorrete
rendere ancora più facile il compito del vostro partner, gli fornirete un
piccolo elenco di istruzioni.
Gli direte di porre attenzione a tutto quanto in ciò che dite e fate ha
una qualità reattiva. E prima di tutto gli spiegherete la differenza tra
risposta e reazione, che è molto semplice: si risponde a una
contraddizione che si vede e si accetta, si reagisce in caso contrario.
Esempio classico: la volpe reagisce affermando che l’uva è acerba, mentre
risponderebbe correttamente alla contrarietà se, dopo aver onestamente
manifestato il suo disappunto, si disponesse a contrattare con il
contadino il prezzo del grappolo, eventualmente ripiegando su mele o fichi
ove questo fosse troppo alto per le sue tasche.
La mente funziona nel modo reattivo quando la contraddizione è dichiarata
inesistente oppure, se la sua esistenza è troppo evidente per poter essere
negata, inammissibile: se l’evento sgradito non può essere completamente
rimosso dalla coscienza, per lo meno ne è contestata la liceità. Diremo
allora: è inconcepibile che io sia trattato in questo modo, è
intollerabile che il mio diritto non sia riconosciuto, è vergognoso che
alla mia (alla tua) età io (tu) faccia ancora di questi sbagli; e via
ammantandoci di onta e di sdegno.
Per cominciare punterete dunque l’attenzione sulle aree reattive del
vostro comportamento (e, a turno, di quello del vostro partner; vi
raccomando di non farlo in contemporanea, altrimenti finisce in bega):
negazioni, razionalizzazioni, pretese, vittimismi, moralismi, sentimenti
di insofferenza, rabbia, colpa o vergogna esagerati o fuori luogo. Quindi
cercherete di mettere a fuoco la contraddizione cui reagite in quel modo.
Troverete di regola qualcosa del tipo: non ho (non sono) qualcosa che
voglio, oppure ho (sono) qualcosa che non voglio; in generale, le cose
(interne o esterne a me) non sono come dovrebbero essere.
La riflessione ci induce a essere sospettosi. Dubitiamo di tutto, anche
della stessa volontà di riflettere. Prendete il caso dell’uomo che viene
da me e mi chiede di aiutarlo a sbrogliare la matassa del rapporto con la
moglie. Va bene, gli dico, me ne parli. Lui si lancia in un racconto ricco
e dettagliato, ma quando è il mio turno di dirgli quello che mi pare di
aver capito sembra che gli faccia un dispetto. Mi ignora e riparte con la
sua storia.
E’ chiaro che non vuole o non può riflettere sul suo materiale. Abbandono
allora il vertice K e mi trasferisco nell’angolo paterno, dal quale cerco
di metterlo di fronte alla sua contraddizione: mi chiede un parere, ma poi
non mi ascolta. Più che irritato, ora sembra addirittura affranto. Vede in
me un altro padre tirannico, del tutto identico a quello che lo ha
tormentato per anni: come lui ho sempre ragione e non gli lascio scampo.
Il confronto è impossibile; per non esserne schiacciato non gli resta che
evitarlo, scivolando via e rendendosi imprendibile.
E’ vero che sono stato un po’ incalzante, perché avevo ritenuto che il suo
bisogno fosse precisamente quello di essere confrontato con la sua
guizzante elusività. Ma la mia ipotesi, benché errata, è servita a mettere
in scena un dramma molto sentito. Non serve ora fargli notare che non ho
la minima intenzione di imporgli le mie idee, che gli chiedo solo di
ascoltare per confrontarle con le sue. E’ troppo forte la sua urgenza di
esprimere la rabbia e il dolore per come si è sempre sentito dominato e
oppresso dal padre, dalla moglie e ora anche da me. In questo momento non
è in grado di riflettere e nemmeno di confrontarsi con le sue
contraddizioni: è come un bambino terrorizzato che ha bisogno solo di
essere accolto e rassicurato.
Prendo di conseguenza una posizione materna come avreste di sicuro fatto
anche voi al mio posto, e come avete imparato o state imparando a fare con
il vostro partner in circostanze analoghe, di frequentissima occorrenza,
come ben sapete, nella vita quotidiana. Se ci sono dei problemi la cosa
più logica da fare è riflettere, tra persone adulte. Ma quando la
riflessione è impossibile per l’evidente interferenza di fattori emotivi,
come spessissimo accade tra le mura domestiche o nella vita pubblica - ad
esempio in un dibattito televisivo tra uomini politici - conviene
rivolgersi al bambino che sta facendo valere i suoi diritti all’insaputa
dell’adulto che lo ospita, e dargli la risposta genitoriale che in quel
momento gli è necessaria.
Inutile dire, carissimi, che noi abbiamo un grande vantaggio rispetto agli
uomini politici. Loro non possono permettersi di perdere la faccia, ma noi
sì, perché l’investimento sulla nostra immagine, per quanto notevole, non
è altrettanto vitale. Forti di questo vantaggio, procediamo nella nostra
riflessione per chiarirne le possibilità e i limiti. Per capire, cioè,
quando è il caso di riflettere e quando è meglio ritornare in un’area di
cure genitoriali; o piuttosto spingerci in uno spazio ulteriore che un
filosofo ha arditamente chiamato postriflessivo.
XII . Se il grano non muore
Ancora una volta sento salire la vostra protesta. Impegnati nel severo
esercizio della riflessione, cercate di riconoscere e neutralizzare tutto
ciò che annebbia la vostra vista. Ma io, invece di incoraggiarvi e
sostenervi in codesto difficile compito, già vi spingo oltre.
Non vi inquietate, miei cari. Se vi invito a guardare più in là non è per
aggravare il vostro lavoro, ma per alleggerirlo. State imparando a
prendere le distanze, mettere tra parentesi, sospendere il giudizio. E’
uno sforzo meritorio, oltre che obbligato, dato che avete deciso di
emergere una buona volta dall’immaginario per installarvi nel mondo reale.
Avete rinunciato ai sogni grandiosi e all’oscillazione permanente tra
emozioni anacronistiche di rabbia e di vergogna che ne era il
sottoprodotto e avete accettato la vostra finitezza: benissimo, era ora.
Ma non vorrete pensare di essere giunti alla meta, solo perché siete
diventati adulti.
Ora sapete distaccarvi dalle passioni e osservare le cose con pacatez-za e
senza pregiudizi. O quasi; in ogni modo avete preso questa direzione,
forse definitivamente. Eppure non siete troppo soddisfatti. Alla vostra
vita, divenuta così sobria e ragionevole, manca qualcosa; vi chiedete se
sia possibile appassionarsi a un’esistenza senza passioni.
Anzi no, a pensarci meglio non se ne parla nemmeno. Se tutto quello che ho
da offrirvi, al termine di tanto lavoro, è una vita misurata e dignitosa
ma senza entusiasmi e senza sugo, no grazie, vi tenete le vostre passioni,
e se sono nevrotiche pazienza.
Come vi dicevo: se la riflessione non è un momento del percorso ma il suo
punto d’arrivo, tutto il gioco non vale la candela. Ci serve, di
conseguenza, una visione d’insieme di tutto il processo.
La distanza che avete preso dalle cose significa che voi siete qui e le
cose sono là. Una situazione resa ancora più spiacevole dal fatto che può
essere mantenuta solo al prezzo di uno sforzo costante. Non la
sopporterete a lungo se non sarete sorretti almeno dalla speranza di un
ricongiungimento. E su che cosa può reggersi questa speranza per chi, come
voi e come me, non si lascia consolare dal lieto annuncio di città terrene
o celesti in cui le colpe saranno redente e i torti raddrizzati?
Accettate la tensione, se questa significa che state lottando per
liberarvi. Ma quando potrete rilassarvi? Non illudetevi di poterlo fare
rinunciando a combattere: non fareste che ritrovarvi al punto di partenza,
che già non era granché, come certamente ricordate, e che adesso sarebbe
ancora meno, perché non potreste più contare sui sogni nel frattempo
infranti. Potreste rimpiangere di esservi mai messi in cammino, visto che
una volta in viaggio è difficile tornare indietro.
Non resta che andare avanti, ma verso quale meta? Per quanto ne so, ce n’è
una sola: quella cui conduce la logica interna del processo che abbiamo
messo in moto. Quella che già gli sciamani conoscevano bene, e il
pensatore inattuale ha cercato invano di riportare in auge: il vecchio
uomo deve tramontare perché quello nuovo possa venire al mondo.
Naturalmente il vecchio uomo - il vostro e il mio - non ne vuole sapere di
togliersi di mezzo, ed è giusto che sia così. Ha imparato a sopravvivere
in questa giungla, dove si è conquistato un suo piccolo spazio e si sente
qualcuno. Perché mai dovrebbe sparire? Dal suo punto di vista è incomprensibile.
Dovremo cercare di persuaderlo, perché senza la sua collaborazione non
potremo fare molto. Ci complimenteremo con lui per il buon successo dei
suoi sforzi. Si è guadagnato una posizione solida e vantaggiosa, e se si
accontenta va bene così. Ma come può essere contento, se la sua
preoccupazione costante è di mantenere il controllo? E come potrà
lasciarsi andare, se la sua stessa ragione di esistere è il dominio
dell’esperienza, dalla quale non ammetterà mai di essere sopraffatto?
Il paradosso ben noto dalla notte dei tempi - si vis vitam para mortem -
suona, in una versione un po’ meno allarmante: per rafforzarsi è
necessario indebolirsi, ritrovare quella vulnerabilità e quell’impotenza
un tempo negate perché troppo dolorose o umilianti.
La vostra protesta non si placa. E’ questo l’alleggerimento che vi avevo
promesso? Da questa prospettiva di mortificazione e umiliazione dovreste
sentirvi incoraggiati? Vi rendete conto, certamente, che la vostra
ribellione è la roccia basilare, la madre di tutte le resistenze. Ma se
non ci è riuscito Freud con il lavoro di una vita, con i suoi preziosi
strumenti analitici, il suo genio e il suo carisma, a indurre i suoi
pazienti alla resa, e alla fine ha dovuto arrendersi lui, come penso di
farcela io, da una posizione tanto più debole?
Tutto sommato, un piccolo vantaggio sul padre della psicoanalisi penso di
averlo. Ho la fede: non quella dei credenti, come ormai vi è ben chiaro;
ma quella degli sciamani, dei mistici come Eckart, dei filosofi come
Jaspers, degli analisti come Bion. Da questa dichiarazione mi deriva
l’obbligo di chiarire: primo, quale posto e senso può avere la fede
nell’esperienza di un non credente; secondo, perché penso che in essa si
possa trovare quella forza che invano ci aspetteremmo dalla sola
riflessione (o dalla sola analisi).
Sul primo punto, dirò che la parola fede, per un laico, sta a indicare
l’intuizione che l’esistenza è affidabile. Cosa che non equivale all’idea
di vivere in un mondo su cui veglia un Ente provvidenziale; in cui si può
tutt’al più credere, dal momento che non è affatto evidente. Se mai è
evidente il contrario: si direbbe che la Grande dea sia alquanto
indifferente alla sorte delle creature che incessantemente genera e getta
nel mondo. La visione tragica dei Greci è più vicina all’esperienza - alla
mia, quanto meno - delle visioni che si ispirano alle religioni monoteiste.
Eppure un pagano, quale io sono, è fedele alla terra, a differenza di chi
si sente destinato a una dimora ultraterrena. Ciò significa che la vita su
questa terra è da lui ritenuta buona, anche se crudele. Ma come può essere
buona la vita di un essere che si sente gettato nel mondo e abbandonato al
suo destino? Certo non può esserlo dal punto di vista del soggetto
interamente preso dalla cura (del corpo, della mente, dell’immagine, degli
oggetti, dei legami): lo sforzo di sottrarre queste cose precarie e
deperibili alla fine cui sono destinate consegna inesorabilmente
all’angoscia chi in esso confida per salvarsi. La vita sulla terra può
essere buona solo per chi, pur prendendosi cura del suo mondo, non se ne
cura troppo, ma in essa vede o almeno intravede un senso ulteriore: quello
che si dischiude con il sacro sì alla vita - con il sacrificio del no,
dell’opposizione in nome di tutto ciò che ha importanza sul piano
dell’esistenza ordinaria.
Il superamento di quel piano è l’obiettivo del filosofo. Chi lo ha
raggiunto è il saggio: cioè non siete voi, perché se lo foste non
perdereste tempo a leggere queste cose che sarebbero per voi ovvie e
scontate, e non sono io, perché se lo fossi non farei tutta la fatica che
invece faccio per avanzare a tentoni verso una meta che, anche se non è
raggiunta, per il solo fatto di esistere rende buono il cammino.
Ma siamo sicuri che questa meta esiste?, obiettate prontamente voi. Come
faccio a dirlo se non l’ho raggiunta? Questo non dimostra che sono anch’io
un credente, a dispetto di tutti i miei dinieghi? Non credo che il
filosofo possa essere scambiato per un credente, solo perché crede nella
sofia. Non lasciamoci confondere dalle parole: il filosofo crede nella
sapienza perché la respira, non perché qualcuno gli ha detto che esiste.
Questo può dirlo anche chi, come me, non la respira a pieni polmoni, ma
boccheggia come un asmatico. E tuttavia è sufficiente quel filo d’aria che
riesce a filtrare dai bronchioli congesti a vivificare la corrente
sanguigna e a persuaderlo a lottare, pur ansimante, per averne di più.
Ormai sapete che a una cosa io sono basilarmente fedele: l’esperienza. La
mia, voglio dire; quella altrui l’ascolto, la tengo in considerazione,
eventualmente la utilizzo, ma non ci conto per decidere dove devo andare.
Sarei dunque sommamente incoerente se vi invitassi a confidare nella mia
esperienza: al contrario, posso e voglio solo esortarvi a farvi la vostra.
In particolare ora vi incoraggio a scoprire da voi stessi che questa vita
è degna della vostra fiducia. Non perché essa si prenda cura di voi e dei
vostri bisogni. A volte vi sembra che lo faccia, altre volte vi lascia
nella più nera indigenza e favorisce chi sicuramente non lo merita. Se poi
vi pare che il destino sia tutto sommato benevolo con voi, sarà il caso di
ringraziare la misericordia del vostro dio o piuttosto la circostanza che
non siete nati nel Burundi, ma in un ricco paese dell’Occidente?
Collegate la fede nella vita alla soddisfazione di desideri e bisogni se
pensate che essa debba comportarsi verso di voi come una buona mamma o un
buon padre. Dalla constatazione che le cose su questa terra non vanno
così, discende per lo più una chiusura rancorosa per l’ingiustizia patita,
e/o il trasferimento in sede ultraterrena del luogo dove le cose saranno
messe a posto. Ma voi, miei cari, sapete già come uscire da questo
dilemma, esito quasi obbligato del pensiero infantile: non avete che da
riconoscere e abbandonare le idee irrealistiche che questo produce e
alimenta.
Il problema, ora, è quello già posto in precedenza: come non gettare il
bambino assieme all’acqua del bagno con cui lo abbiamo ripulito dalle sue
illusioni. Come smascherare le favole senza approdare a uno sterile
disincanto, come demistificare le costruzioni del pensiero onnipotente
senza eliminare il senso del mistero di cui non può fare a meno chi non
vuole cadere in un’altra forma di onnipotenza, la presunzione
scientistica. Come sentirsi avvolti e accolti da questo mistero -
l’Umgreifende, l’abbracciante, lo ha chiamato Jaspers - che stritola ogni
certezza profana - mysterium tremendum - ma rianima e trasforma.
Che dire di questo mistero? Ne siamo circondati, compenetrati, assediati.
Che sia minaccioso lo sappiamo tutti. Ma che sia anche affidabile, come
possiamo saperlo? In generale, come si stabilisce la fiducia?
Un paziente mi chiede qualcosa sulla mia formazione. “Perché vuole
saperlo?”, gli chiedo a mia volta. “Perché vorrei capire se posso fidarmi
di lei”, mi risponde. “L’Ordine dei medici mi ha ritenuto degno di
figurare nell’elenco degli psicoterapeuti”, gli dico; “vuole esaminarmi
anche lei?” “Non credo che sarei in grado”, ammette; “ma in qualche modo
dovrò capire se lei è un professionista affidabile”. “Giustissimo”, dico
io; “ma non in questo modo”. “E in quale, allora?”, si informa lui. “Come
fa a capire se può fidarsi del suo fruttivendolo, del suo meccanico o del
suo dentista? Li mette alla prova, no? E così lei deve fare con me”.
“Non è così semplice”, obietta giustamente lui. “So che cosa mi posso
mediamente aspettare dalle figure da lei citate, ma che cosa può fare lei
per liberarmi dai miei sintomi e farmi star bene? Voi terapeuti siete
divisi in tante scuole; se non siete d’accordo nemmeno voi su quale sia il
metodo migliore, come posso saperlo io?”
“Infatti, non è di questo che deve preoccuparsi”. “E di che cosa, dunque?”
“Prima di tutto le consiglio di porre attenzione a questo: se il suo
terapeuta le sembra più interessato a lei, o alle sue proprie tecniche e
teorie; in secondo luogo, se non solo prova a rispondere ai suoi bisogni,
ma prima ancora l’aiuta a capire quali sono, senza dare per scontato di
saperlo sin dall’inizio, né che lo sappia lei. Last but not least, che non
pretenda di saperla guarire”.
“Come sarebbe”, chiede il paziente confuso. “Se non lo sa lui, chi deve
saperlo?” “Lo sa Dio, potrebbe risponderle Freud, che amava citare il
motto di un celebre chirurgo: Je le pansai, Dieu le guérit. Intendeva
dire: il terapeuta non deve cercare di guarire il paziente, perché la cosa
non è affatto nelle sue mani. Deve soltanto cercare di attivare e favorire
un processo di guarigione, che ha una sua propria logica”.
“Ma il terapeuta lo sa, qual è questa logica?” “Se pretende di saperlo, si
mette al posto di Dio”. “E Freud?”. “Era un uomo grande e contraddittorio:
quello che raccomandava ai terapeuti di non fare, lo ha fatto lui. Ha
preteso di sapere che ogni paziente, per guarire, deve rimettere in scena
la propria infanzia nella relazione con l’analista, con particolare
riferimento al conflitto edipico, che dovrà essere rivissuto e risolto”.
“E non è così?” “A volte sì, altre volte no”.
“Insomma lei vuol dire”, conclude il paziente, “che io posso fidarmi di
lei solo se lei per primo si fida di un processo che nessuno di noi due
controlla”. “Precisamente. Infatti, se io pretendessi di avere la chiave
di questo processo, dovrei chiederle di affidarsi e lasciarsi guidare da
me. Della qual cosa lei potrebbe anche essere felicissimo, perché le
toglierebbe ogni responsabilità. Ma una parte di lei inevitabilmente si
rivolterebbe, manifestandosi come protesta virile o invidia del pene, a
seconda del suo sesso, o in cento altri modi. Su questa resistenza
iatrogena si è incagliata la terapia freudiana, come ogni altra che muova
da premesse analoghe”.
La guarigione, a qualsiasi livello e comunque sia intesa, sarebbe
impensabile se non esistesse una vis medicatrix naturae, una tendenza
naturale di ogni organismo a riparare le ferite e a procurarsi i fattori
di crescita di cui ha bisogno. E poiché lo sviluppo non è un percorso
lineare, ma comporta diversi passaggi da uno stadio a un altro, in cui le
condizioni del precedente debbono essere abbandonate per transitare al
successivo, ne consegue che il processo generativo e risanativo richiede
il distacco sistematico da tutto ciò che ostacola il suo corso.
Maestro Eckart esprimeva questa legge generale con la nota formula: il
padre genera il figlio in ogni uomo che in ogni tempo pratichi il
distacco. Essendo Eckart un monaco, la formula non poteva piacere al suo
vescovo il quale, dovendo difendere la tesi che il Padre ha generato il
Figlio una sola volta nella storia e in un solo uomo, non poté esimersi
dal mandarlo sotto processo per eresia.
I mistici non hanno mai avuto vita facile nelle Chiese, ma sono certo che
questo non è un vostro problema. Se, come credo, non temete le reprimende
ecclesiastiche, potete utilizzare liberamente l’algoritmo eckartiano nel
senso in cui era inteso dal suo autore: come una legge rigorosa e
indefettibile. La potenza generativa (il padre) non può non rigenerare
l’uomo che ad essa si affida (il figlio). La vismedicatrix naturae non può
non risanare, se togliamo di mezzo gli ostacoli alla sua azione. Il
processo terapeutico non può non seguire il suo corso, se sono
riconosciute ed eliminate le resistenze con cui ad esso ci si oppone. La
crescita non può non avvenire, se lasciamo la presa su tutte le cose alle
quali per paura di perderle siamo aggrappati. La vita non può non mettere
qualcosa nelle mani di chi invece di stringerle convulsamente le apre.
Provare per credere, ma con due avvertenze. Prima, il distacco che apre lo
spazio per l’azione della vis generatrix presuppone un lavoro precedente
di riflessione e di analisi, dato che gli attaccamenti in questione sono
per lo più energicamente difesi, cioè giustificati e razionalizzati o
camuffati o semplicemente negati e rimossi. Seconda, attenzione alle
aspettative che il processo generativo può alimentare. Non c’è modo di
sapere che cosa, come e quando accadrà - se no, che mistero sarebbe?
L’aspettativa, che si riferisce a qualcosa di determinato, non può che
agire come una nuova resistenza (in termini bioniani: lo spazio
dell’ascolto viene saturato invece di restare aperto), e quindi va
riconosciuta, disattivata e sostituita con quell’atteggiamento del tutto
differente che è l’attesa.
L’aspettativa è di fatto una pretesa (ciò che mi aspetto deve accadere,
perché me lo merito, perché è logico, perché per questo ho rinunciato a
quello, perché non posso farne a meno; se non accade mi inquieto, mi
offendo, mi arrabbio o mi dispero). L’attesa, al contrario, è apertura che
non pone condizioni sul cosa, come e quando. Qual è allora l’oggetto di
questa attesa? Perché qualcosa, comunque, si attende.
Si attende qualcosa che si è conosciuto, si cerca qualcosa che si è
perduto. Il tempo perduto, di cui tutti abbiamo memoria, anche se non
tutti sappiamo di averla. La memoria è l’antecedente necessario
dell’attesa, un ricordo che è propriamente un ricordo, una faccenda di
cuore, non di mente. Il sentimento di chi eravamo prima di venire al, o
essere gettati nel, mondo. La memoria dell’origine, del tempo senza tempo,
prima dell’inizio del tempo storico, ci guida al suo ritrovamento.
E come la memoria - questa memoria - non ci rimanda a un momento del
passato, ma a un tempo che è fuori del tempo, ugualmente l’attesa non ci
proietta in un momento ipotetico del futuro, in questa vita o un’altra, ma
ci radica ancora di più nel presente, unico luogo dove ci sentiamo nelle
vicinanze dell’origine. L’intensificazione della presenza, in questa
memoria e questa attesa, riattiva un contatto con la dimensione originaria
che, per quanto parziale e fugace, è la base di ogni atto originale, cioè
generativo, creativo o risanativo.
Vi sembra un discorso troppo filosofico per un manualetto fai-da-te senza
troppe pretese come questo? Non posso farci niente, sono obbligato dal
tema che devo trattare. Oltre l’angoscia nevrotica - che si cura
scoprendone la radice immaginaria e favorendo l’adattamento alla realtà -
c’è l’angoscia esistenziale, che ci attanaglia per il solo fatto di
esistere in questo mondo, esposti alla precarietà di tutto ciò in cui
confidiamo. Un filosofo tedesco, molto influente tra i suoi colleghi
continentali, ha creduto di superare l’intera storia della metafisica
occidentale, che ha privilegiato la dimensione del presente, indicando in
alternativa il futuro, in cui si collocano i progetti che danno senso alla
vita dell’uomo. Ma essendo l’unica cosa certa, nel futuro di tutti noi, la
morte, ci troviamo di fronte a questa scelta: o cerchiamo di eliminarla
dal nostro orizzonte, banalizzandola o rimuovendola - ma questo ha un
prezzo: la vita perde la sua autenticità - o al contrario l’accogliamo,
anzi l’anticipiamo nella consapevolezza - ma così ci esponiamo
all’angoscia della vanificazione di ogni progetto.
Il tema non è nuovo. Era già stato affrontato da un pensatore danese, che
però, in modo più conseguente, aveva portato il discorso fino in fondo: il
sentimento dell’angoscia ci segnala la caducità di tutte le cose con le
quali crediamo di rassicurarci, e ci obbliga pertanto a indagare se non ci
sia proprio nulla che si sottrae a questa distruzione. In effetti è la
riproposizione in chiave esistenziale del monito di Apollo, a voi ormai ben noto.
Il tedesco, invece, s’era fermato all’angoscia. A liberarsene non ci
pensava affatto, perché per lui, come per tanti altri, l’angoscia era ed è
un sentimento nobile, segno di verità e autenticità, contrapposto alla
ricerca di facili consolazioni di chi non si è ancora emancipato dalle
illusioni metafisiche. Nel corso degli anni ho incontrato molti disperati
realmente inguaribili, in quanto assolutamente indisposti a barattare la
loro angoscia, che li fa sentire tutto sommato bene perché in possesso di
una verità superiore, con un processo terapeutico che li riporterebbe al
livello di una banale normalità.
Ma voi, carissimi, a differenza di tanti intellettuali che si crogiolano
nell’angoscia pronti a bollare come consolatoria qualsiasi ricerca di
liberazione personale, mi avete seguito fin qui perché avrete pure i
vostri difetti, ma almeno da questa perversione siete immuni. Di
conseguenza potete anche fare a meno di leggere Essere e tempo, se non ne
avete voglia, ma in compenso dovete fare un piccolo sforzo per seguirmi
(ancora per poco) in queste riflessioni.
XIII . Un gallo ad Asclepio
Adesso siete più tranquilli. Sapete che la riflessione non è il punto
d’arrivo del nostro viaggio, ma solo un suo momento. Io non ho
l’ambizione, e voi non correte il pericolo, di trasformarvi in pensatori.
La prospettiva di diventare persone originali, cioè creative e generative,
è ben più interessante per voi, come lo è per me; di conseguenza è meno
pesante lo sforzo che pure è necessario fare per diventare in primo luogo
persone riflessive.
Il fatto è, miei cari, che se volete essere originali prima di avere
imparato a riflettere rischiate di diventarlo davvero, ma nel senso in cui
lo si dice di chi sfida le convenzioni e le regole stabilite per partito
preso o per noncuranza. Poiché la nostra frequentazione fino a questo
momento mi permette di escludere una vostra inclinazione alla bizzarria e
all’eccentricità, do per assodato il vostro interesse per le
considerazioni che seguono.
Per cominciare, ricolleghiamoci al nostro tema generale con la domanda:
esiste un legame tra la paura e la riflessione? Altroché, rispondiamo
subito, e strettissimo, come è facile vedere: molto spesso, o quasi
sempre, chi non riflette è una persona spaventata. Tanto è vero che, se
questo accade a vostra moglie o vostro marito, sapete per esperienza che
non serve a nulla arrabbiarsi: lei o lui s’impaurirà ancora di più e
rifletterà ancora di meno. Avete imparato che in molti casi la cosa
migliore da fare è prendersi cura del bambino spaventato che in quel
momento ha preso il sopravvento, con dolcezza materna, con fermezza
paterna o con una giusta combinazione delle due. A meno che non siate
spaventati anche voi, e allora sarà meglio che andiate a fare un giro e
non facciate nulla. Se poi la cosa si prolunga e nessuno dei due riesce a
calmarsi quanto basta per aiutare l’altro, vi consiglio di parlarne col
vostro terapeuta, e se non l’avete di cercarvene uno.
Lo dico giusto per ricordarvi che esiste anche questa possibilità, ma sono
sicuro che ne approfitterete solo se proprio non potrete farne a meno.
Dopo aver sondato la situazione con un messaggio materno, tipo “non
preoccuparti, va tutto bene; se qualcosa ti turba ne possiamo parlare”; o
paterno, come “capisco che questa cosa ti spaventa, ma sarà meglio
affrontarla che subirla”, e avere ottenuto tutto ciò che su questi piani
potevate ottenere, siete pronti per iniziare l’avventura della riflessione.
La seconda topica di Freud - io, es, superio - è uno schema abbastanza
utile per un primo orientamento. Serve a cogliere con un colpo d’occhio il
fatto che l’io non è padrone a casa propria, ma deve confrontarsi con due
gruppi di coinquilini - gli istinti e gli ideali - che, per come lo
trattano, si direbbe siano loro i veri padroni. L’attività principale
dell’io sembra essere quella di mediare tra le esigenze contraddittorie
che sono avanzate dai suoi vicini e quelle che altrettanto imperiosamente
sono fatte valere dal mondo esterno. Si capisce che il povero io, dovendo
accontentare ben tre padronati diversi, cerca di cavarsela come può, ma
difficilmente riesce a andare oltre qualche compromesso raffazzonato e precario.
Dovete ammettere, se vi guardate attorno e dentro, che questa descrizione
dell’io-servitore di tre padroni è abbastanza realistica. Noi siamo in
generale tanto poco liberi che si può dire, senza sbagliare di molto, che
non lo siamo affatto.
Peraltro, non potendosi negare la differenza tra un uomo pienamente
abbrutito (o perfettamente adattato alle norme del gruppo) e soddisfatto
di esserlo, e un altro che lotta per elevarsi e ha raggiunto almeno una
relativa autonomia dagli istinti e dalle convenzioni sociali, è corretto
descrivere due modi di funzionamento dell’io: uno condizionato, cioè
asservito ai suoi vari padroni, e uno libero, cui lo stesso Freud si
riferiva con il suggerimento, che vi ho già ricordato, di procedere senza
intenzione alcuna, con la mente sgombra e senza preconcetti. Egli poteva
raccomandare agli analisti un atteggiamento di neutralità perché sapeva di
poter contare sulla capacità, latente in ogni essere umano, di
neutralizzare ogni intenzione, aspettativa o pregiudizio.
Questa capacità di neutralizzare, sospendere, mettere tra parentesi, è la
facoltà riflessiva che ora vogliamo attivare e portare a un funzionamento ottimale.
Tra i due modi di funzionamento dell’io è sempre possibile un passaggio
dal primo al secondo e viceversa:
Fig. 3. I due modi dell’io
L’asservimento consiste nel fatto che l’io si lascia sedurre o intimidire
dalla promessa di gratificazioni o dalla minaccia di punizioni. L’io in
tal modo condizionato mette tutta la sua capacità di pensiero al servizio
della ricerca di un piacere o dell’evitamento di un dispiacere. Tenterà di
operare delle mediazioni tra esigenze conflittuali di diversa provenienza
in modo da ottenere comunque il massimo piacere o il minimo dispiacere.
(Questo è l’io della metapsicologia freudiana)
La neutralizzazione consiste nel fatto che l’io non si lascia sedurre né
intimidire. La capacità di tollerare l’angoscia è decisiva in entrambi i
casi: l’io è libero in quanto non si fa condizionare dalla paura della
sofferenza che conseguirà a privazioni o punizioni. Ciò non implica che
l’io non avverta la paura, ma solo che non se ne lascia dominare. (Questo
è l’io della terapia freudiana).
Il fatto che Freud ci abbia presentato due volti opposti dell’io, uno
nella terapia e l’altro nella metapsicologia, significa che egli era in
parte libero e in parte no, come tutti noi. Il fatto poi che non sia
riuscito ad articolare il rapporto tra i due può essere fonte di
disappunto solo se pretendiamo troppo da quel grande: ma noi non cadremo
in questa trappola, che mostrerebbe solo il nostro asservimento a istanze
di perfezionismo.
Esaminiamo più da vicino il processo della neutralizzazione. L’io avverte
delle pressioni imperiose a muoversi in conformità a certi princìpi o in
vista di determinati obiettivi. Per non farsene condizionare non dice né
sì né no, ma prende le distanze per capire meglio. Le pressioni provengono
da certe parti della personalità o del mondo esterno, sono dunque parziali
e settoriali. L’io che riflette cerca invece di farsi una visione
d’insieme di tutte le parti in causa, per formarsi un’opinione quanto più
è possibile, anche se mai perfettamente, imparziale e globale. Questo è
l’obiettivo dell’io libero: la conoscenza giusta e l’azione retta, a
differenza dell’io condizionato, che cerca solo il massimo piacere o il
minimo dispiacere.
Nella metapsicologia freudiana non c’è spazio per la libertà dell’io, ma
bisogna riconoscere che questo è coerente con il suo intento, che è per
l’appunto quello di essere una psicologia, cioè una scienza della psiche o
dell’anima. L’anima è il principio che informa tutti gli esseri animati,
cioè gli animali e l’uomo. In quanto essere animato, animale parlante solo
un po’ più complesso degli altri, l’uomo naturalmente non è libero.
L’essere provvisto di anima è dotato di un dispositivo sensoriale e di un
apparato di locomozione. L’anima è il luogo in cui si raccolgono le
rappresentazioni, corredate di affetti piacevoli e spiacevoli, che questo
essere si fa di sé e del mondo e si elaborano strategie di soddisfacimento
di bisogni e desideri, di sopravvivenza e di riproduzione. Non c’è altro
nell’anima.
Il cervello umano si differenzia da quello di tutti gli altri animali per
il notevole sviluppo dei lobi frontali. I neuropsicologi hanno confermato
quello che è già intuitivamente ovvio dal confronto tra il volto umano e
il muso degli altri primati: nei lobi frontali si trova la base neurale
della facoltà di pensiero umano. In che cosa consista questo pensiero si
può dire solo in parte da un punto di vista psicologico, perché per
un’altra la sua caratteristica è precisamente quella di superarlo. Di
questa si può parlare solo da un punto di vista filosofico. L’amore per la
sapienza - la ricerca di ciò che è vero e giusto, non di ciò che è utile
per il conseguimento di determinati scopi o per salvarsi l’anima - non è
una caratteristica degli esseri animati, ma solo degli esseri spirituali,
categoria della quale l’uomo è l’unico esponente noto e alla quale
appartiene di diritto, pur essendo assai restio a rivendicare tale
appartenenza.
La scoperta che l’uomo è un soggetto capace di intendere e di volere - una
formula che esprime l’essenza dello spirito occidentale - si deve nella
nostra cultura a Socrate, il primo uomo che ha saputo di non sapere. Tutti
gli esseri animati sanno, solo l’essere spirituale sa di non sapere - cioè
neutralizza tutte le pretese di sapere che provengono dalla sua anima e da
quelle di chi gli sta intorno. Questa sospensione gli permette di
intendere, cioè di avvicinarsi a una comprensione imparziale e globale
delle cose, superando l’ignoranza dei saperi particolari legati a
interessi e punti di vista specifici; e di volere, cioè di esercitare una
volontà fondata su una libera valutazione della situazione presente, non
condizionata da valori codificati e canonizzati.
Tutto ciò dà sui nervi all’uomo psichico, che ribatte: “E’ solo un segno
di arroganza intellettuale credere che l’individuo possa elevarsi al di
sopra delle condizioni della sua esistenza e dei valori della sua cultura.
L’uomo non è una tabularasa, ma percepisce e sente solo ciò che è
biologicamente e culturalmente predisposto a percepire e sentire. Noi non
possiamo fare di meglio che cercare di riconoscere e soddisfare i nostri
bisogni, mediando con i bisogni altrui e rispettando i valori della
società, opportunamente introiettati nel nostro superio”.
L’uomo della riflessione risponde chiedendo: “Visto che non sei in grado
di metterti al di sopra delle parti, su che cosa si basano le tue
mediazioni, se non su rapporti di forza? E che valore hanno i tuoi valori,
se non sei capace di valutare autonomamente? Chi lo ha fatto per te aveva
questa capacità? Come fai a saperlo, se per valutare chi ti fornisce i
valori devi usare i valori del tuo fornitore?”.
Ribatte ancora l’uomo dell’anima: “Dove ti portano tutte le tue domande? I
filosofi sanno solo seminare dubbi, non hanno mai prodotto una sola
conoscenza universalmente valida. Se sappiamo qualcosa lo dobbiamo alle
rivelazioni dei profeti e al paziente lavoro degli scienziati, non alle
speculazioni dei filosofi”.
Risponde l’uomo dello spirito (cui do l’ultima parola): “E’ vero che la
filosofia non ha mai prodotto alcuna conoscenza certa, ma questo è
precisamente il suo merito. Chi riflette, proprio perché riflette e a
differenza di chi non riflette, sa di non sapere nulla di certo. Come
potrei mai sapere di avere riflettuto abbastanza? Ho neutralizzato alcuni
condizionamenti, ma come posso pensare di averlo fatto con tutti? La
riflessione non mi dà la verità, però mi mette nella sua direzione. Non
sarà molto, ma a me basta”.
Vi esorto dunque, carissimi, a usare la parte migliore dei vostri lobi
frontali per liberarvi dalla paura ingiustificata che ancora vi trattiene
a un livello psichico di esistenza. Come faccio a sapere che è
ingiustificata? Immagino che lo sia, perché se non lo fosse avreste già
chiuso questo libro da un pezzo per proteggere le modeste certezze su cui
si regge il vostro fragile equilibrio mentale. Dal fatto che avete invece
continuato la lettura deduco che il vostro equilibrio non è poi così
fragile, e potete quindi avventurarvi nei territori inesplorati della
riflessione senza rischiare un tracollo psicotico.
Coraggio, dunque, osate mettere in dubbio i capisaldi della vostra
concezione del mondo: a) siete sfortunati; b) non avete trovato la donna
giusta; c) non riuscirete mai a fare il lavoro che vi piace; d) non potete
mettervi in proprio perché rischiereste di non riuscire a pagare i
contributi per la pensione, e non ci dormireste la notte; e) non siete
capaci di farvi amare (o di amare); f) la verità di quanto precede, e di
molte altre analoghe opinioni, è provata da inconfutabili dati di fatto.
Quale che sia il contenuto delle vostre convinzioni, che esso derivi
dall’esperienza o dal ragionamento o vi sia stato rivelato da fonti umane
o divine assolutamente degne di fede, se avete scelto di farne
l’indiscutibile verità su cui si sostiene l’edificio ideologico al riparo
del quale trascorre bene o male la vostra vita, la vostra scelta vi pone
al livello psichico dell’esistenza.
Nel momento in cui i vostri piedi non poggiano più su quella solida
roccia, vi sentite seriamente in pericolo. Per esempio, a) se non è vero
che siete sfortunati, vuol dire che è venuto il momento, a lungo
rimandato, di assumervi le vostre responsabilità; b) se non è vero che non
avete trovato la donna giusta, ne potete dedurre che è ora di darvi da
fare per far funzionare il rapporto con quella che avete; c) se non è vero
che non riuscirete mai a fare il lavoro che vi piace, potreste scoprire
che qualche possibilità invece esiste, purché siate disposti a rinunciare
a uno stipendio garantito a fine mese, alle vacanze pagate e alla TV tutte
le sere (“ma io tengo famiglia”, protesta qualcuno; e con questo? Freud
aveva sei figli e cognata-amante a carico nel momento in cui la
professione privata gli si stava liquefacendo, ma non ci pensò nemmeno di
abbandonare l’attività che lo appassionava per cercare un’entrata sicura e
nessuno morì di fame); d) se non è vero che non riuscirete a dormire
perché la vostra pensione è a rischio, potreste trovarvi a considerare che
all’investimento sul futuro esiste l’alternativa del vivere il presente,
che peraltro vi dà le vertigini; e) se non è vero che siete incapaci di
amare o farvi amare, potreste intuire di avere in voi stessi entrambe le
capacità, ma in questo caso vi spaventerebbe il lavoro ciclopico che vi
aspetta per andare a recuperarle sotto la corazza di puro granito che le
protegge, per poi riattivarle e rimetterle in funzione; f) se vedete le
vostre verità per quello che sono, nient’altro che semplici ipotesi e per
di più invalidanti rispetto alle vostre vere possibilità, vi sentirete
deprivati dei punti fermi intorno ai quali avete organizzato il vostro
quotidiano tran-tran, confusi, smarriti ed esposti alle peggiori
intemperie.
L’essere psichico cerca di costruire per sé e la prole un ambiente in cui
l’imprevedibilità sia ridotta al minimo, il bene e il male siano definiti
nei minimi dettagli in ponderosi volumi ben provvisti di imprimatur, e
persino la morte fisica sia esorcizzata grazie all’esistenza di apposite
località ultraterrene dove le anime potranno godere o soffrire per
l’eternità, a seconda di come si saranno comportate quaggiù.
Ma voi, amici, che avete imparato a dare la giusta importanza ai bisogni
dell’anima, non permettete più a questi di debordare dall’area di loro
competenza e invadere lo spazio propriamente umano. Rinunciando ad abitare
stabilmente le costruzioni psichiche in cui la vita può entrare solo a
patto di non contraddire le leggi e i regolamenti vigenti, uscite all’aria
aperta senza più farvi intimidire dalle minacce che incombono su chi si
sottrae alla tutela di cui l’animale uomo non può fare a meno per vivere.
E se l’animale uomo muore, che ne è dell’uomo? Tranquilli, non l’anima,
solo l’uomo identificato con l’anima ha da togliersi di mezzo perché
l’uomo possa venire al mondo.
E’ stato detto che Socrate è il primo individuo nella storia del pensiero
occidentale. Il che equivale a dire che solo con la riflessione l’uomo si
individua, e dunque diviene propriamente uomo, uscendo dall’indistinzione
della vita del branco.
Con la riflessione si supera il livello subumano, ma perché questo non
basta ancora? Il fatto che l’uomo della riflessione sia un passaggio - un
cavo sospeso nel vuoto - e non un punto d’arrivo, è per voi (e per me) un
motivo di sollievo misto a inquietudine. Sollievo, perché non vi sorride
affatto l’idea di passare la vita a riflettere, magari incalzati da
qualche epigono di Socrate che vi metta implacabilmente di fronte alle
vostre contraddizioni, riducendovi alla fine a balbettare “e come no?”, o
“dici il vero”, al pari dei costernati interlocutori del figlio della
levatrice. Inquietudine, perché vi chiedete: che cosa dovremo abbandonare,
ancora?
Ve lo dico subito, carissimi, non voglio tenervi sulle spine: una volta
imparato a riflettere, cosa non facile, bisogna imparare a smettere di
riflettere, cosa ancora più difficile. La ragione è un bene preziosissimo,
non siamo veramente uomini se non sappiamo usarla fino in fondo, lo
abbiamo appena visto. E tuttavia, come tutti i farmaci, in dosi eccessive
fa male. In effetti è molto facile abusarne, una volta scoperto il suo
potere.
I sintomi di sovradosaggio sono: il bisogno ossessivo di contestare a
chiunque qualsiasi certezza, con particolare predilezione per quelle di
ordine scientifico, politico o religioso; la tendenza a lanciarsi in
ragionamenti a oltranza (a spaccare il capello in quattro) su ogni cosa;
una certa mancanza di spontaneità, accompagnata da qualche difficoltà a
relazionarsi con il prossimo in modo più disteso. Sono sintomi che conosco
bene perché purtroppo io stesso non ne sono esente, come forse non vi è
sfuggito.
Che cosa voleva dire Socrate con le sue ultime parole: dobbiamo un gallo
ad Asclepio? Era un dono rituale, offerto al dio da chi guariva da una
malattia. Ma da quale malattia guariva Socrate, morendo? La vita stessa
era per lui una malattia? O piuttosto una vita oppressa da un eccesso di
razionalità, come ha ipotizzato, a mio avviso giustamente, Nietzsche? Di
certo c’è qualcosa che non va, se un uomo bevendo la cicuta ringrazia gli
dei come se gli facessero un favore: è evidente che troppa riflessione non
aiuta a vivere bene.
Io non vi ho promesso una ricetta per vivere felici, ma solo qualche
suggerimento per riconoscere e gestire meglio le vostre paure. E tuttavia,
come avete potuto constatare, è impossibile trattare il tema della paura
senza collegarlo a quello più vasto dei bisogni e desideri, delle scelte e
dei fini. E allora andiamo fino in fondo, e in un capitolo conclusivo
cerchiamo di vedere perché, se vogliamo liberarci dalle paure irrazionali,
ragionare è necessario, ma in ultima analisi insufficiente.
XIV . Ubi maior
Cadono le barriere materiali, crollano quelle morali alla soddisfazione di
un gran numero di desideri per una grande moltitudine di persone in gran
parte del mondo, in quest’ultimo scorcio di millennio. Ma ora che
abbondano gli oggetti del desiderio e le occasioni per soddisfarlo, il
desiderio stesso sembra ritrarsi, come contrariato da tanta abbondanza. Si
moltiplicano allora gli sforzi per risvegliarlo e rianimarlo, si affollano
gli studi dei sessuologi di persone che portano sempre lo stesso problema:
non riesco a desiderare.
La bestia nera del desiderio, ormai lo sapete bene, è la sua stessa ombra:
la paura. Di non essere all’altezza delle aspettative - nostre, del
partner, della società - in primo luogo: non c’è come dover fornire una
prestazione che lo uccide. Oppure dei nostri desideri ci spaventa
l’abituale disordine e l’ordinaria distruttività. Desideriamo cose che
sicuramente fanno male - alla salute, al matrimonio, alla reputazione - e
non sappiamo desiderare quelle giuste. Senza contare che non siamo affatto
certi di saper distinguere le une dalle altre.
Come facciamo a separare il bene dal male, in presenza di una pluralità di
codici e in assenza di una centrale etica universalmente riconosciuta?
Possiamo fidarci della nostra coscienza? Ma ce l’abbiamo poi una coscienza
capace di valutare rettamente, o abbiamo solo un misero superio - un
impasto di narcisismo infantile e di norme assorbite qua e là?
Siamo confusi, intimoriti dalla nostra confusione, incapaci di orientarci
e colpevoli della nostra incapacità.
Facciamo un passo indietro. Ritorniamo al cogito, unico punto fermo quando
ogni altra cosa è in dubbio, alla coscienza di non saper nulla che è
l’inizio di ogni riflessione. Prendendo le distanze da tutti i saperi
particolari e da tutti i codici di valori, riguadagniamo quella visione che
è tanto imparziale e obiettiva, dunque tanto vera - e su questa visione
basiamo un’azione che è tanto giusta - quanto è possibile a un essere
umano. Recuperiamo insomma quella capacità di intendere e di volere che
avevamo momentaneamente messo da parte, allarmati non dalla morte, ma dal
desiderio di morte di colui che ce l’ha insegnata.
Ora sappiamo che la riflessione non basta, e tuttavia dobbiamo tenerla ben
ferma, e anzi svilupparla e rafforzarla, se vogliamo sperare in un approdo
postriflessivo ed evitare di cadere in qualche buco preriflessivo, come è
capitato a tanti in questo secolo. Non mi riferisco solo a gente comune
come voi e me, ma anche a grandi pensatori come uno di cui vi ho già
parlato, che nella sua veste di rettore di un’università tedesca esortò i
giovani ad affidarsi al Führer. Tanta era la sua ansia di superare il
soggetto, nella pur lodevole intenzione di ritrovare l’essere da questi
smarrito, che rovinò assieme a milioni di altri ben al di sotto della
capacità di critica e di giudizio etico che l’Occidente aveva
faticosamente conquistato nel corso della sua storia.
Tanto più, dunque, occorre riflettere bene, quanto più ci si inoltra nel
territorio in cui la riflessione deve essere abbandonata. Cerchiamo di
chiarire il paradosso.
Abbiamo bisogno di allenare il pensiero, contro la sua naturale tendenza
ad appisolarsi, alla vigilanza, di modo che sia pronto a entrare in azione
quando serve e altrimenti a restarsene in silenzio; ma sempre attivo
quanto basta per distinguere i due casi. La riflessione, come certo
ricordate, è necessaria in primo luogo per stanare i punti di arresto
della corrente vitale - attaccamenti, avversioni, aspettative - che sono
per lo più ben camuffati o giustificati o ignoti all’interessato. Quando
siete in presenza di un blocco, una viscosità, un’incapacità o un’inerzia
del desiderio e del piacere di vivere, dovete sempre sospettare l’azione
inibitoria di qualcosa che potete variamente intendere come conflitto,
fantasia inconscia, idea irrazionale o condizionamento, a seconda delle
vostre preferenze; ma che in tutti i casi vi conviene riconoscere e
neutralizzare.
E se non ci riuscite? In tal caso, mi dispiace: non vi resta che ricorrere
all’aiuto di uno di noi. Questa prospettiva vi indurrà di certo a
moltiplicare gli sforzi e a scoprire in voi stessi risorse analitiche
inaspettate che dispiegherete nel vostro ormai ben collaudato laboratorio
domestico.
Ma consideriamo la possibilità opposta: la corrente vitale non è bloccata,
anzi fluisce gonfia e impetuosa. Vi insospettisce tuttavia la sua scarsa
trasparenza o il suo aspetto francamente limaccioso, che vi sconsiglia di
abbandonarvi fiduciosamente al suo corso.
Mentre nel caso precedente vi impensieriva la presenza di un freno
inibitorio, qui vi preoccupa la sua assenza o debolezza. Se lì occorreva
indagare sulla natura dell’impedimento, qui è urgente affermare il
principio che è il cavaliere, e non il cavallo, a decidere la strada da
prendere. E se il cavaliere non sa dove andare, dev’essere almeno in grado
di tirare le redini e fermarsi sotto il primo albero a riflettere.
Qui comincia il difficile. Imporsi una condotta razionale richiede uno
sforzo di volontà notevole, che non sempre basta; e anche se basta, non è
detto che il risultato sia desiderabile, se è proprio il desiderio ad
andarci di mezzo. Già il vescovo di Ippona ammoniva, in polemica con gli
stoici, che l’esercizio di un rigido controllo razionale tutt’al più
conduce a un’apatica adesione all’ordine dato delle cose, senza che al
desiderio sia offerta alcuna possibilità di riscatto.
Mentre proprio di questo si tratta, carissimi. Più nessuno, alla fine del
ventesimo secolo, vuole barattare i suoi desideri, per quanto bassi, e le
sue passioni, per quanto torbide, con una vita ordinata e ragionevole, nel
fondato timore che ciò voglia dire inamidata. Pochi ormai in Occidente, e
di certo nessuno tra i miei pochissimi lettori, sono ancora disposti a
rinunciare al desiderio di un appagamento terreno in vista di uno
ultraterreno, o magari anche su questa terra, ma da rinviarsi a dopo la
realizzazione dell’ennesimo sogno di società ideale.
Non voglio sostenere che la nostra generazione sia più egocentrica di
quelle che ci hanno preceduto. Al contrario, dato che nell’ultimo mezzo
secolo della nostra storia, grazie a un periodo di pace e benessere mai
visto prima, abbiamo potuto saziare il nostro ego più di quanto sia mai
stato possibile sperare, siamo ora sinceramente interessati a cercare al
di fuori dei suoi confini ciò che al loro interno non si è potuto trovare.
Non è prudente smettere di riflettere prima che sia entrato in scena quel
desiderio in presenza del quale possa valere la massima ubi maior minor
cessat. Le piccole e mediocri ma tenacissime passioni, infatti, non
saranno mai estinte dal più ragionevole dei pensieri, ma solo da una
passione più grande.
Ora, qual è la passione più grande, la passione originaria che mette in
fila tutte le altre? Che sia la passione dell’origine è ben chiaro; ma che
cosa si debba intendere con questo lo è molto meno. Tanto è vero che
sembra scontato, a una moltitudine di persone che hanno passato anni della
loro vita distese su un divano a confabulare, o sedute ad ascoltare le
confabulazioni di altre distese, che per passione originaria si debba
intendere quella del bambino per la madre, altrimenti detta desiderio
edipico (con le varianti canoniche: desiderio della bambina per il padre e
desiderio invertito di entrambi per il genitore dello stesso sesso).
Se così fosse, che si potrà mai fare con una passione tanto malsana quanto
inestirpabile? Si cercherà di risanarla, sapendo che è insanabile, o di
sublimarla, sapendo che ciò vuol dire rivestire di nobili forme l’ignobile
desiderio infantile. Non sarà pertanto improbabile che l’interesse per
l’impossibile compito di crescere, guarire o educare lasci alla fine il
posto al più gratificante, se pure a sua volta un po’ insano, piacere di
inseguire gli intrighi e i maneggi della libido perversa al di sotto di
quanto di più elevato gli uomini si sono inventati per distogliere lo
sguardo dalla loro triste condizione.
Intendiamoci: non mi sogno di negare l’esistenza del conflitto edipico,
piaga non meno reale e ubiquitaria della carie dentale. Nego solo
l’appartenenza di entrambi i malanni all’essenza dell’uomo per evitare di
trovarmi, come terapeuta e come uomo, in un vicolo cieco. Ho bisogno,
invece, di un quid originario che non sia solo il fondamento della vis
medicatrix naturae, cui debbo fare appello come medico, ma soprattutto
sappia attirare il mio desiderio sottraendolo alla fascinazione degli
oggetti infantili: cosa di cui non può fare a meno chi da essi voglia mai
sperare di affrancarsi.
L’errore che rende il tempo perduto introvabile consiste nel cercarlo nel
posto sbagliato: nel passato, storico o mitico, o nel futuro, in questa o
un’altra vita. Poiché sapete bene che non sono un profeta della Nuove Era,
non vi aspettate che ora vi dica che cosa dovete fare per ritrovarlo. Ma
come sia possibile attivare e coltivare un desiderio che non sia vano e
illusorio già in partenza, questo avete il diritto di chiedermelo.
Siete d’accordo che rimpiangere il passato e aspettare il suo ritorno è un
passatempo da nevrotici? Benissimo. Ma se la dimensione da cui siete
usciti - per diventare un soggetto che sta di fronte a un oggetto - è
ancora qui, intatta, nulla vieta che il tragitto sia ripercorso in senso inverso.
Io posso essere qualcuno che sta davanti a qualcosa in quanto quel
qualcuno che io sono e quel qualcosa che ho davanti a me non sono che
parti momentaneamente distinte di un tutto che comprende entrambe. Con
questo tutto la parte non cessa mai di desiderare un ricongiungimento che
nello stesso tempo teme, perché ne potrebbe derivare il suo annullamento
come entità separata. Da qui la tendenziale distruttività del desiderio e
il suo legame essenziale con la paura, che ben conoscete.
Questo significa che il cammino a ritroso, dall’ente separato all’essere,
è equivalente alla morte del primo, o implica comunque un passaggio
mortifero, come un atto perverso o l’assunzione di una droga? Così è in
effetti, quando le due parti di noi - quella che vuole persistere nella
sua separatezza e quella che vuole ricongiungersi al tutto - sono l’una
contro l’altra armate in una lacerante guerra intestina.
L’esistenza di queste due anime era ben nota agli antichi che
distinguevano il tipo di pensiero proprio di ciascuna, detto
rispettivamente dianoetico o discorsivo, e noetico o intuitivo; ed è
confermata dalla moderna neuropsicologia, che ha riconosciuto
nell’emisfero sinistro - sede del linguaggio e delle funzioni analitiche
in genere - la base cerebrale della prima, e in quello destro -
sintetico-olistico - la sede della seconda.
L’emisfero sinistro era detto fino a poco tempo fa dominante, a
testimonianza del fatto che l’Occidente ha sempre privilegiato la logica
rispetto all’intuizione e la parola rispetto al silenzio, al contrario
dell’Oriente. L’espressione tende oggi a essere abbandonata, essendo stato
riconosciuto che ciascuno dei due emisferi ha le sue proprie aree di
influenza. Come nel matrimonio ordinario, in cui il marito ha il potere
economico e la moglie quello domestico e ciascuno dei due usa quello che
ha nel trattamento delle vertenze quotidiane.
La collaborazione che invece voi, carissimi, avete iniziato con vostra
moglie, è assolutamente fuori dell’ordinario e me ne congratulo vivamente.
Incoraggiati dai primi risultati che avete ottenuto, sarete ora
sicuramente interessati ad avviare una collaborazione analogamente
fruttuosa tra le due metà del vostro cervello. Ma per questo occorre che
in primo luogo le rispettive sfere di competenza siano ben definite.
Il pensiero dell’anima dianoetica è razionale, cioè mediato dalla parola,
dal discorso, dal ragionamento; mentre l’anima noetica ha una presa
intuitiva, immediata e diretta sull’esperienza. Se riuscite a mettere a
tacere il chiacchericcio che viene ininterrotto dalla parte sinistra e a
restarvene almeno per qualche attimo in silenzio nella vostra anima di
destra, potete ritrovare quell’esperienza indivisa in cui non ci siete più
voi che vedete qualcosa e mentalmente dite “questo è un albero”, ma c’è la
visione dell’albero, senza alcuna distinzione tra qualcuno che vede e
qualcosa che è visto. In questi momenti si ricompone l’unità e la totalità
del mondo.
Dobbiamo cercare di non cadere nella trappola - o meglio: dobbiamo cercare
di uscire dalla trappola in cui siamo già caduti - di ritenere che il
ragionamento sia più vero e affidabile dell’intuizione o viceversa. In
realtà i nostri ragionamenti possono essere non meno capziosi di quanto
siano fantastiche le nostre intuizioni, dal momento che il pensiero
prodotto da entrambi gli emisferi risente delle influenze provenienti
dalle pulsioni dell’organismo e dalle pressioni del mondo esterno.
Già sappiamo che il nostro io, come entità psicologica, è al servizio di
due o tre padroni; cosa che vale per entrambe le sue funzioni, l’analitica
e la sintetica. Il primo uomo libero e il primo individuo dell’Occidente è
stato colui che, sapendo prendere le distanze e revocare in dubbio ogni
sapere, ha potuto affrancarsi dagli interessi sottesi a ognuno di essi.
Questo soggetto capace di intendere e di volere, che viene al mondo con la
riflessione, è libero tuttavia solo a metà.
Il soggetto socratico-platonico, infatti, non vive bene nella sua pelle,
un involucro di passioni terrene che lo trattiene quaggiù come in una
prigione. Da questo bozzolo egli aspira a liberarsi con un’ascesi
razionale che di gradino in gradino lo porti fino al puro e incontaminato
mondo delle idee. L’ideale freudiano - dov’era l’es deve venire l’io -
riproduce lo stesso movimento di dominio delle passioni corporee mediante
lo strumento analitico-razionale, ed è quindi perfettamente in linea con
il motivo dominante della metafisica occidentale.
Ma voi, che in questo secolo avete assistito alla grandiosa parabola della
psicoanalisi, dall’irresistibile ascesa al lento declino fino al colpo di
grazia - l’abiura di Woody Allen - non potete più accontentarvi di una
mezza libertà, e giustamente la volete tutta. Ora che avete imparato a
riflettere rettamente, volete anche rettamente intuire e sentire. Avete
capito che a questo fine il metodo discorsivo-analitico serve fino a un
certo punto, oltre il quale è di ostacolo. Siete pronti quindi, dopo aver
utilizzato la riflessione per sospendere ogni giudizio e aspettativa, a
sospendere anche questa.
Nella lotta di liberazione della sezione di destra della vostra anima
avete di fronte due nemici. Il primo è il pensiero razionale-analitico
che, indispensabile finché si tratta di analizzare e ragionare, diventa un
impedimento se non si fa da parte quando è venuto il momento di tacere. Il
secondo è interno alla facoltà noetica, e consiste in un’oggettivazione
ingenua dell’esperienza intuitiva: che si verifica quando, invece di
riconoscere nella singolarità della vostra intuizione la vostra verità,
cioè il modo in cui l’essere si rivela a voi personalmente, vi immaginate
che la vostra verità sia la verità, valida ovunque e per chiunque.
Ciò che si mostra alla vostra intuizione è certamente una verità
universale, ma solo nel senso che è il modo in cui l’universo si manifesta
a voi. Se avete una religione (sono convinto che ne avete una, anche se
voi non lo siete), avete perfettamente ragione di considerarla vera e
perfettamente torto di considerarla più vera di un’altra. Ogni cosa è
finita, vi ricorda un grande teologo tedesco, in quanto i suoi confini
sono intagliati nell’infinito. Ogni entità individuale, come singola
realizzazione o incarnazione del mondo delle infinite possibilità, è un
simbolo dell’infinito. La realtà si apre sotto i vostri occhi, se
cominciate a vedere ogni cosa sub specie infinitatis. O, nel caso il
linguaggio bioniano incontrasse il vostro gusto più di quello spinoziano,
se vedete in ogni oggetto K una trasformazione di O.
Eccoci dunque arrivati alla passione originaria, al desiderio di infinito
che anima ogni creatura finita, la porta all’entusiasmo o alla
disperazione attraverso tutta la gamma dei sentimenti intermedi e si
divide in due correnti distinte. Nella prima ha il volto sanguigno
dell’eros regressivo e trasgressivo, incestuoso e perverso, altrettanto
micidiale nella passione amorosa come in quella politica o religiosa.
Nella seconda ha la leggerezza dell’eros vitale, risanativo e
rigenerativo. In ciascuno di noi le due correnti formano una mescolanza
particolare in cui la prima, quasi sempre più abbondante e impetuosa, per
lo più copre fino a obliterare del tutto la seconda.
Che la via regressiva-trasgressiva all’infinito, altrimenti detta
onnipotenza infantile, sia di gran lunga più popolare dell’altra, è un
dato che non ha bisogno di spiegazioni. Sulla prima l’intollerabile senso
di separazione può essere cancellato immediatamente, se pure attraverso
un’appropriazione indebita, una rottura violenta dei confini individuali
propri o altrui, o più semplicemente una fuga nell’immaginario. La seconda
richiede invece un lungo apprendistato, che passa per l’esercizio della
riflessione e arriva a una pratica di ascolto non discorsivo. Bene o male
un certo adattamento alla realtà l’avete raggiunto; ma se ora siete così
ambiziosi da puntare alla conversione del desiderio dalla trasgressione
all’apertura, dovete prendere in considerazione un investimento su questo
obiettivo superiore ai ritagli di tempo e di attenzione che finora gli
avete dedicato.
Ma questa è un’altra storia. Il compito che mi ero dato, e che qui si
conclude, era quello di aiutarvi a distinguere tra paure utili, che vi
sollecitano a far fronte a minacce non immaginarie, e paure superflue o
dannose, radicate in una percezione inadeguata di voi stessi e del mondo.
A questo scopo abbiamo passato in ricognizione le diverse sfere
dell’esistenza - reale, immaginaria e possibile - e per non smarrirci
abbiamo usato una mappa con quattro punti cardinali che collegano due
assi, corrispondenti ai piani psicologico e spirituale dell’esperienza.
Siamo infine giunti a considerare il desiderio, che la paura regolarmente
accompagna come un’ombra trattenendo il desiderante dal compiere gesti
sconsiderati e inducendolo a riflettere sulle conseguenze cui va incontro.
Oltre a questa azione buona e lodevole, tuttavia, la paura ha il potere di
paralizzare il desiderio quando, assecondandolo, rischieremmo di perdere
l’approvazione di coloro senza il cui sostegno pensiamo di non poter
sopravvivere, o di turbare in altro modo l’equilibrio su cui si regge
l’identificazione di noi stessi, senza la quale non sapremmo più chi siamo.
E’ pertanto di cruciale importanza saper distinguere quel desiderio che
dev’essere temuto, tanto che se non lo temete abbastanza finirete per
cacciarvi in qualche guaio, da quello che non è giusto temere, perché ciò
che seguendolo perdereste potete e anzi vi conviene perderlo, se volete
trovare qualcosa che vale molto di più di ciò che per trovarlo avrete
perduto.
Spero, in ogni modo, che almeno in queste pagine abbiate trovato qualcosa
che fa al caso vostro. Se così non fosse, mi dispiacerebbe ma non sarei
pentito di averle scritte, perché scrivendole intendevo soddisfare in
primo luogo il mio desiderio, e non il vostro. Ma, per non sembrarvi fino
in fondo troppo cinico, aggiungerò che cammin facendo mi sono affezionato
a voi, anche se la vostra esistenza è per il momento soltanto virtuale e
non è ancora stata dimostrata.
Questo di per sé non è un inconveniente troppo grande, dato che altre
entità virtuali, la cui esistenza non è mai stata dimostrata, sono state
capaci di ispirare alcuni capolavori immortali. Se quindi voi non avete
una collocazione certa nel mondo reale, la vostra esistenza in quello
possibile, e non solo in quello immaginario, è sicuramente attestata dal
fatto che dialogando con voi ho portato felicemente a termine questo
lavoro.
Prendo dunque congedo, ringraziandovi per la vostra presenza affettuosa,
paziente e giustamente critica. Se avrete messo in pratica qualcuno dei
suggerimenti che vi ho dato, fatemelo sapere: sarò molto lieto di
apprendere che siete dotati anche di un’esistenza reale, oltre che
dell’intelligenza, del buon senso e della buona volontà di cui non ho mai
dubitato.
Tullio Carere
Paura
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